Intercettazioni, tra 6 mesi scatta il bavaglio.

Intercettazioni, tra 6 mesi scatta il bavaglio. Protestano sia gli avvocati che l’Anm. La polizia deciderà cosa è rilevante

Intercettazioni, tra 6 mesi scatta il bavaglio. Protestano sia gli avvocati che l’Anm. La polizia deciderà cosa è rilevante

Le nuove norme si fanno segnalare per una particolare caratteristica: hanno raccolto le critiche sia dalla Anm che dall’Unione delle camere penali. Il ministro Orlando: “Abbiamo un Paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità e non per alimentare pettegolezzi o distruggere la reputazione di persone che non sono sottoposte a procedimenti penali”. I casi di violazione, però, negli ultimi vent’anni sono stati pochissimi: una ventina

Via libera alla riforma delle intercettazioni. L’ultimo atto del 2017 da parte del governo è dunque l’ok alla legge bavaglio. Il consiglio dei ministri riunitosi a Palazzo Chigi ha approvato in via definitiva il decreto legislativo che detta la nuova disciplina in materia di ascolti telefonici e ambientali. Il provvedimento entrerà in vigore a sei mesi dalla sua pubblicazione prevista per gennaio. Approvate dal governo una prima volta nel novembre scorso, le nuove norme si fanno segnalare per una particolare caratteristica: hanno raccolto le proteste sia dalla Anm che dall’Unione delle camere penali. In pratica la riforma delle intercettazioni non piace nè al sindacato dei magistrati me neanche a quello degli avvocati: le due categorie professionali che con le intercettazioni ci lavorano. Per i magistrati sono due i punti negativi della riforma: dà troppo potere alla polizia giudiziaria, che deciderà quali intercettazioni sono rilevanti e quali no.  E poi limita l’utilizzo dei virus trojan. Per gli avvocati, invece, la nuova legge limita il diritto di difesa. A chi piace il nuovo provvedimento, dunque? Ma ovviamente alla politica che lo invocava da anni. L’obiettivo non è migliorare l’amministrazione della giustizia ma evitare fughe di notizie e tutelare la privacy. Un’inchiesta del ilfattoquotidiano.it  però, ha dimostrato che i casi di violazione negli ultimi 20 anni sono stati pochissimi: una ventina. Gli sms di Sabrina Ferilli e quelli di Anna Falchi, le avances di Alessandra Necci e quelle di Alessandro Moggi, le intercettazioni dei sacerdoti fiorentini e la sentenza europea su Craxi, citata perfino in un tribunale di Nuova Delhi. Poi nient’altro, o poco più.

Orlando insiste: “Stop a pettegolezzi sui giornali” – Il governo, però, si dice soddisfatto. E rilancia la vecchia linea del gossip che finisce sui giornali. “Abbiamo un Paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità e non per alimentare pettegolezzi o distruggere la reputazione di persone che non sono sottoposte a procedimenti penali”, sono le parole usate da Andrea Orlando, al termine del Consiglio dei ministri. “Abbiamo recepito anche una serie di indicazioni che venivano dalle camere e abbiamo un quadro più chiaro delle procedure mediante le quali vanno tolte dai fascicoli le conversazioni che non hanno rilevanza penale e devono essere distrutte. C’è un procedimento di contraddittorio tra le parti per definire cosa deve andare nei fascicoli o cosa non ci deve andare. E ci sono una serie di responsabilità riferite ai capi degli uffici in ordine alla custodiae poi alla distruzione di ciò che non è penalmente rilevante”, ha spiegato il guardasigilli. Attaca la riforma anche il Movimento 5 stelle. “Con il decreto intercettazioni si restringe notevolmente l’azione della magistratura per il contrasto al malaffare. Con questo provvedimento si impediranno, di fatto, le trascrizioni delle conversazioni intercettate, anche quando le stesse abbiamo rilevanza pubblica e politica di un certo peso. Questo, evidentemente, nasce dall’esigenza dei politici di nascondere ai cittadini la verità sulle loro malefatte. Un favore per politici corrotti, per funzionari pubblici tangentisti e per finti imprenditori mafiosi”, dicono i due capigruppo del M5s Vilma Moronese e Daniele Pesco. La nuova legge, come detto, non piace poi ai magistrati ma neanche agli avvocati. E per motivi diversi.

