Articolo 18, ma che pena il livello culturale dei nostri imprenditori

Articolo 18, ma che pena il livello culturale dei nostri imprenditori

Un giornalista avveduto come Massimiliano Gallo mi racconta d’aver letto sul Mattino un’intervista a tutta pagina con Antonio D’Amato, imprenditore ed ex presidente di Confindustria. I temi, quelli soliti: la crisi economica, la fatica improba di fare impresa, le tasse che ti strozzano.  Naturalmente, la massima disponibilità, da parte degli imprenditori, “a fare la nostra parte”, dice D’Amato, a patto che. A patto che ci diano libertà di licenziare. Di tutto il gran discorso, questo era il punto fondamentale. Considerazione di Gallo: possibile che invece che trasmettere le proprie sensazioni rispetto all’innovazione, allo sviluppo sociale, insomma con lo sguardo proiettato nel futuro, un uomo che fa impresa ponga al centro della sua esistenza professionale la libertà di licenziare, quasi fosse una soddisfazione personale, una resa dei conti attesa da anni, quasi una ripicca sociale?

Oggi sul Corriere, intervista a Matteo Zoppas, industriale, presidente di Confindustria Venezia e consigliere delegato delle acque minerali San Benedetto, l’azienda di famiglia. L’argomento di partenza è ovviamente l’articolo 18. “Lo si abolisca senza se e senza ma – dice Zoppas – perché è ora di flessibilizzare in uscita, in modo da liberalizzare in entrata”. Sin qui nulla di particolarmente nuovo, nè tanto meno di così scandaloso. Ma poi ci prende gusto, il nostro Zoppas, e alla domanda se non sia  paradossale poter licenziare liberamente per rimettere in carreggiata il Paese, comincia a farsi prudere le mani: “No, si tratta soltanto di concedere alle imprese efficaci riorganizzazioni aziendali seguendo gli spostamenti della domanda, dando la possibilità all’imprenditore di chiudere rami non più remunerativi per scommettere in altri che ritiene più redditizi. E ciò – conclude – lo si fa senza articolo 18″.

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Traduzione simultanea; io imprenditore scommetto sullo sviluppo di un prodotto, investo e dunque assumo alla bisogna. Ma il mercato mi dà una risposta amara, mi certifica che ho scommesso avventatamente, perché il prodotto non sfonda. Quindi si dà “all’imprenditore la possibilità di chiudere rami non più remunerativi…” In buona sostanza silicenziano tutti quelli, o buona parte di quelli che erano stati assunti in quel contesto. Ma andiamo avanti, perché le sorprese non sono finite. Il giornalista del Corriere pone giudiziosamente un’altra domanda e cioè se per far questo non fosse già sufficiente la legge Fornero e qui Zoppas, rappresentante di Confindustria Venezia, dà il meglio: “I costi di contenzioso sono ancora alti, come gli indennizzi riconosciuti ai lavoratori”.

Altra traduzione simultanea: la legge Fornero, che era un buon punto di sintesi tra le varie esigenze (questione esodati a parte), prevedeva appunto indenizzi sensibili in modo da scoraggiare la vena liquidatoria dei nostri bravissimi imprenditori quando le cose non filano. Ma adesso Zoppas ci certifica che quelle soglie sono troppo alte, per cui vanno riviste, se non abbattute.

Traduzione delle traduzioni: l’imprenditore così lo so fare anch’io.

Per tamponare la ciclopica depressione in cui sono caduto, dopo aver verificato il livello culturale dei nostri “migliori” uomini d’impresa, mi sono letto un’intervista di Repubblica a Pietro Ichino, fatta tra l’altro da Griseri, giornalista che sa di lavoro. Qui le cose si sono fatte molto più decenti, sia sotto il profilo del rispetto umano – si parla di lavoratori e non di pacchi da spedire – sia sotto l’aspetto della competenza. E il professor Ichino, certo un uomo non troppo amato a sinistra, analizza le due strade possibili. Quella “che va sotto il nome di Tito Boeri e Pietro Garibaldi prevede che dall’inizio del quarto anno torni ad applicarsi integralmente l’articolo 18. Se si sceglie questa soluzione – analizza Ichino – il rischio è che la parte più debole della forza-lavoro non riesca mai a superare lo “scalone” fra il terzo e il quarto anno. A me dunque sembra preferibile la soluzione che vede crescere gradualmente il costo del licenziamento a carico dell’azienda (capito Zoppas, ndr), e al tempo stesso il sostegno economico e professionale di cui gode il lavoratore licenziato, con il ‘contratto di ricollocazione’”.

Lunga sarà la strada prima di trovare un dignitoso punto di sintesi, soprattutto se il livello degli imprenditori è questo.

Alfano: “Stop a Mare Nostrum, da ottobre ai migranti dovrà pensare l’Ue”

Alfano: “Stop a Mare Nostrum, da ottobre ai migranti dovrà pensare l’Ue”

