COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

 

di Checchino Antonini, da Liberazione

 

Era il 5 febbraio del 2000, governava Massimo D’Alema, quando entrò in vigore la liberalizzazione del mercato dell’oro. Da allora i “compro oro” hanno preso a spuntare come i funghi contribuendo a ridisegnare il paesaggio metropolitano al tempo della crisi. Vendere i gioielli di famiglia non è solo la metafora della dismissione del patrimonio pubblico ma la pratica quotidiana di famiglie colpite dalla sindrome della quarta settimana – spesso della terza – di malati cronici ai quali viene negato l’accesso gratuito ai farmaci di fascia C, di malati di gioco d’azzardo, di cittadini strozzati dall’usura o imprenditori cui è negato il credito in banca. Ma è anche il luogo dell’intreccio tra queste disperazioni e il lavoro incessante dell’economia criminale per ricettare o ripulire le quantità di denaro provenienti da altri business delle cosche. Ancora meno del denaro contante, l’oro non puzza e nemmeno è tracciabile quando viene fuso.

«Non ci vuole una professionalità specifica e nemmeno una trafila burocratica complicata. Le direttive dell’Agenzia per le Entrate sono confuse ma basta una licenza ex articolo 127 del Tulps come una rivendita di preziosi usati. Non serve nemmeno la Dia, la dichiarazione al Comune di inizio attività». Una delle guide di Liberazione per questo articolo è Stefano, giovane commercialista romano di 38 anni che, con due amici di sempre, ha appena aperto un “compro oro” in un quartiere della prima periferia est della Capitale, Tor Pignattara. Quartiere popolare e sempre più mescolato di italiani, stranieri e nuovi italiani. Un mese dopo, Stefano mostra la foto sul cellulare del primo lingotto, il primo chilo ricavato dalla fusione in un “banco metalli”, il secondo passaggio della filiera per aprire il quale è necessaria, invece, una concessione governativa. Da lì l’oro viene acquistato dalle banche o prende la strada dei processi industriali. Le Banche centrali del mondo nel 2012 hanno comperato più oro di quanto abbiano fatto negli ultimi 49 anni, spinte dalla necessità di ricoprirsi alla luce della montante crisi del debito sovrano che ha colpito gli USA e l’Europa. La forte domanda ha fatto salire anche il prezzo al grammo, che oggi sfiora i 40 euro.

«L’utile non è molto alto, il 10%, ci sono commissioni fisse da pagare al banco metallo (dai 35 ai 50 cent al grammo), e la concorrenza si fa sempre più alta e agguerrita. Così il guadagno si aggira sui 2 euro e mezzo al grammo. Ma c’è offerta e si movimentano subito discrete quantità di denaro. Metti l’insegna e la gente entra subito, dipende dalla location e dalla pubblicità. Può sembrare assurdo ma ci sono clienti abituali, persone normali. Insomma non entrano fenomeni da baraccone».

Telecamere, casseforti, vetri blindati a norma, la fedina penale pulita e l’insegna ben visibile e riconoscibile. Gli ingredienti per aprire questa attività sono pochi e semplici da miscelare. Serve la padronanza minima per “grattare” l’oro, pesarlo e comprarlo in base ai due fixing quotidiani della Borsa di Londra che stabiliscono un prezzo volato dai 9 euro al grammo del 2001 ai 39,06 del giorno in cui viene scritto questo articolo. «In tempi di crisi salta il valore convenzionale delle cose e delle valute ma tutti si fidano ancora dell’oro che è ai massimi storici sebbene fluttui anch’esso».

«Arrivano ogni giorno anche signore disperate. C’è chi prova a vendere la fede del marito morto, proviamo a dissuaderla: “pensaci bene, ripassa domani” – prosegue il racconto di Stefano – la maggior parte è gente di mezz’età, molti indiani, ragazzini appena maggiorenni che vendono le catenine della comunione per comprare il motorino. E poi ci sono i tipi strani. Se qualcuno fa operazioni ricorrenti proviamo prima a fargli un prezzo sempre peggiore, per scoraggiarlo, e poi dobbiamo segnalarlo alla Banca d’Italia». Le regole impongono che il venditore abbia un documento italiano, che vengano fotografati gli oggetti e venduti solo dopo una giacenza di 10 giorni per eventuali controlli. Alcune questure chiedono di conservare le carte per dieci anni, procedura che presenta più di un dubbio rispetto alla privacy. «La prima “sòla”, sembra un luogo comune, ce l’ha data un napoletano con un anello solo placcato. Chissà se è autentico il documento che ci ha dato. Non ci spreco nemmeno il tempo di andare a sporgere denuncia». In tutta Italia i “compro oro” sono più 28.000 (poco più del 10% iscritti all’Albo degli operatori professionali) con picchi a Roma, Napoli e in Sicilia, luoghi ad alta presenza di malavita. Uno ogni 13.000 abitanti con un boom che insegue la crisi, dal 2008. Secondo la polizia, il 14% compie operazioni illegali. Un giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro all’anno per circa 400 tonnellate tra oro e argento. Più pessimista l’avvocato Ranieri Razzante presidente di AIRA, l’Associazione Italiana Responsabili Anti-riciclaggio, e consulente della Commissione Parlamentare Antimafia, «il 60% dei negozi compie azioni illecite o criminali. Ed è una stima per difetto». Un controllo solo 3.000 negozi ha scovato 113 milioni di euro non dichiarati, IVA evasa per 36,5 milioni e 31 evasori totali.