I magistrati: “Troppo potere alla pg” – “Non una bocciatura, ma nemmeno una condivisione entusiastica“, è il giudizio che dà Eugenio Albamonte, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Il motivo? “Dal punto di vista delle modalità operative scelte si poteva fare meglio, qualche ombra è rimasta”, dice il numero uno dell’Anm. Che poi spiega come la riforma dia uno “strapotere della polizia giudiziaria nella selezione delle intercettazioni“. La legge, infatti, prevede che quelle giudicate irrilevanti non vengano trascritte ma sia indicato nel verbale soltanto il tempo di registrazione e l’utenza intercettata. “Senza che venga indicato un minimo di contenuto dell’intercettazione ritenuta irrilevante, diventa impossibile un vero controllo da parte del pm. È paradossale che, avendo vissuto da poco il trauma di intercettazioni mal trascritte e gli echi politici e istituzionali che ne sono derivati, si creino le condizioni per ulteriori errori che, diversamente dalla vicenda a cui faccio riferimento, non saranno verificabili ex post”, dice Albamonte, che si riferisce al caso Consip e a quella frase pronunciata dall’ex parlamentare Italo Bocchino e attribuita invece ad Alfredo Romeo dal capitano del Noe Gianpaolo Scafarto come prova di un incontro tra l’imprenditore e Tiziano Renzi, padre del segretario del Pd. Una vicenda scoperta dai pm romani che hanno messo Scafarto sotto inchiesta. Dopo l’approvazione della riforma, un caso simile, secondo Albamonte, non verrebbe fuori “se non andandosi a risentire tutti i nastri, il che equivarrà a cercare un ago nel pagliaio”. Alto punto negativo della riforma: le limitazioni introdotte all’utilizzo dei trojan, cioè dei captatori informatici, nelle intercettazioni ambientali per reati diversi da terrorismo e mafia.”C’è una riduzione fortissima dell’uso di questo strumento che provocherà un nocumento molto serio alle indagini”, dice Albamonte. Un allarme lanciato nelle scorse settimane anche dal procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo

Avvocati: “Leso diritto di difesa” – Il bello è che contro le nuove leggi si esprimono anche gli avvocati. “È una riforma che non possiamo considerare positiva perchè per tutelare privacy e riservatezza si è scelto di limitare fortemente il diritto di difesa. Il che crea danni significativi a chi si trova coinvolto il vicende giudiziarie. Già oggi difendere e complicato. Un domani diventerà pressoché impossibile, tanto meno nella fase cautelare”, è il giudizio dell’Unione delle camere penali.  A cambiare il punto di vista critico dei penalisti non sono bastate le ultime modifiche introdotte: cioè aver innalzato da 5 a 10 giorni il termine attribuito ai difensori per esaminare il materiale intercettato (con una proroga sino a 30 giorni se la documentazione è molto ampia e complessa). E poi avere vietato, fermo restando il divieto di intercettare i colloqui tra assistito e avvocato, la verbalizzazione di quelle conversazioni occasionalmente captate. “Sono modifiche di dettaglio”, dice Rinaldo Romanelli, componente della giunta del sindacato degli avvocati, che giudica “estremamente negativo” non essersi spinti più in là che vietare la verbalizzazione dei colloqui tra difensore e assistito. “Perchè cosi quei colloqui non finiranno sui giornali, ma saranno ascoltati dalla polizia giudiziaria”, con la possibilità di mettere a conoscenza anche il pm della strategia difensiva di chi è indagato.  Al di là degli ultimi emendamenti, per Romanelli “il vulnus di questa riforma resta: non dare copie agli avvocati di tutto il materiale intercettato. Tanti processi si fanno sulla base delle intercettazioni: ma il 98% per cento del materiale intercettato è irrilevante, non bastano 10 giorni per trovare invece le conversazioni utili alla difesa”. Una ricerca che dunque sarà possibile solo ai grandi studi legali. E quindi agli indagati che  possono permetterseli.