Ora tocca all’Ue, l’Italia da sola non può fare tutto in termini di accoglienza dei migranti. Lo ha ribadito in conferenza al Viminale il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Secondo il quale: “L’operazione Mare Nostrum non deve fare il secondo compleanno perché nata a termine. Da ottobre deve subentrare Frontex e l’Europa. Se così non fosse il governo italiano dovrà assumere decisioni in materia. Sul fronte dell’immigrazione l’Italia si è dimostrata ancora una volta campione del mondo di accoglienza”.
Primo consuntivo – Nella conferenza stampa al termine della riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, il ministro ha ricordato che “dall’avvio dell’operazione Mare Nostrum, lo scorso 18 ottobre, sono state salvate oltre 70mila persone e non sappiamo quanti di loro sarebbero morti senza la nostra missione. Siamo orgogliosi di aver salvato vite”. La linea, ha aggiunto, “è accogliere chi fugge da guerre e persecuzioni e far rispettare le leggi in Italia. Queste due cose vanno di pari passo”. Alfano ha poi ribadito che “la responsabilità della frontiera del Mediterraneo deve essere europea, i migranti non vogliono venire in Italia ma in Europa e quindi Frontex deve subentrare a Mare nostrum”.
Lavoro: accelerare con le riforme – “Nessun ultimatum, anzi occorre rallentare le polemiche e accelerare le soluzioni” sull’articolo 18: “Il giochino di minacciare la crisi per ottenere di più puzza di naftalina” ha aggiunto Alfano tornando sulle misure per il lavoro. Non importa, chiarisce, andare oltre il 29 agosto (in agenda il Cdm sullo Sblocca Italia): “Non casca il mondo in quella data”, tanto più che “il 2 settembre la commissione Lavoro, presieduta da Sacconi, comincerà appunto a lavorare sul nuovo Statuto dei lavoratori. Noi apriamo a Renzi i varchi, gli diamo la spinta per inserire la sua capacità innovativa e superare le resistenze di parte della sinistra, del suo mondo”. Gli altri obiettivi del Nuovo Centro Destra, dice Alfano sono “il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione: 15 miliardi da immettere nell’economia”, “la semplificazione fiscale, soprattutto a beneficio dei piccoli imprenditori: pagamento in base agli incassi e non alla fatturazione” e “la contrattazione aziendale anziché quella collettiva”. Alfano smentisce poi le voci di rimpasto in autunno e i dissapori con il premier: “Il governo non è un monocolore Pd e non mi pare che Renzi lo gestisca come tale”. “Oggi mi pare che il governo sia ancora in luna di miele”. Sul rapporto con Forza Italia puntualizza: “Siamo noi la start up per un nuovo centro destra, quello vecchio non c’è più”. Quindi la previsione: “A settembre si manifesterà un’area di oltre 80 parlamentari che sosterrà la riforma costituzionale e il governo”, mentre in FI “vedo solo leggerissime torsioni sul busto. Non succede e non succederà nulla da quelle parti”.

Renzi: l’articolo 18 è un totem ideologico, è giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori.

Renzi: l’articolo 18 è un totem ideologico, è giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori. Mai più soldi pubblici ad Alitalia

di 14 agosto 2014

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Argomenti: Governo | Matteo Renzi | Angelino Alfano |Roma (squadra) | Federcalcio | Rai Tre | Juventus |Champions league | Napoli (squadra)

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«È giusto riscrivere lo statuto dei lavoratori? Sì, lo riscriviamo. E riscrivendolo pensiamo alla ragazza di 25 anni che non può aspettare un bambino perché non ha le garanzie minime. Non parliamo solo dell’articolo 18 che riguarda una discussione tra destra e sinistra. Parliamo di come dare lavoro alle nuove generazioni». Lo ha detto il premier Matteo Renzi, nell’intervista a Millennium in onda questa sera su Raitre. «Oggi l’articolo 18 è assolutamente solo un simbolo, un totem ideologico – ha dichiarato Renzi – proprio per questo trovo inutile stare adesso a discutere se abolirlo o meno. Serve solo ad alimentare il dibattito agostano tra gli addetti ai lavori». Passerà Ferragosto a Palazzo Chigi: «è un buon segno, è il segno che ci sono molti cantieri da far partire e che l’Italia può ritrovare slancio e speranza contro tutti questi profeti del pessimismo: i gufi, gli sciacalli, gli avvoltoi. Ormai potremo farne uno zoo».

Smentisco una nuova manovra
Una nuova manovra? «Lo rismentisco. Noi l’abbiamo già fatta la manovra e abbiamo abbassato le tasse», ha detto il premier. «Nella manovra del prossimo anno ci dovranno essere 16 miliardi di riduzione della spesa per stare dentro il 3%, che noi vogliamo rispettare. Per arrivare a questa cifra di solito lo Stato alza le tasse, ma questo meccanismo non si può continuare». Renzi ha detto che il Paese ha più o meno «ha 800 miliardi di spesa pubblica, 16 miliardi sono il 2%, cioè come 20 euro per una famiglia che guadagna mille euro, il 2% si trova agevolmente, ma il punto è capire dove mettiamo i soldi, perchè su alcune voci come la scuola e gli insegnanti bisogna mettere più soldi, bisogna scommettere. Su questo ci sarà una sorpresa a settembre».

Bonus 80 euro: esiste la possibilità di estenderlo
Gli 80 euro potranno essere estesi? «Non lo so, vediamo. Esiste la possibilità di estenderli. Ribadisco: sicuramente lo manteniamo per chi ce l’ha, vediamo se possiamo estenderlo», ha dichiarato Matteo Renzi.

Mai più soldi pubblici ad Alitalia: serve il coraggio di far fallire i carrozzoni
«È del tutto doveroso» non dare mai più soldi pubblici ad Alitalia. «Ne abbiamo messi talmente tanti di soldi pubblici che sarebbe inaccettabile», ha spiegato il premier Matteo Renzi. Ad Alitalia, ha detto Renzi, «è mancata una capacità di guida manageriale forte».
A chi gli chiede se sia stato «sbagliato dare soldi pubblici» alla compagnia di bandiera, Renzi risponde: «Sì. In alcuni casi bisogna avere il coraggio di far fallire alcune aziende che sono dei carrozzoni. Ma bisogna anche far pagare i manager che hanno buttato via i soldi, invece di dargli i premi di produzione. Le regole ci sono già. Basterebbe applicarle. Il problema è che molto spesso, in Italia, si è preferito far finta di niente».