La gran parte dei compro oro lavora onestamente ma la deregulation scava ampie nicchie per il riciclaggio, la movimentazione di merce rubata, e per l’usura. Il turn over delle licenze osservato dalle questure, un terzo delle richieste, potrebbe servire proprio a sottrarsi allo sguardo di chi deve controllare. Basta un prestanome qualsiasi per aprire una “lavanderia”. Il riciclaggio è piuttosto semplice: si fa una prima operazione di compravendita regolare. Vengono trascritti per bene i dati sull’oggetto e il venditore sul registro obbligatorio vidimato dalla questura, poi con lo stesso documento si registrano decine di operazioni fittizie spesso a prezzi fuori mercato. Risulterà che l’ignaro primo venditore (ma può essere anche un morto, un nome inesistente o che non ha mai venduto nulla) ha portato in un mese alcuni chili d’oro. Gioielli mai esistiti ma che saranno contabilizzati dal titolare così da giustificare il denaro liquido in cassa quale frutto della fusione e della rivendita di oggetti mai arrivati e mai venduti. Soldi sporchi che all’improvviso ritornano in mano alle mafie immacolati e regolari, senza puzzare di racket.

Ogni anno in un singolo negozio girano in media 350.000 euro all’anno. Un dato considerato credibile dal “nostro” Stefano. Secondo la polizia dove apre un “compro oro” di solito si verificano aumenti di furti e rapine. A vederla da Bari, l’Osservatorio sulla legalità ha calcolato che, nel 2011, furti, scippi e rapine sono aumentati del 70% nelle zone ad alta concentrazione di “compro oro”. L’associazione SOS Racket e Usura ha filmato la facilità del riciclaggio, in vari negozi e con molta facilità, uno dei suoi attivisti è riuscito a vendere senza esibire la carta d’identità.

Ma i “compro oro” hanno eroso uno spazio tradizionalmente appannaggio del “monte”, come lo chiamano a Roma, il Monte di Pietà. Un impresario del settore è stato scoperto a Roma con 20 chili d’oro e 10 d’argento in cassaforte per un valore di 800.000 euro. Tra gli oggetti sequestrati anche gioielli che riceveva in pegno da persone in difficoltà economica e che rivendeva loro con un incremento del 20% del prezzo. Ce lo dice Italo Santarelli, attivo col CEIRP da 19 anni nella lotta contro l’usura. Racconta di come la stretta creditizia consegni famiglie e piccoli imprenditori nelle fauci del credito illegale, i “cravattari”. Chi ha bisogno di denaro liquido in tempi brevissimi e senza troppe domande si rivolge ai compro oro abusivi. Una funzione, quella tipica dei monti di pietà, vietata per legge ai privati.

 

In Parlamento giacciono da tempo nel cassetto due progetti di legge che vorrebbero far emergere dalla deregulation (ad esempio con l’obbligo di inviare entro 24 ore alla Questura ogni informazione sugli oggetti e un borsino dell’oro usato) un settore dove non tutto quello che luccica, è oro.

LA CRICCA DELLE “DIFFAMAZIONI”

LA CRICCA DELLE “DIFFAMAZIONI”

 

di Rita Pennarola [16/07/2013]

 

Se gli automobilisti partenopei pagano le tariffe più alte d’Europa per assicurare vetture e motorini devono dire grazie alla truffa diffusa dei tanti che vivono “sulle spalle” delle assicurazioni, addirittura indicando questo genere di entrate nei magri bilanci familiari. Si tratta di una storia vecchia ed arcinota, periodicamente portata alla luce da indagini della magistratura. Poi non se ne parla più e tutto continua come prima.

Napoli, come sempre, “ha fatto scuola”. Già, perché da qualche tempo (una ventina d’anni almeno o giù di lì), ad inventare danni, con tanto di certificati fasulli, e correre dinanzi a un giudice civile per lamentare le proprie insopportabili sofferenze, sono le presunte “vittime di diffamazione”. Una pletora di impostori sempre più affollata, che molto spesso riesce a spuntarla, per poi presentarsi con sentenze alla mano nelle redazioni impugnando decreti di pignoramento concessi in un battibaleno, magari dal got (giudice onorario, spesso avvocati) di turno.

Se poi non fosse bastata la lezione dei maestri falsari all’ombra del Vesuvio, a spingere i falsi diffamati ad emulare le gesta di Totò e Aldo Fabrizi in tipografia ci ha pensato la casistica giudiziaria inaugurata alla fine di Mani Pulite da Antonio Di Pietro che, per sua stessa ammissione, con le centinaia di migliaia di euro sottratti ai giornali attraverso cause di diffamazione ci ha costruito un impero: economico, oltre che politico.

E se l’ex Tonino nazionale ha provato l’amarezza di veder crollare tutto il suo potere politico proprio per mano di una giornalista (la bravissima Sabrina Giannini di Report), può consolarsi con le fortune economiche tutt’altro che disfatte («In cassa – scrive Il Giornale – ci sono 16,9 milioni di euro, di cui 4,5 sui conti correnti e 8 milioni in fondi di investimento bancari»).