Non si vincerà mai la guerra in Afghanistan

Vi spiego perché non si vincerà mai la guerra in Afghanistan

Gli afghani sanno aspettare e logorano qualunque avversario, soprattutto quando si tratta di occupanti stranieri. Lo sanno bene i britannici che vi restarono impantanati nel 1800, come pure i russi che 38 anni fa invasero il Paese per sostenere un governo filo-sovietico. L’Afghanistan è una prova del fuoco, per nulla metaforica, di tutte le contraddizioni occidentali

La stanchezza di due soldati dopo una battaglia a Sangin, provincia di Helmand, Afghanistan (foto Antony Loveless)
La stanchezza di due soldati dopo una battaglia a Sangin, provincia di Helmand, Afghanistan

L’Afghanistan, dove gli italiani stanno diminuendo i contingente di Herat per spostarlo in Niger sulle rotte dei migranti, è ancora fuori controllo e il governo del presidente Ashraf Ghani, sostenuto dalle truppe occidentali, appare un creatura fragile con forze armate poco affidabili e inefficienti.

I jihadisti del Califfato inoltre di stanno specializzando in una vecchia tattica già sperimentata in Iraq e in Siria: colpire la popolazione sciita per creare una spaccatura con i sunniti. Le divisioni locali ci sono già e hanno antiche radici storiche e religiose ma i jihadisti non esitano a sfruttarle a loro vantaggio.

Dell’Afghanistan, la cui instabilità è strettamente collegata a quella del Pakistan _ 160 milioni di abitanti e potenza nucleare in eterna competizione con l’India per il Kashmir _ si parla sempre di meno perché è evidente a tutti che se le truppe occidentali si ritirassero, cadrebbe di nuovo in mano ai radicali islamici, se non peggio. Eppure dall’Afghanistan non si esce fuori, quasi a volere confermare che questa terra affascinante è ancora la tomba degli Imperi.

Come mi disse una volta un capo talebano: “Voi avete l’orologio ma noi possediamo il tempo”. Gli afghani sanno aspettare e logorano qualunque avversario, soprattutto quando si tratta di occupanti stranieri. Lo sanno bene i britannici che vi restarono impantanati nel 1800, come pure i russi che 38 anni fa invasero il Paese per sostenere un governo filo-sovietico.

L’Afghanistan è una prova del fuoco, per nulla metaforica, di tutte le contraddizioni occidentali.

Nel 2010 gli Stati Uniti annunciarono che in quattro anni sarebbero stati “completamente fuori” dell’Afghanistan. Nel 2014 Barack Obama dichiarava invece avrebbe lasciato circa ottomila soldati americani e che avrebbe siglato un accordo con Kabul per prolungare la loro permanenza “fino alla fine del 2024 e anche oltre”.

Il nuovo presidente Donald Trump era contrario su tutta la linea a rimanere con le truppe sul campo. In uno dei suoi celebri tweet affermava: “I nostri soldati vengono uccisi dagli afghani che noi stessi addestriamo e in quel paese sprechiamo miliardi di dollari. È una cosa insensata! Ricostruiamo gli Stati Uniti”.

Ma i generali Mattis e MacMaster, rispettivamente il capo del Pentagono e quello della Sicurezza nazionale, che in Afghanistan hanno combattuto, lo hanno indotto a cambiare posizione. In agosto Trump ha annunciato l’invio di altri marines e che ci resteranno per tutto il tempo necessario. Accompagnando la decisione con questa frase: “Non si tratta più di ricostruire una nazione. Uccideremo i terroristi”. Come se gli altri presidenti, da Bush junior a Obama, non ci avessero pensato.