“I CUSTODI DELL’ACQUA”

“I CUSTODI DELL’ACQUA”: IN UN DOCUMENTARIO DUE DONNE RACCONTANO LE BATTAGLIE PER UN BENE COMUNE

 

di Veronica Ulivieri

 

Dietro alla gestione dell’acqua privatizzata, ai tratti di fiumi prosciugati dalle centrali idroelettriche, alle dighe che hanno ucciso gli ecosistemi, ci sono anche Ira e Maria. Le grandi questioni ambientali spesso ci appaiono come scatoloni pieni di denunce inanimate e immagini impressionanti. Quando chiamiamo in causa il fattore umano, è per denunciare i responsabili degli scempi. Ma spesso ci dimentichiamo di chi si trova a convivere con gli scempi al paesaggio in cui vivono. A ricordarcelo ci sono, appunto, le voci di Ira e Maria, protagoniste del documentario “I custodi dell’acqua”. Giulio Squarci, documentarista di 32 anni originario della Carnia, è partito dall’esperienza di queste due donne per raccontare di un equilibrio che si è rotto nella gestione dei sistemi idrici, degli acquedotti, dei torrenti. Prima di tutto nella sua terra, che poi però diventa paradigma anche dell’altrove, dove cambiano i nomi, i luoghi e le date, ma la sostanza rimane spesso immutata.

Il documentario racconta il rapporto atavico con l’acqua e il nuovo impegno collettivo riemerso già negli anni Novanta e poi più di recente in concomitanza con il referendum per proteggere le risorse idriche da incursioni speculative e interessi di parte. Il lungometraggio, che sarà presentato il prossimo 22 marzo durante la Giornata mondiale dell’acqua, è in fase di ultimazione: fino all’8 agosto è aperta su Indiegogo.com una campagna di raccolta fondi a sostegno della fase di postproduzione.

Giulio, come è nato il progetto?

Il progetto è nato quattro anni fa nel vedere persone che avevano costruito l’acquedotto con le loro mani, che avevano portato l’acqua a casa sulle loro spalle, e che si trovavano poi a dover pagare bollette altissime quando la gestione è passata dai Comuni alla S.p.A. Questo però è stato in realtà l’ultima goccia di un processo che anche in Carnia va avanti da decenni. Questa è la regione del Vajont, qui il problema dell’acqua è da sempre molto sentito: qua non c’è mai stata molta militanza ambientale, ma quando si è trattato di difendere questa risorsa, le persone si sono mobilitate, è nata una miriade di comitati. Per queste comunità, è stato un momento di unione. In Carnia il primo comitato è nato negli anni ’90 per la difesa del Tagliamento: nel 1957, con l’entrata in funzione della centrale idroelettrica di Somplago, che ogni giorno immette nel lago notevoli quantità di acqua fredda, la fauna è quasi scomparsa dal lago di Cavazzo. Inoltre, parlando di acqua si parla anche di democrazia: all’inizio ho cercato di evitare il tema spinoso e abusato, ma mi sono dovuto arrendere, perché la gestione dell’acqua, che è un monopolio naturale è strettamente legata all’amministrazione partecipata della cosa pubblica.

Quali sono al momento attuale le situazioni più critiche nell’ambito della gestione delle risorse idriche?

In questo momento si sta discutendo per esempio dello svuotamento della diga di Verzegnis, dopo che l’anno scorso i fanghi della diga di Sauris sono stati tutti sversati lungo un torrente, uccidendo l’ecosistema. C’è poi il progetto di un elettrodotto che dovrebbe attraversare la valle di But, mentre molti fiumi, a partire dal Tagliamento, in certi tratti sono prosciugati dalle troppe derivazioni idroelettriche.

Come hai scelto le due protagoniste?

In questi anni ho seguito da vicino i movimenti per l’acqua e ho conosciuto molte persone impegnate per la difesa delle risorse idriche. Ho scelto due donne perché penso che l’acqua sia un tema molto femminile. Maria è un’anziana signora che abita in un paesino della Carnia e produce ancora da sola quello che mangia: l’ho scelta perché, nella sua semplicità e autenticità, è una filosofa del vivere in montagna. È una persona estremamente poetica e ha una sensibilità molto alta, dotata di una visione del mondo completa. Ira è invece un’attivista, di quelle che vanno casa per casa per informare sui problemi e mobilitare le persone. Nel documentario ci sono anche altri personaggi più marginali. Ho escluso volutamente i politici: il tema riguarda tutti così da vicino che ho deciso di non avere bandiere di nessun tipo.

Prima dicevi che l’acqua è un tema femminile: l’acqua dà la vita, e in questo senso è madre. C’è anche altro?

Sì, assolutamente. In tutte le assemblee che sono state fatte per spiegare alle persone cosa stava succedendo, così come quando c’era da scendere in piazza, ad organizzare le mobilitazioni erano quasi sempre le donne. Inoltre, in montagna la società è ancora matriarcale: sono le donne che, gestendo il budget e facendo la spesa, hanno il polso della situazione, anche per quando riguarda le bollette. E poi in passato il luogo di socializzazione delle donne era la fontana. Anche oggi le donne si sono riunite intorno all’acqua, ma hanno trovato simbolicamente la fontana chiusa.

Che aria si respira oggi in Carnia tra i movimenti per l’acqua?

C’è un po’ di delusione, perché la società di gestione delle risorse idriche rimarrà, ma vedo anche molti piccoli semi di speranza tra i giovani. Questo documentario è anche per raccontare alle persone il gran lavoro che si è fatto in Carnia e che ha portato alla vittoria dei sì al referendum. Quella è stata una vittoria per tutta l’Italia: non tutti i 27 milioni di persone che hanno votato contro la privatizzazione della gestione si sono continuati a interessare di acqua, ma molti sì. E non è finita: la sfida del futuro mette in gioco la nostra capacità di bloccare un certo sistema di gestione dell’acqua e più in generale del territorio. Come dicono gli anziani qui, se la montagna si spopola cade tutto: oggi vivere in montagna è difficilissimo, ma se ce ne andiamo noi arriveranno gli speculatori, persone che non hanno a cuore questi luoghi, ma solo i propri interessi.