Perciò è ufficialmente aperta – e da tempo – la caccia ai soldi dei giornali. Cui in questi anni hanno attinto tutti: ex politici trombati, faccendieri accusati di reati terrificanti e alla fine miracolosamente assolti, magistrati colpiti nella loro verginità, banchieri, senatori per un giorno, escort catapultate in Parlamento, e chi più ne ha più ne metta. Il risultato è sotto i nostri occhi. Non è solo la crisi economica ad aver ghigliottinato le redazioni, buttando in mezzo alla strada ormai decine di migliaia tra giornalisti ed altre maestranze. E non riguarda solo il trionfo delle praterie internettare, la falcidie di risorse e posti di lavoro che sta divorando il mondo dei media, comprese le tv. Se andiamo a fare due conti, scopriremo che la causa prima di questo disastro sono stati i risarcimenti da milioni e milioni di euro assegnati da sentenze civili ai diffamati, molto spesso fasulli. Un aggettivo leggermente sopra le righe vale dai 50 ai 70.000 euro. Se poi hai rispettato alla lettera i tre requisiti della legge sulla stampa (che esiste ancora ed è in vigore, anche se molti got non fanno nemmeno la fatica di andare a leggerla prima di emettere la sentenza), se quindi esiste l’interesse pubblico, la notizia è vera ed è stata espressa con la dovuta continenza, beh, in questo caso non solo non scatta automaticamente la condanna per lite temeraria del diffamato truffaldino, ma anzi, spesso gli viene comunque riconosciuta una bella sommetta, in considerazione «del suo prestigio e della sua autorevolezza».

È così che nasce e prospera il racket delle diffamazioni, nuova forma di arricchimento illecito che non costa nulla e, soprattutto, non comporta alcuna conseguenza negativa per chi ci prova. Male che vada, ci ha rimesso solo le spese dell’avvocato amico. Ma ha pur sempre tentato la sorte, chiedendo due, trecentomila euro, o fino a un milione (tanto, anche quello non gli costa nulla), a chiunque abbia osato profferire il suo nome invano.

Lo abbiamo già scritto: il racket sa bene che si è passati dal giudizio per diffamazione a quello per lesa maestà. È come per il capo dello Stato: non devi pronunciare il suo nome. E basta.

Il racket, poi, è attrezzatissimo e, soprattutto, ha imparato per bene la lezione: memore dei suoi successi, oggi spesso non presenta subito la citazione, ma attraverso gli avvocati fa sapere in redazione che si potrebbe anche preventivamente trattare. Il mio cliente – dice il legale al telefono – è una persona molto generosa e liberale. Trentamila? Cinquantamila? Pensateci bene, vi conviene… Questo è il messaggio che viene sottilmente instillato dall’altro capo del filo.

 

Come vedete, in questo articolo non ci sono i nomi dei truffatori. Ma sono tutti compresi in un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura che alcune testate indipendenti stanno promuovendo per denunciare la truffa ai danni della democrazia.

E’ l’Italia di Borat: mi scuso ma non mi dimetto

E’ l’Italia di Borat: mi scuso ma non mi dimetto

di Oliviero Beha

Meglio del film (2006) Borat, in cui il comico (!!!???) inglese Sacha Baron Cohen interpretava un giornalista kazako alla scoperta dell’America: qui Baron non c’è ma il tema kazako invece sì e come si vede non c’è bisogno di comici di professione. Basterebbe intitolare la strepitosa sceneggiatura “Da BungaBunga a BoratBorat” e indicare come starring i ministri Alfano e Bonino, tutto lo staff coinvolto dei due ministeri e naturalmente il governo al completo che tuona ma ha paura che piova, cioè si dissolva insieme alla maggioranza. Il set mediatico dove si sta finendo di girare è straordinario, e planetario: grazie all’affaire kazako abbiamo dato una bella riverniciatina all’immagine dell’Italia, dopo le corna e le “culone” che ricordiamo con piacere e il simpatico tradimento della parola data per i due marò in India. Il tutto mentre rimbomba la questione di fondo, e cioè che nessuno dei pezzi grossi si dimette mai. In fondo Calderoli, per l’altra questioncella dell’orango alla Kyenge, ha stilato l’epigrafe del nostro Paese: mi scuso ma non mi dimetto.Forse risorgeremo quando questi nostri partigiani delle prebende diranno finalmente “non mi scuso ma mi dimetto”.

RECUPERO DELL’ACQUA PIOVANA: SISTEMI FAI DA TE

RECUPERO DELL’ACQUA PIOVANA: SISTEMI FAI DA TE

 

di Marta Albè

 

Recuperare l’acqua piovana significa avere a disposizione una risorsa preziosa, che permette di evitare sprechi idrici legati all’utilizzo di acqua potabile anche quando non sarebbe necessario. Pensiamo ad esempio all’irrigazione di orti e giardini.

Recuperare l’acqua piovana offre almeno 5 vantaggi e possibili impieghi da non sottovalutare. Il risparmio sulla bolletta è assicurato.

Recupero acqua piovana: vantaggi e utilizzi

1) L’acqua piovana raccolta e filtrata può essere utilizzata per la pulizia della casa e per il bucato. La sua efficacia pulente è maggiore e permette di risparmiare sia sull’acqua potabile che sull’impiego e acquisto di detergenti e anticalcare per la lavatrice.

2) L’impiego dell’acqua piovana è adatto per lo sciacquone del WC senza temere accumuli di calcare. L’acqua piovana non ne contiene.

3) Innaffiare orto e giardino senza sprechi idrici e risparmiando sull’acqua potabile.

4) Grazie ad appositi sistemi di raccolta, l’acqua piovana può essere utilizzata anche per l’igiene personale, per riempire la vasca da bagno e per lavarsi i denti, oltre che per la doccia.

5) L’impiego dell’acqua piovana è indicato per la pulizia dei pavimenti e per il lavaggio dei piatti a mano, oltre che dell’automobile.