Tetto agli stipendi: la casta non li rispetta

Tetto agli stipendi: la casta non li rispetta

Tetto agli stipendi: la casta non li rispetta

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La casta invisibile è quella che, all’ombra della politica, presidia le società controllate dalla politica, gestendo (spesso a beneficio della politica) potere e affari. In cambio ha compensi di tutto rilievo. Dal 1 aprile 2014 è stato però posto un tetto agli stipendi dei supermanager pubblici. Certamente a quelli delle società controllate direttamente o indirettamente dal Tesoro: non un pesce d’aprile, ma una soglia di 300mila euro l’anno oltre la quale non si deve andare. Quel tetto dovrebbe valere anche per le società pubbliche controllate da Regioni e Comuni. Così ora la Corte dei conti della Lombardia ha preparato un dossier che segnala gli uomini d’oro che invece quel tetto lo hanno sfondato. Ecco chi sono.

Il primo è nientemeno che Antonio Rognoni, ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, la società che fu creata dall’allora presidente Roberto Formigoni per gestire tutti i grandi appalti lombardi, compresi quelli di Expo. Rognoni porta a casa la cifra record di ben 953.526,95 euro, tre volte il compenso massimo indicato dalla legge, raggiunto sommando il suo ruolo di direttore generale (284mila euro), quello di direttore lavori (303mila) e gli incarichi in Cal, la società Concessioni autostradali lombarde (altri 367mila euro). Un uomo che ne vale tre. Il 20 marzo, Rognoni è stato arrestato, nel corso delle indagini su Infrastrutture Lombarde ed Expo. E a giugno è stato rinviato a giudizio immediato per associazione a delinquere e turbativa d’asta.

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Il secondo della lista è Giuseppe Sala, il plenipotenziario dell’Expo, che supera il tetto con 430.615,20 euro, sommando gli emolumenti di amministratore delegato (270 parte fissa, più 126 parte variabile) e di consigliere d’amministrazione (27mila) di Expo 2015 spa. I dati della Corte dei conti si riferiscono al 2013 e segnalano anche altri due supermanager oltre la soglia: Giorgio Papa, direttore generale di Finlombarda, la cassaforte finanziaria della Regione, che porta a casa 319.945,36 euro; e Luigi Legnani, amministratore delegato di Trenord e vicedirettore generale di Fnm, con 319.305 euro. All’elenco della magistratura contabile manca almeno un altro supermanager lombardo: Stefano Cetti, ai vertici di Mm spa, rimasta fuori dall’analisi della Corte dei conti perché è controllata non dalla Regione, ma dal Comune di Milano. È la società omologa di Infrastrutture Lombarde, è l’appaltificio del Comune, anch’esso coinvolto nei lavori per Expo.

Stefano Cetti raggiunge la cifra di 340,6mila euro l’anno, sommando gli emolumenti di direttore generale di Mm (210 parte fissa, più 105,6 parte variabile) e di amministratore unico di Metro Engineering srl (25mila euro), società impegnata tra l’altro nella Brebemi, la nuova autostrada Milano-Brescia.

Cetti è rimasto eroicamente al suo posto anche quando le intercettazioni dell’indagine sulla “cupola degli appalti” hanno svelato i suoi intensi rapporti con il capo della “cupola”, Gianstefano Frigerio, arrestato l’8 maggio 2014: lo incontrava e lo riveriva, garantendogli un contatto dentro Mm. Telefonate, appuntamenti, cene: niente di penalmente rilevante, hanno stabilito i magistrati, ma certo professionalmente imbarazzante. Frigerio, intercettato, diceva: “Cetti è importante, eh, perché tutte le robe della metropolitana… lì verranno fuori anche un sacco di lavori…Cetti mi ha detto ‘ci sono anche delle strade di collegamento prima dell’Expo’”. Poi, riferendosi a Cetti e ad Angelo Paris (il manager di Expo arrestato insieme a Frigerio e a Primo Greganti), aggiungeva: “Sono dei miei ragazzi… almeno quei due, quei due lì li faccio correre”.

Italiane rapite in Siria, assessore Varese: “Partite per farsi selfie coi ribelli”

Italiane rapite in Siria, assessore Varese: “Partite per farsi selfie coi ribelli”

Il sottosegretario Pistelli ricorda che “la Farnesina si è mossa fin dal primo giorno” del sequestro di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli. Il componente della giunta varesina Stefano Clerici su Facebook: “Due sprovvedute. Da bambine è bene che non si giochi alle ‘piccole umanitarie’, ma con le barbie. Il riscatto? lo farei eventualmente pagare ai loro ancor più sprovveduti genitori”

Italiane rapite in Siria, assessore Varese: “Partite per farsi selfie coi ribelli”

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“Da prima che la notizia fosse nota che noi siamo sulle tracce, alla caccia del gruppo che ha preso le due ragazze”. Il vice ministro degli Esteri, Lapo Pistelli, dai microfoni di SkyTg24 interviene sul sequestro in Siria di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, le due volontarie rapite nei giorni scorsi ad Aleppo. Pistelli assicura che ”la Farnesina si è mossa fin dal primo giorno, cioè sei giorni prima che la notizia fosse nota al grande pubblico” ma sottolinea anche che nella gestione del caso servono “discrezione e silenzio”.

Le piste aperte – Intanto gli inquirenti lasciano tutte le piste aperte e non escludono anche l’ipotesi che le due giovani siano state cedute ad altre organizzazioni per gestire una trattativa ed ottenere un riscatto. Le due cooperanti sarebbero state rapite nel villaggio di El Ismo, a ovest di Aleppo, da uomini armati dalla casa di quello che viene indicato come il “capo del Consiglio rivoluzionario” locale, presso il quale erano ospitate. Una zona, quella del nord del Siria, dove ribelli, jihadistiislamici e bande di criminali comuni si contendono il territorio, e dove il business dei ricatti è la principale fonte di sostentamento di molti gruppi estremisti.