Acqua piovana per l’irrigazione

Uno dei sistemi più semplici per la raccolta dell’acqua piovana ai fini dell’irrigazione consiste nel posizionare nell’orto o in giardino una o più cisterne piuttosto capienti. Anche chi possiede un balcone o un terrazzo può raccogliere l’acqua piovana, collocando alcuni secchielli nei punti più adatti. Ciò permetterà di innaffiare piante, orto e giardino durante i mesi estivi senza ricorrere all’acqua potabile ed evitando le restrizioni e le sanzioni delle ordinanze comunali in merito.

Rivolgendosi ad un installatore, oppure optando per il fai-da-te e basandosi sugli strumenti appositi che si trovano in vendita, sarà possibile unire alla raccolta dell’acqua piovana un sistema di irrigazione goccia a goccia dell’orto, che permetterà l’impiego razionale delle risorse idriche.

Leggi anche: I migliori metodi per annaffiare le piante quando partite per le vacanze

Impianto per la raccolta dell’acqua piovana auto-costruito

Con un po’ di manualità è possibile costruire da sé un impianto per la raccolta dell’acqua piovana. L’impianto che vi presentiamo è stato realizzato all’interno del progetto Vivere Con Stile promosso dall’Amministrazione Comunale di Portogruaro (VE). Il progetto “open source” è stato pubblicato sul web in modo tale che potesse risultare di ispirazione per altri cittadini alla ricerca di informazioni e di strumenti per il risparmio idrico. Il sistema è basato sull’idea di prelevare l’acqua piovana che cade, durante le piogge, da una o più condotte pluviali esistenti, cioè provenienti dal tetto, e di convogliarla in un serbatoio che funge da accumulo temporaneo.

È necessario porre particolare attenzione alla scelta del punto della casa in cui collocare il serbatoio e alla sua altezza da terra. Ad esso dovrà essere collegato almeno un tubo di distribuzione dell’acqua piovana. In vendita esistono numerose tipologie di tubi e serbatoi di raccolta. Per l’orto e per il giardino può essere utile dotarsi di un rubinetto a tempo per automatizzare l’innaffiatura.

È possibile seguire passo dopo passo le istruzioni online per l’auto-costruzione dell’impianto.

Installazione di un impianto per il recupero dell’acqua piovana

Seguendo le immagini del video che vi proponiamo potrete comprendere quanto possa essere semplice l’installazione di un impianto per la raccolta dell’acqua piovana da esterno o da giardino. Dopo aver acquistato gli strumenti necessari, è possibile procedere all’installazione fai-da-te. I sistemi di raccolta dell’acqua piovana permettono di recuperarla dai tetti, filtrarla, conservarla in cisterne e riutilizzarla per il giardino o per usi domestici. Per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito web www.raccoltaacquapiovana.it.

Raccogliere l’acqua piovana con una bottiglia

Chi desidera sperimentare in modo semplice la raccolta dell’acqua piovana potrà provare a ricorrere a delle comuni bottiglie di plastica. Dovrete inoltre tenere da parte i loro tappi e procurarvi del nastro isolante. È necessario tagliare i tappi conservando soltanto le loro ghiere. Una delle due bottiglie dovrà essere tagliata a metà, per formare un imbuto. Unite i tappi uno sull’altro con del nastro isolante ed avvitateli sul collo delle due bottiglie. Otterrete così un unico sistema composto da una bottiglia con imbuto incorporato.

Il tutto andrà posizionato in un punto in cui sarà possibile raccogliere l’acqua piovana. Un sistema ancora più semplice consiste nell’inserire un normale imbuto in una bottiglia di vetro o di plastica, in modo da ottenere un piccolo serbatoio fai-da-te per la sua raccolta. Potrete posizionarlo sul balcone, in giardino o al di sotto del punto di scolo di una grondaia.

Raccolta di acqua piovana con un serbatoio

Per l’installazione di un sistema di recupero dell’acqua piovana con serbatoio procedete come segue:

1) Innanzitutto è necessario preparare un sistema di tubature che permettano la raccolta dell’acqua piovana dai punti di scolo, ad esempio per quanto riguarda i tetti e le grondaie. Le tubature dovranno essere collegate ad un serbatoio di accumulo.

2) È indispensabile posizionare un filtro per l’acqua piovana. La sua collocazione dovrà permettere che l’acqua venga filtrata prima di raggiungere il serbatoio. In questo modo al suo interno vi sarà unicamente acqua pulita e priva di residui come foglie e pietrisco. L’acqua non sarà potabile ma potrà essere impiegata per innaffiare e per le pulizie domestiche senza problemi.

 

3) Dopo aver posizionato il filtro, potrete installare il serbatoio, collegandolo ai tubi di raccolta dell’acqua e ad un eventuale conduttura di scolo per l’acqua in eccesso, che dovrà raggiungere la fognatura. La capienza del serbatoio dovrà essere valutata in base alle condizioni climatiche della zona in cui si vive.

IL GOVERNO LETTA DEVE DURARE FINO AL 2015. PERCHÉ?

IL GOVERNO LETTA DEVE DURARE FINO AL 2015. PERCHÉ?

 

di Aldo Giannuli

 

Fonte: www.aldogiannuli.it

Link: http://www.aldogiannuli.it/2013/07/colpo-di-stato-bianco/

 

In vista del dies irae del 30 luglio pv, il presidente della Repubblica si è affrettato a “chiudere la finestra di ottobre”, per eventuali elezioni, e, stando ai resoconti giornalistici, ha aggiunto che le intese di aprile – quando accettò di essere rieletto – erano per un esecutivo che durasse sino al 2015. Implicitamente, il presidente ci ha fatto sapere di un patto i cui termini sono ben diversi da quelli fatti trapelare nell’immediatezza dell’accordo: allora si parlò di un esecutivo di durata breve, con il compito di cambiare la legge elettorale, fronteggiare l’immediatezza della crisi e poi andare a votare.

Poi, man mano, la riforma elettorale è andata scivolando in avanti e si è iniziato a dire che il governo “non ha scadenza” e che si sarebbero dovute fare anche altre riforme istituzionali mettendo mano alla Costituzione; donde la nomina del comitato dei “saggi” di cui abbiamo già detto. E qui spunta che una scadenza c’era, il 2015, dunque non tanto a breve.

Si tratta dei due anni che, prevedibilmente, una revisione costituzionale comporta, considerato che essa richiede, oltre al tempo necessario a trovare una intesa, l’approvazione delle due Camere in doppia lettura, con intervallo di tre mesi fra l’una e l’altra. Ma questo se non ci sono incidenti di percorso, magari l’approvazione di un piccolissimo emendamento che richiederebbe di nuovo la doppia lettura con il trimestre di intervallo. E poi bisogna considerare anche la possibilità di un ostruzionismo da parte del M5S e, magari, di SEL che, con i loro 200 parlamentari e passa, potrebbero bloccare i lavori per mesi e mesi, anche perché nel processo di revisione costituzionale non è possibile stroncare l’ostruzionismo ponendo il voto di fiducia al governo. Niente paura: il governo avanza un disegno di legge di deroga alle procedure previste dall’art. 138 riducendo ad un mese l’intervallo fra le due deliberazioni.

E che nel processo di revisione della Costituzione abbia voce in capitolo l’esecutivo è una novità assoluta. Questa procedura eccezionale consisterebbe in una sorta di deroga una tantum, per sveltire i lavori finalizzati ad una limitatissima riforma costituzionale, come l’abolizione del voto di fiducia da parte del Senato, così da evitare un blocco come quello seguito alle elezioni di febbraio. Ma, come fa notare il costituzionalista Alessandro Pace (Repubblica 8 giugno 2013), la proposta governativa dovrebbe essere approvata con procedura ordinaria, per cui faremmo passare il principio per cui una legge ordinaria può derogare alla Costituzione e questo potrebbe essere ripetuto per qualsiasi altra revisione. Di fatto stiamo aprendo la porta alla disarticolazione dell’art. 138 e, con esso, della stessa attuale Costituzione.

D’altra parte, se tutto quello che c’è da fare è emendare il nostro bicameralismo, basta riscrivere l’art. 94 ed al massimo le prime due righe dell’art. 81. E per fare questo nominiamo una commissione di quaranta “saggi”? Il dubbio che sorge è che questa specie di Sinedrio debba preparare una revisione organica della Costituzione e che la “deroga” attuale sia solo la legittimazione di ben più sostanziose prossime deroghe. Anzi, ad essere proprio maliziosi, sorge il sospetto è che il testo della nuova Costituzione sia già pronto e giaccia in qualche cassetto (della JP Morgan per caso?). Ma noi non siamo così prevenuti e non lo diciamo.

Però non possiamo tacere che, di fatto, siamo alle soglie di una vera e propria rottura costituzionale: l’art. 138 fa parte della Costituzione e non può essere modificato con procedura ordinaria, anzi, per la delicatezza della sua funzione, è l’ultimo per il quale si possa pensare una procedura tanto disinvolta.

E qui veniamo al ruolo del capo dello Stato. Tutto fa intendere che la partita della revisione costituzionale – ben oltre che la questione dell’art. 94 – abbia fatto parte delle trattative che portarono alla rielezione di Napolitano che oggi, infatti, blinda il governo per evitare quelle elezioni che sospenderebbero questo processo così avviato. Dunque, Letta deve durare perché il presidente vuole che la Costituzione cambi, in tutto o in parte. Ma dove sta scritto che il presidente della Repubblica possa farsi promotore del cambiamento costituzionale? Qualche studio di diritto costituzionale ci fa pensare che il presidente abbia, piuttosto, il compito di garantire la Costituzione vigente. A cambiarla – e secondo le regole previste da essa stessa – devono pensare altri. E, pertanto ci si attende che il presidente rifiuti di firmare il Ddl governativo, per la palese violazione dell’art. 138 e, con esso, la lettera e lo spirito della Costituzione e che, ne investa la Corte Costituzionale. O magari che indirizzi un messaggio alle Camere per avvertire del carattere anticostituzionale della norma che stanno per varare. Ma questo non accade e non accadrà, per la semplice ragione che Napolitano è interno al progetto.

Occorrerà riflettere molto attentamente su cosa ha rappresentato la Presidenza Napolitano negli equilibri costituzionali, qui ci limitiamo ad osservare che il presidente ha spostato l’accento della sua azione più sulla garanzia dei patti internazionali dell’Italia (dai patti UE agli accordi di Marrakesh, per non dire dei patti impliciti rappresentati dai titoli di debito pubblico) che su quella della Costituzione. Di fatto, negli ultimi quattro anni, Napolitano, più che rappresentare la Nazione all’estero (come prescrive la Costituzione), ha piuttosto rappresentato la UE e la BCE presso il governo ed il Parlamento. Una sorta di “commissario agli atti”. Ed, in questa inedita metamorfosi della figura del capo dello Stato, si sono determinate una serie di alterazioni nei rapporti fra istituzioni della Repubblica. Per molto meno, l’allora PDS stava per chiedere la messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla Costituzione. È arrivato il momento di dire che siamo ad un passo dalla rottura costituzionale e dal colpo di Stato “bianco”.