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In questo scenario caotico, il primo obiettivo è di individuare chi gestisce materialmente il sequestro delle due cooperanti nella fase attuale, che intenzioni abbia, e trovare un canale di collegamento affidabile per intavolare una trattativa, fanno sapere fonti vicine all’inchiesta, specificando tuttavia che “è ancora troppo presto e tutti gli scenari sono aperti”. Sulla base delle esperienze passate, viene ritenuta “concreta” l’ipotesi che Vanessa e Greta possano passare da un gruppo ad un altro, anche se “non ci sono evidenze certe”.

Le famiglie – Nei paesi d’origine delle due ragazze, appena ventenni, cresce l’attesa e la preoccupazione. A Gavirate, piccolo comune della provincia di Varese, la famiglia di Greta Ramelli resta chiusa. A parenti e conoscenti è stata data la consegna del silenzio non solo per favorire l’opera della Farnesina, ma anche perchè la famigliaRamelli ha chiesto così, in maniera ancor più diretta dopo l’arrivo dei giornalisti davanti alle finestre di casa. E la comunità partecipa all’apprensione della famiglia ma senza organizzare iniziative di solidarietà per il momento, ha spiegato il sindaco Silvana Alberio, sottolineando che c’è già “tanto clamore mediatico”. A Brembate, nel Bergamasco, il padre di Vanessa MarzulloSalvatore, ha raccontato in un’intervista che la figlia aveva deciso di partire – per la terza volta verso la Siria – contro la volontà dei familiari, perché “convinta che per aiutare i bambini siriani dovesse andare da loro”. Il signor Marzullo anche ieri era a Roma per incontrare i funzionari della Farnesina (che ha visto “molto attenti” al caso). In attesa, ha spiegato, che arrivi la tanto sospirata “buona notizia”.

La polemica dell’assessore di Varese: “No a riscatto a spese nostre per due sprovvedute” – Mentre la Farnesina lavora per rintracciare la due ragazze rapite, è l’assessore alla tutela ambientale del Comune di Varese Stefano Clerici (Pdl) a sollevare la polemica su un eventuale riscatto a spese dei contribuenti per riportare a casa Vanessa a Greta, che lui definisce “due sprovvedute” (leggi). Sempre su facebook, nel 2012 Clerici – che nella foto del profilo ha la bandiera siriana – si era espresso a favore del dittatore Bashar al-Assad, postando una sua immagine con lo status “Tieni duro presidente”. Nel 2011, tra l’altro, da assessore aveva inaugurato i giardini a Varese dedicati al teorico del fascismo Giovanni Gentile. “Ora mi chiedo – scrive Clerici commentando il rapimento delle cooperanti ad Aleppo – per le due sprovvedute (sarò diplomatico) partite per farsi i selfie tra i ribelli siriani è giusto che si mobiliti la diplomazia internazionale? Si, per carità. Ma che addirittura si ipotizzi il pagamento di un riscatto a spese nostre? Io lo farei eventualmente pagare ai loro ancor più sprovveduti genitori”.

Poi aggiunge: “Umanamente mi dispiace, per carità, ma con la guerra non si scherza e da bambine è bene che non si giochi alle ‘piccole umanitarie’, ma con le barbie. Perché se parti con l’incosciente presunzione di risolvere un problema e poi, paradossalmente, il problema diventi tu, non può essere la collettività a pagarne il prezzo. Ora speriamo solo che tornino sane e salve a casa, che imparino la lezione e che tacciano, perché l’idea che due ragazzine siano in mano a dei terroristi islamici senza alcuno scrupolo mi fa gelare il sangue nelle vene”. Parole accompagnate dal link a un articolo dal titolo “Le stronzette di Aleppo” (leggi). Il pezzo è tratto dalla rivista online Effedieffe, stesso nome della casa editrice diretta da Maurizio Blondet che firma l’articolo. Si definisce di “orientamento cattolico, senza cedimenti o concessioni alle derive vaticanosecondiste“.

Nell’articolo Blondet scrive che le due ragazze – “sempre teneramente abbracciate (inseparabili, lacrimano i giornali), forse per fare intendere di essere un po’ lesbiche (è di moda)” – “nella loro ultima telefonata chiedevano altri fondi. Pericolo per le loro faccine angeliche, o le loro tenerissime vagine? No, erano sicure: avevano capito una volta per tutte che i cattivi erano quelli di Assad, e loro stavano coi buoni, i ribelli. E i buoni garantivano per loro. Si sentivano protette. Nell’ultima telefonata hanno detto che avevano l’intenzione di restare lì”. E prosegue: “Un Paese serio le abbandonerebbe ai buoni, visto che l’hanno voluto impicciandosi di una guerra non loro di cui non capiscono niente […] Invece la Farnesina s’è subito attivata, il che significa una cosa: a noi contribuenti toccherà pagare il riscatto che i loro amici, tagliagole e criminali, ossia buoni, chiederanno. E siccome le sciagure non vengono mai sole, queste due torneranno vegete, saranno ricevute al Quirinale, i media verseranno fiumi di tenerezza, e pontificheranno da ogni video su interventi umanitari, politiche di assistenza, Siria e buoni e cattivi di cui hanno capito tutto una volta per tutte. Insomma, avremmo due altre Boldrini“.

Lavori al Nord e risiedi al Sud? Altri tre mesi di cassintegrazione

Lavori al Nord e risiedi al Sud? Altri tre mesi di cassintegrazione

Bufera in Lombardia per il decreto che “regala” 90 giorni in più di ammortizzatori a chi viene dalle regioni meridionali. E nella scuola è caos per le cattedre occupate dai fuori sede

 – Dom, 10/08/2014 – 08:32

Milano – Peggio di fomentare la guerra tra poveri (soprattutto in tempo di crisi), c’è solo fomentare la guerra tra poveri seminando in aggiunta discriminazione e quindi inevitabile zizzania tra gente del Nord e gente del Sud.

Un’impresa riuscita al governo se è vero che essere «meridionali» vale tre mesi in più di mobilità in deroga, oppure un posto in cima alle graduatorie per diventare insegnante di ruolo. Non al Sud, ma nel ben più accogliente Nord e scalzando gli insegnanti locali fino a quel momento pronti a salire in cattedra. Attoniti di fronte all’assalto dato da campani e siciliani con il trasferimento chiesto in extremis nelle graduatorie dei precari nelle regioni della «Padania». Non trastulli sociologici, ma mesi di stipendio per chi oggi non solo non arriva a fine mese, ma con questa disoccupazione record il mese non ha nemmeno modo di cominciarlo.

C’è subbuglio, in Lombardia, dopo il decreto dei ministeri del Lavoro e dell’Economia per i «nuovi criteri per l’erogazione degli ammortizzatori sociali in deroga». Parla di cassa integrazione e di mobilità e stabilisce che per «i lavoratori che hanno già utilizzato la mobilità in deroga per periodi pari o superiori a 3 anni, il periodo massimo concedibile sarà di 5 mesi, che diventano 8 mesi nelle aree del Mezzogiorno». Non solo. «Per i lavoratori che hanno utilizzato la mobilità in deroga per periodi inferiori ai 3 anni» i mesi saranno 7, ma «diventano 10 nelle aree del Mezzogiorno». Tre mesi in più se sei meridionale. Un beneficio che ha mandato in bestia tanti. Perché non solo chi lavora al Sud è ancora una volta privilegiato (e assistito), ma lo è anche se lavorando al Nord con tanto di domicilio, ha mantenuto la sua originaria residenza. Molti, in Lombardia, i casi di operai della stessa fabbrica con diverso trattamento: 7 mesi agli uni, 10 agli altri.

E non si fermano anche le polemiche per l’assalto sudista alle graduatorie della scuola. Perché su 33.380 immissioni in ruolo (28.781 docenti e 4.599 non docenti) in gran parte nelle regioni settentrionali, ben poche andranno agli insegnanti lì residenti. Perché, a differenza del passato, è stato possibile cambiare graduatoria e le 29mila cattedre andranno metà ai vincitori di concorso e metà alle graduatorie provinciali a esaurimento. Tolto dall’allora ministro Carrozza il vincolo dei 5 anni nella provincia di prima nomina in ruolo, ora ridotto a tre, internet ha fatto il resto con siti per capire su quale provincia puntare. A Torino la maestra elementare che era prima è finita al numero 69, superata da sessantotto colleghi in arrivo da altra regione. E delle 129 cattedre su cui puntavano i precari storici, 108 saranno assegnate a nuovi arrivati. Metà sono siciliani. A Milano nella scuola primaria tutti i posti fino al 237 sono occupati da insegnanti che arrivano da fuori. In provincia di Lucca, dieci degli undici immessi in ruolo saranno siciliani, calabresi e campani. A Bergamo tutti i 5 posti vanno a maestri del Sud. Difficile stupirsi se il segretario della Lega Matteo Salvini chiede «concorsi pubblici regionali». A Pavia una maestra precaria da 17 anni era finalmente ventesima e a un passo dalla cattedra, ora è trentanovesima. Una cinquantenne ha perso trenta posizioni e si è rassegnata ad andare in pensione da precaria. A Torino assegnate agli insegnanti del Sud l’84 per cento delle cattedre, nella scuola primaria di Milano il 98. Tante piccole storie, ma di grande ingiustizia.

SPALMA INCENTIVI, DENUNCIA DI ASSORINNOVABILI ALLA COMMISSIONE UE

SPALMA INCENTIVI, DENUNCIA DI ASSORINNOVABILI ALLA COMMISSIONE UE

 

In vista della definitiva approvazione del provvedimento da parte del Senato, l’associazione ha deciso di chiedere alla Commissione Europea l’apertura di una procedura di infrazione ai danni dell’Italia

“A seguito dell’approvazione del Decreto Competitività da parte della Camera, rimangono al Parlamento e al governo margini sempre più esigui per evitare la fuga dall’Italia degli investitori esteri e le migliaia di contenziosi che esporranno il nostro Paese a pesanti risarcimenti e bruttissime figure”. Così assoRinnovabili, a proposito della recente approvazione alla Camera del provvedimento spalma incentivi.

In vista della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (con l’ultima approvazione del Senato che avverrà nei prossimi giorni), l’associazione ha deciso, insieme a una cinquantina di grandi operatori fotovoltaici, di scrivere alla Commissione Europea chiedendo l’apertura di una procedura di infrazione contro lo Stato Italiano per violazione della Direttiva 2009/28/CE che aveva fissato i target europei per lo sviluppo delle energie rinnovabili.

Non appena la norma entrerà in vigore, assoRinnovabili coordinerà poi i ricorsi degli operatori, sia nazionali sia esteri (le adesioni sono già molto numerose), “ingiustamente penalizzati da un provvedimento che modifica unilateralmente e retroattivamente i contratti sottoscritti con il GSE”.

Due i filoni già attivati: il primo, a cui parteciperanno gli operatori italiani, mira ad ottenere la dichiarazione di incostituzionalità dello spalma incentivi, come già segnalato dal presidente emerito della Corte Costituzionale Prof. Valerio Onida; il secondo, riservato invece agli investitori esteri, dimostrerà che è stato violato il Trattato sulla Carta dell’Energia che tutela gli investimenti nei Paesi aderenti (tra cui l’Italia).

“Auspichiamo ancora che il governo metta riparo all’errore strategico insito nel provvedimento spalma incentivi – ha dichiarato Agostino Re Rebaudengo, presidente di assoRinnovabili –. Se ciò non avverrà, ricorreremo in tutte le sedi possibili e rappresenteremo tutte le parti coinvolte e danneggiate da questa norma, miope e controproducente. La recente sentenza della Corte Costituzionale bulgara, che ha annullato una tassa retroattiva del 20% sui ricavi degli impianti fotovoltaici ed eolici, dimostra che la certezza del diritto non può essere stravolta: siamo sicuri che anche la Corte Costituzionale italiana giungerà alle medesime conclusioni”.