 

Qualcuno ha osservato che “Napolitano sta cercando di limitare i danni”. Altro che limitare i danni, Napolitano è il danno.

Il sindaco: un patto con la moda. Mercoledì incontro per il rilancio

Il sindaco: un patto con la moda.
Mercoledì incontro per il rilancio

Nessuna tregua nella polemica tra il Comune e i titolari del marchio. I due stilisti continuano con la serrata a pochi giorni dal tavolo con la Camera della Moda che punta a rilanciare le sfilate in programma a settembre

di ALESSIA GALLIONE

Le porte di Palazzo Marino si apriranno mercoledì. E sarà la prima volta, per la giunta arancione. Tutti lì, i rappresentanti del nuovo board della Camera della Moda – a cominciare dai big come Patrizio Bertelli di Prada, Diego Della Valle e Angela Missoni che hanno deciso di entrare nella ‘cabina di regia’ – attorno a un tavolo convocato da Giuliano Pisapia per sancire il patto tra Comune e stilisti. Una riunione operativa per il piano di rilancio della sfilate di settembre: era stata programmata da tempo, eppure si carica di nuove attese e significati in mezzo alle polemiche tra Piazza Scala e Dolce e Gabbana. E non solo perché loro, che non fanno parte della Camera della Moda, non ci saranno. Il caso non è finito. E, adesso, anche il sindaco replica con fermezza a quella serrata per «indignazione». E quelle di Giuliano Pisapia sono parole destinate a far discutere. Una difesa decisa della città: «Basta – dice – gli indignati siamo noi. Dolce e Gabbana dovrebbero chiedere scusa a Milano». 

Avrebbe voluto tenere un profilo basso, Pisapia. Con quel comunicato dettato a caldo per bollare come «improvvida» la battuta di Franco D’Alfonso, ma anche per descrivere come eccessiva la reazione di Stefano Gabbana che, via Twitter, aveva accusato: «Comune, fate schifo». Era solo l’inizio. È 

 

di fronte alle vetrine chiuse, però, allo «sdegno» – l’assessore aveva affermato che il Comune non avrebbe dovuto concedere spazi agli evasori fiscali come Dolce e Gabbana – che Palazzo Marino ha deciso di fare quadrato. E ribaltare il tavolo. Anche gli stilisti, però, non si fermano. Loro, ha attaccato Gabbana, non hanno mai chiesto nessuno spazio a Palazzo Marino. Di più: ribadisce di essere disposto a restituire, «molto volentieri», l’Ambrogino d’oro. Allora, quella benemerenza, fu dedicata a Milano. Oggi, infuriano le polemiche. 

Il blitz degli animalisti in via Spiga Il falso allarme bomba in corso Venezia

Da una parte lo scontro. Con D’Alfonso che, sul suo profilo Facebook riaperto per l’occasione ha parlato di «operazione di marketing per conquistare le prime pagine dei giornali». Dall’altra, la tela che l’assessore Cristina Tajani sta intessendo con il mondo delle passerelle. A partire da quel rilancio di settembre, e da una settimana delle sfilate che si aprirà con un gala alla Scala. È a questo che si riferisce, quando dice: «Nel mondo della moda c’è chi ha capito che è il momento di fare sistema, di fare squadra anche in ragione di una concorrenza internazionale inedita, e chi invece preferisce giocare una partita solitaria». 

Ogni riferimento a D&G sembra voluto. Anche per loro, però, c’è un invito: «Ovviamente le porte sono sempre aperte e vorremmo che anche Dolce e Gabbana fossero dei nostri». Ma il centrodestra è partito all’attacco. Daniela Santanchè ha bollato la giunta Pisapia come un «soviet». L’ex ministro Mariastella Gelmini ha definito «stupefacente che un marchio importante, ambasciatore del made in Italy, trovi nelle istituzioni cittadine degli interlocutori così inadeguati». Tajani ribatte: «Evitiamo strumentalizzazioni».

(21 luglio 2013)

 

Cambiano le rendite: ecco il nuovo catasto

Cambiano le rendite: ecco il nuovo catasto

IN QUESTO ARTICOLO

Argomenti: Fisco | Daniele Capezzone | Consiglio di Stato | Confedilizia | Senato | Lazio

  • ascolta questa pagina
 
 
Cambiano le rendite: ecco il nuovo catasto - I capisaldi della riforma

Il nuovo Catasto sta diventando una priorità, visto che l’autonomia fiscale degli enti locali e in particolare l’Imu dipendono strettamente dai valori attribuiti agli immobili. Il comitato ristretto presieduto da Daniele Capezzone, che sta elaborando il nuovo testo base della delega fiscale, ha completato l’esame della parte dedicata al Catasto. Apportando alcune importanti modifiche al testo da cui era partita, cioè quello passato alla commmissione Finanze del Senato sul finire della scorsa legislatura.

In sostanza resta l’impianto di fondo, cioè la nascita di due diversi dati, un valore patrimoniale e una rendita catastale, determinabili attraverso un algoritmo basato su funzioni statistiche, ma spunta di nuovo il “federalismo catastale” tramontato tre anni fa.

 
 

Nella “vecchia” delega tutto il lavoro avrebbe dovuto essere scaricato sull’ex agenzia del Territorio ma c’erano delle perplessità come sarebbe stato possibile effettuare una ricognizione su 60 milioni di unità immobiliari, anche potendo utilizzare professionisti esterni ma con un budget molto risicato di circa 500mila euro. Del resto si tratta un’opera impegnativa: cancellare i “vani”, la categorie e le classi (ridotte a poche unità) e sostituire il sistema con i metri quadrati. Si tratterà, anzitutto di «definire gli ambiti territoriali del mercato immobiliare di riferimento» (volendo ci sono già le microzone, che erano state individuate proprio a questo scopo). Poi si procederà a individuare due valori, approssimati alle medie dell’ultimo triennio: quello patrimoniale e la rendita (si veda l’articolo qui sotto).

L’aiuto dovrebbe venire dai Comuni, che dovrebbero comunicare gli aspetti presenti nell’algoritmo che verrà utilizzato per calcolare il «valore patrimoniale» degli immobili di categoria A, B e C che gli uffici del Territorio si trovano nell’impossibilità di verificare. Come l’affaccio, allo stato di manutenzione, all’esposizione, che in un progetto edilizio sono facilmente riscontrabili ma in una mappa catastale no.

Forse anche per questo nel nuovo testo base elaborato dal comitato ristretto si è deciso di ridare corpo alle funzioni catastali dei Comuni, un progetto complesso partito con il Dpcm del 14 giugno 2007, che dava concretezza al progetto del passaggio ai Comuni delle funzioni catastali (legge 296/2006). Nel marzo 2008 già 5.068 Comuni avevano scelto, con delibera, quali e quante funzioni assumere e 2.374 erano stati già considerati “pronti” mentre altri 481 avevano deciso di affidarsi completamente all’ex agenzia del Territorio, che gestisce centralmente il Catasto. Le delibere di altri 2.213 Comuni erano invece state respinte al mittente per irregolarità. Proprio quando già si stavano già individuando i dipendenti del Territorio da trasferire ai Comuni, un ricorso al Tar Lazio di Confedilizia aveva bloccato il 3 giugno 2008 il Dpcm. La decisione era stata cassata dal Consiglio di stato e rinviata al Tar Lazio, che alla fine aveva emesso una sentenza (4312/2010) che comunque confermava l’annullamento dell’articolo 3, comma 4 del Dpcm del 14 giugno 2007, per cui il governo avrebbe dovuto emanare un nuovo Dpcm per meglio precisare le specifiche attività di esercizio delle funzioni dei comuni: «soprattutto per impedire forme di accertamento catastale del tutto arbitrarie».

Ora, comunque, nella delega fiscale l’intenzione è di tornare in qualche modo sulla questione, (si veda «Il Sole 24 Ore» del 19 luglio), ridando corpo all’ipotesi del decentramento per facilitare la fornitura dei dati necessari per la revisione delle rendite e valorizzando le esperienze positive sin qui realizzate, soprattutto in Comuni come Torino e Genova. Qui, tra l’altro, i controlli sulle mancate comunicazioni di variazioni al Catasto per immobili ritrutturati (che avrebbero dovuto passare di categoria e quindi aumentare la base imponibile) avevano già dato ottimi frutti.

E’ morto Vincenzo Cerami Scrisse “La vita è bella”

E’ morto Vincenzo Cerami
Scrisse “La vita è bella”

 

Aveva 73 anni. Una vita tra letteratura e cinema: gli inizi con Pasolini, la grande amicizia e collaborazione con Benigni e la frequentazione con Moravia, Fellini, Troisi, Totò e Sordi

Quel Grande Correttore – Il ricordo di Massimo Gagliardi 

 
Lo scrittore Vincenzo Cerami (LaPresse)

Lo scrittore Vincenzo Cerami (LaPresse)

 

Roma, 17 luglio – E’ morto Vincenzo Cerami. Lo sceneggiatore e scrittore, nato a Roma il 2 novembre 1940, candidato all’Oscar nel 1999 per “La vita è bella” con Roberto Benigni, era malato da tempo.

Articoli correlati

Segui le notizie su Facebook Condividi

LA VITA – Cresciuto a Ciampino, Vincenzo Cerami ha scoperto la letteratura, la poesia e il cinema con Pier Paolo Pasolini, suo insegnante alle scuole medie, di cui è stato assistente alla regia in “Uccellacci e uccellini”. E’ stato proprio Pasolini a interessarsi alla pubblicazione del suo primo libro “Un borghese piccolo piccolo”, uscito però nel 1976, dopo la sua morte, con la prefazione di Italo Calvino, e diventato un celebre film di Mario Monicelli con Alberto Sordi. Prima di darsi completamente all’arte, Cerami si era iscritto alla facoltà di fisica.
Nella sua vita ha avuto la fortuna di incontrare, e in alcuni casi diventare amico, i grandi del cinema e della letteratura da Alberto Moravia a Federico Fellini, Massimo Troisi, Totò, Alberto Sordi ai quali Cerami diceva di aver ‘’rubato’’ tutto quello che ha imparato.
Grande l’amicizia con Roberto Benigni che ha definito ‘’la creatura piu’ bella che abbia mai incontrato’’ con cui ha scritto tra l’altro – oltre a ‘La vita è bella”- “Il piccolo diavolo”, “Il mostro” e “Pinocchio”. “Mi ha insegnato come si fa a far battere il cuore alla gente. Che bellezza essergli stato amico. Che regalo!’’, ricorda oggi, commosso, Benigni.  .