Sant’Anna di Stazzema, “Mio zio SS trucidò la vostra gente. Piango, dovevano punirlo”

Sant’Anna di Stazzema, “Mio zio SS trucidò la vostra gente. Piango, dovevano punirlo”

1944-2014. La lettera, inedita, che il nipote di Heinrich Schendel, uno degli 8 componenti della 16esima divisione Reichsführer SS, ha spedito a Enrico Pieri, uno dei pochi sopravvissuti all’eccidio nazista del 1944, di cui ricorre il 70esimo il 12 agosto. “La voglio conoscere, ma non avevo il coraggio di scrivere. Quando ho letto i racconti dei testimoni mi è venuto da piangere. Il fatto che gli assassini potevano vivere solo con la menzogna e l’inganno di se stessi, mi fa pensare che forse anche lì c’è una forma di giustizia”

Sant’Anna di Stazzema, “Mio zio SS trucidò la vostra gente. Piango, dovevano punirlo”

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“Lei non mi conosce e non so se ha voglia di leggere la mia lettera. Mi chiamo Andreas Schenkel, ho 42 anni e sono un nipote di Heinrich Schendel, uno degli assassini di Sant’Anna”. La Storia ha un modo misterioso di fare le presentazioni. Quella della famiglia di un soldato delle SS con Enrico Pieri, superstite di Sant’Anna di Stazzema, arriva solo oggi, 70 anni dopo la strage nazifascista che lo ha lasciato solo al mondo, a 10 anni, con il terrore nel cuore. Arriva sotto forma di una lettera di due pagine scritte al computer in times new roman e spedite dal nipote di uno dei tedeschi che il12 agosto del 1944 giunsero nel paesino versiliese all’alba, accompagnati da fascisti locali.  A Sant’Anna le SS scaricarono le mitragliatrici su 560 persone indifese, squartarono la pancia a donne incinte. Nei forni, accesi per cuocere il pane, chiusero bambini ancora vivi. Altri, i più piccoli, furono lanciati in aria per un tiro al bersaglio. Un eccidio programmato al dettaglio, per terrorizzare la popolazione e isolare i partigiani.

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Enrico Pieri quel giorno sopravvisse a tutta la famiglia, nascondendosi in un sottoscala. Oggi ha 80 anni e ha ricevuto una lettera, che affida a ilfattoquotidiano.it perché venga pubblicata. A scriverla è Andreas Schendel. Suo zio Heinrich, fratello maggiore di suo padre, era uno degli otto componenti della 16esima divisione corazzata “Reichsführer SS” (il grado più alto tra le Schutz Staffeln) ancora vivi quando, nel 2005, il tribunale militare di La Spezia li ha condannati all’ergastolo, che nessuno ha scontato.

“Mio zio Heinrich è morto un anno fa a 91 anni” fa sapere Andreas. Ma in tutto questo tempo nessuno, nella famiglia Schendel, ha mai voluto parlare di Sant’Anna. “Mia nonna si è suicidata dopo la fine della guerra. Suo figlio Heinrich ha lasciato la famiglia e ha rotto ogni contatto. Ciò che era successo allora ha prodotto una famiglia diuomini soli e infelici. Dopo i funerali di mio zio – continua l’uomo – mio padre ha parlato con i familiari di Heinrich e tutti negavano quello che era successo. Il fatto che gli assassini e le loro famiglie potevano continuare a vivere soltanto con la menzogna e l’inganno di se stessi e che gli assassini non hanno vissuto bene, mi fa pensare che forse anche lì c’è una forma di giustizia. Ma sono delle questioni molto difficili… e mi chiedo cosa ne pensa Lei…”.

Andreas Schendel ha scoperto per caso la verità da grande, solo sei anni fa. “Da allora – confessa al sopravvissuto – sento il bisogno di scriverle e di parlarle”. Il giovane Schendel aveva scritto a Pieri molte altre lettere, ma questa è la prima che ha avuto il coraggio di spedire, dopo essere stato ossessionato da ricordi di fatti che non ha mai vissuto, quelli del 12 agosto 1944 a Sant’Anna. “Ho letto il racconto dei testimoni dell’eccidio e mi è venuto da piangere. Nella mia mente sono impresse delle immagini incancellabili ormai da anni. Purtroppo non ho nessuno in famiglia che vorrebbe parlarne”.

Schendel confida anche alcuni presagi, vere e proprie visioni di morte, che lo hanno inseguito durante l’infanzia e che, da adulto, ha creduto di ricollegare a Sant’Anna. “Fin da bambino ho avvertito istintivamente molte cose. Sono cresciuto in campagna e spesso giocavo nel bosco, giocavo alla guerra, e mi sembrava che lì fossero nascosti tanti cadaveri di donne e bambini e che io in qualche modo ne fossi responsabile. Non capivo quelle mie fantasie, fino a quando non sono venuto a sapere di Sant’Anna”. Suggestioni misteriose che il nipote del carnefice definisce “fantasie tremende e inspiegabili”, dettate da un intreccio di destini e silenzi familiari che adesso è più che mai deciso a rompere. “Io ho la fortuna di appartenere a quella piccola parte della famiglia che ama la vita – scrive Schendel – e forse per questo ho la forza di confrontarmi con il passato”.