Dal giugno 2009 Cerami ricopriva l’incarico di assessore alla Cultura del Comune di Spoleto. La notizia della sua scomparsa è giunta in municipio nel corso di una conferenza stampa di bilancio sull’edizione appena conclusa del Festival dei Due Mondi. Il sindaco Daniele Benedetti si e’ immediatamente diretto verso il suo ufficio: “Siamo addolorati, e’ una notizia terribile”, si e’ limitato a dire. 

Russia: condannato a 5 anni Navalny, il blogger anti-Putin Casa Bianca: “Rammaricati” Europa preoccupata

Russia: condannato a 5 anni
Navalny, il blogger anti-Putin
Casa Bianca: “Rammaricati”
Europa preoccupata

 

Il leader dell’opposizione russa è stato condannato di appropriazione indebita. Il blogger ha abbracciato la madre e la moglie prima di essere ammanettato e portato via dagli agenti di custodia. Il giudice: “Ha commesso un reato molto grave”. “Non restate inattivi”, ha commentato prima dell’arresto. Usa: “Profondamente delusi”

 
L'oppositore russo Navalny (Reuters)

L’oppositore russo Navalny (Reuters)

 

Mosca, 18 luglio 2013 – Il leader dell’opposizione russa, l’avvocato-blogger Alexei Navalny, è stato condannato a 5 anni per appropriazione indebita. Lo ha stabilito oggi il tribunale di Kirov.

Segui le notizie su Facebook Condividi

Il 37enne oppositore del presidente Vladimir Putin è stato giudicato colpevole di appropriazione indebita in relazione alla vendita sotto costo di partite di legname quando era consulente del governatore locale, nel 2009. Il danno arrecato alla società statale Kirovles sarebbe pari a 380.000 euro. “Navalny ha commesso un reato molto grave“, ha dichiarato il giudice Sergei Blinov nel dare lettura della sentenza che di fatto estromette dai giochi politici uno dei più importanti oppositori del capo del Cremlino. Il blogger ha abbracciato la moglie e la mamma prima di essere ammanettato e portato via dagli agenti di custodia.

UE PREOCCUPATA – L’Alto rappresentante per la politica Estera dell’Unione europea, Catherine Ashton, si è detta “preoccupata” dalla condanna inflitta oggi dalla Corte di Kirov. Le accuse “non sono state provate nel corso del processo”, ha affermato Ashton. “Viste le mancanze nel processo, la decisione solleva domande serie sul rispetto della legge in Russia”, ha poi aggiunto. L’Alto rappresentante Ue ha espresso inoltre la speranza che le sentenze vengano “riconsiderate nel processo d’appello”.

USA – Con un tweet dell’ambasciatore americano a Mosca, Micheal McFaul, gli Usa hanno dichiarato di essere: “profondamente delusi” per la condanna a 5 anni. In serata, attraverso il suo portavoce Jay Carney, è giunto il commento della Casa Bianca che si è detta “profondamente rammaricata” per la condanna condizionata “da motivazioni politiche”. La Casa Bianca ha anche chiesto a Mosca di consentire un processo di appello “giusto” e di cessare la “campagna di pressione” contro l’opposizione russa.

IL TWEET PRIMA DELL’ARRESTO – “Non lasciatevi andare, non restate inattivi“, ha scritto su Twitter  il blogger Navalny prima di essere ammanettato in un tribunale di Kirov.

Inchiesta Sanità, Del Turco condannato All’ex governatore 9 anni e 6 mesi

Inchiesta Sanità,
Del Turco condannato
All’ex governatore
9 anni e 6 mesi

 

Abruzzo, rabbia dell’ex presidente della Regione dopo la sentenza: “Io, condannato come Enzo Tortora”. I pm avevano chiesto 12 anni

 
L'ex governatore della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco (foto Ansa)

L’ex governatore della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco (foto Ansa)

 

Pescara, 22 luglio 2013 –  Nove anni e 6 mesi e l’interdizione perpetua. E’ la condanna inflitta all’ex presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco nell’ambito del processo riguardante tangenti nel mondo della sanità abruzzese. La sentenza è stata emessa dal Tribunale collegiale di Pescara (presidente Carmelo De Santis e giudici a latere Gianluca Falco e Massimo De Cesare) dopo oltre quattro ore di Camera di consiglio. I pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli avevano chiesto 12 anni e l’interdizione. Ad accusare Del Turco l’ex titolare della clinica privata Villa Pini di Chieti, Vincenzo Angelini, imputato e allo stesso tempo parte offesa nel processo, che nel 2008 in sette interrogatori fiume rivelò ai magistrati di aver pagato tangenti per un totale di circa 15 milioni di euro ad alcuni amministratori regionali in cambio di favori.

Segui le notizie su Facebook Condividi

Nello specifico Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per cinque milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L’Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonche’ membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

DEL TURCO – “Per ora non dico nulla. Sulle sentenze prima si riflette poi si parla”. Sono le prime parole a caldo dell’ex governatore dell’Abruzzo, Ottaviano Del Turco, raggiunto al telefono dall’Ansa, dopo la condanna in primo grado dal Tribunale di Pescara. “Appello sicuro”, ha detto.

Poi arriva lo sfogo ai microfoni del Giornale Radio Rai: “E’ un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove… hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini. Io sono stato condannato esattamente a dieci anni di carcere come Enzo Tortora“. E ancora: “Penso che la giustizia abbia bisogno di una grandissima riforma. E la gente continua a pensare che il problema sia Berlusconi. No, il problema è questa giustizia. E’ l’intreccio tra le carriere dei magistrati inquirenti con quelle della magistratura giudicante. Questo porta a delle contraddizioni spaventose e irrisolvibili”.