Andreas vorrebbe visitare Sant’Anna con suo padre, il fratello minore di Heinrich Schendel. Conclude la lettera ringraziando Pieri per averlo “guarito” con il suo impegno a favore della memoria e augura a lui e alla sua nuova famiglia ogni bene. “Gli ho risposto. Gli ho scritto una lettera. Il perdono? No, quello non lo posso dare. Ma lui non ha nessuna colpa. Gli ho scritto che venga a Sant’Anna se vuole rendersi conto di cosa è successo” dice Pieri a ilfattoquotidiano.it. E della madre dell’assassino, che dopo la guerra si è tolta la vita, non si stupisce più di tanto. “Penso che non fosse l’unica ad avere dei rimorsi. Lui dice che la sua famiglia ha pagato. Uno che ha commesso dei delitti, che ha ammazzato dei bambini, qualche rimorso ce lo dovrà pur avere, tranquillo non sta, a meno che non sia un criminale di professione. Però non tutti vanno dietro agli ordini, c’è chi ha rinunciato a sparare”. “Purtroppo – conclude – sono stati pochi”.

P.A., via ‘quota 96’ e pensioni d’ufficio riviste.

P.A., via ‘quota 96’ e pensioni d’ufficio riviste. Renzi lavora a intervento più ampio

Un emendamento del governo al dl P.A. rivede i limiti d’età per il pensionamento d’ufficio ed elimina il tetto di 68 anni per professori e medici. Ok di Renzi, verso una nuova misura

Roma, 4 agosto 2014 – Governo, via la ‘quota 96’ e pensionamenti d’ufficio rivisti. La commissione Affari Costituzionali del Senato ha dato l’ok al testo del decreto legge sulla Pubblica amministrazione, inserendo 4 modifiche rispetto al provvedimento uscito dalla Camera. Si tratta degli emendamenti del governo, tra cui la cancellazione della quota 96, la norma che liberava 4 mila pensionamenti nella scuola.

Il ministro della P.A. Marianna Madia aveva annunciato questa mattina uno degli emendamenti proposti, che riguarda la revisione dei limiti di età per il pensionamento d’ufficio, e la conseguente eliminazione del tetto dei 68 anni previsto per professori universitari e medici. A chi le aveva domandato se la fiducia sul decreto P.A. fosse ormai scontata, il ministro aveva risposto: “Dobbiamo correre e, a questo punto, visto che è stata messa alla Camera, mi sembra ragionevole“. Il ministro ha specificato che una delle modifiche riguarda la cosiddetta ‘quota 96’, che sblocca 4 mila pensionamenti nella scuola, un’altra i benefici previsti per le vittime del terrorismo. Una terza rivede i limiti di età per il pensionamento d’ufficio ed elimina quindi il tetto dei 68 anni per i professori universitari e i primari. Non mutano infine le soglie per tutti gli altri dipendenti pubblici: 62 anni e 65 per i medici.

Non ha tardato ad arrivare l’attacco al governo da parte di Sel per gli emendamenti annunciati al dl P.A.: “Non si gioca sulla pelle delle persone. I quota 96 – afferma il capogruppo alla Camera Arturo Scotto – hanno già vissuto un’ingiustizia dalla riforma Fornero che li ha penalizzati e lasciati senza pensione pur avendo i requisiti, e ora il governo Renzi prima li illude alla Camera e poi li disillude al Senato”. Il capogruppo poi rincara la dose: “Una scelta inaccettabile, l’ennesimo sopruso e un’ulteriore beffa, che rinvia di nuovo una decisione attesa da migliaia di lavoratori della scuola e che impedisce il ricambio generazionale in due settori professionali importanti. Ma Renzi non doveva cambiare verso?”.

Giusto togliere dal dl P.A. la ‘quota 96′, che sbloccava 4mila pensionamenti nella scuola, non c’entrava nulla con la ratio e l’idea della norma. E’ il parere del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, riguardo la decisione dell’esecutivo annunciata dal ministro Madia. Il premier oggi ha visto il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. Sulla scuola il presidente del Consiglio e il ministro stanno preparando, si apprende, un intervento a fine agosto, assai più ampio come platea del perimetro dei 4mila pensionamenti. Il Capo dell’esecutivo oggi ha incontrato anche gli altri ministri Franceschini e Boschi.

IL COMMENTO DELLA CGIL SUL DL P.A.:”Sarebbe molto grave se non si provvedesse a risolvere il problema dei ‘quota 96’ e gli altri temi su cui era intervenuta la Camera”. Lo ha detto la segretaria confederale della Cgil, Gianna Fracassi, a margine di una conferenza stampa in corso d’Italia. “La Cgil – ricorda la sindacalista – è in campo con una vertenza unitaria per chiedere di cambiare la riforma Fornero”. Rispetto agli emendamenti annunciati dal governo, Fracassi osserva che “si torna indietro rispetto a quanto definito alla Camera e questo è sbagliato. Sono sbagliati tutti gli emendamenti che determinano un peggioramento delle condizioni dei lavoratori”. Nello specifico, su ‘quota 96’ “bisogna correggere un errore tecnico. Siamo preoccupati – conclude Fracassi – se in una settimana il governo torna indietro. Auspichiamo una soluzione in tempi brevi”.

I QUOTA 96 – Sono circa 4 mila gli insegnanti che non sono potuti andare in pensione nonostante i requisiti (61 anni di età e 35 di contributi oppure 60 anni di età e 36 di contributi) a causa della riforma Fornero. Nell’applicazione di questa normativa non è stata infatti considerata una delle peculiarità del settore scuola, ovvero che la data di pensionamento è necessariamente legata alla conclusione dell’anno scolastico. La cosiddetta ‘quota 96’ era stata duramente attaccata da Carlo Cottarelli, commissario alla spendig review, che aveva criticato la decisione dei tagli alle tasse a fronte delle richieste della politica di dirottare le risorse altrove. I rilievi della Ragioneria di Stato, tuttavia, hanno evidenziato la norma tra quelle in difetto di copertura.

PENSIONAMENTO D’UFFICIO – Inoltre un emendamento del governo rivede i limiti d’età per il pensionamento d’ufficio, eliminando il tetto dei 68 anni inserito per professori universitari e medici.