Sono frasi come queste che fanno dubitare che le decisioni di Trump siano ispirate a una strategia razionale. Il picco della presenza statunitense in Afghanistan è stato nel 2011 con centomila soldati. Se all’epoca questo non è stato sufficiente a conseguire la vittoria, perché mai dovrebbe esserlo oggi un incremento delle truppe da 8mila a 12 mila uomini? Né l’Unione Sovietica né l’impero britannico al suo apice hanno avuto la meglio sulla resistenza afghana, e gli ultimi sedici anni ci dimostrano che nemmeno gli Stati Uniti ce l’hanno fatta. Questa rimane la più lunga guerra ingaggiata dagli Usa nella loro storia.

Certo se gli Usa mollassero la presa il ritorno di talebani sarebbe quasi inevitabile. Ma i talebani sono anche i principali rivali sul piano militare dei jihadisti dell’Isis: non hanno l’ambizione di creare un Califfato internazionale ma di riprendere soprattutto il controllo dell’Afghanistan, sono in fondo degli iper-nazionalisti con un’ideologia da radicali islamici.

In realtà gli americani possono solo evitare il crollo di un governo sostenuto dall’Occidente, esattamente come fecero i sovietici invadendo il Paese nel dicembre 1979 per poi ritirarsi dieci anni dopo, appena prima della fine del Muro di Berlino. Allora _ ricordiamo anche questo _ i combattenti afghani e i jihadisti anti-sovietici alla Bin Laden erano gli “eroi” dell’Occidente, una generazione dopo diventarono i “barbari” degli attentati in Europa.

Vale quindi ancora il vecchio detto del premier britannico Anthony Eden che negli anni Trenta disse: “Prima regola della politica: mai fare la guerra in Afghanistan”.

La Vespa è nata da un aereo.

La Vespa è nata da un aereo. Il genio italiano di Enrico Piaggio

Piaggio disegna la prima “moto” a scocca portante, che quindi non ha bisogno di un tunnel centrale con il motore e tutto il resto e porta il cambio sul manubrio. Per il motore viene usato un motorino di avviamento di aereo

[Il ritratto] La Vespa è nata da un aereo. Il genio italiano di Enrico Piaggio

Il padre, non tecnico, ma biologico della Vespa, probabilmente lo scooter più famoso del mondo, si chiama Enrico Piaggio, erede dell’omonima casata, che allora produceva aerei. Una persona normale, ma intelligente. Studi di economia e poi in azienda. L’evento più notevole della sua vita, prima dello scooter, accade il 25 settembre del 1943 nella hall dell’hotel Excelsior di Firenze. Poiché non è svelto a alzarsi in piedi mentre alla radio parla il generale Graziani, un ufficiale della Repubblica sociale di Salò gli spara un colpo di pistola. Ricoverato in ospedale, lo salvano, ma gli devono asportare un rene. Poi torna in azienda.

La Piaggio nasce per fare aerei. Sono le circostanze a spingerla verso gli scooter. Subito dopo la guerra in  azienda si attraversa un momento delicato: gli impianti per fare aerei sono stati danneggiati dalla guerra. E quindi bisogna inventarsi qualcosa. Sono giorni in cui girano pochi soldi e anche poca benzina. Però la gente ha voglia di muoversi. La strada giusta è quella di dare agli italiani una specie di moto. Enrico Piaggio in realtà non sa bene che cosa vuole. Sa solo che vuole una cosa che non c’è e che nessuno ha mai visto.

Per ottenere questa cosa misteriosa, ha però un’idea importante: si rivolge all’uomo giusto, cioè all’ingegnere aeronautico Corradino D’Ascanio, che sarà il padre “tecnico” della Vespa, e che ha progettato il primo elicottero italiano. L’ingegnere detesta le moto, proprio non gli piacciono. In particolare, non gli va che si debba scavalcare la moto per salirci sopra.

La sua grande invenzione è appunto questa: grazie alla sua abilità come progettista di aerei, disegna la prima “moto” a scocca portante, che quindi non ha bisogno di un tunnel centrale con il motore e tutto il resto. Sempre perché detesta le moto normali, porta il cambio sul manubrio. Per il motore non ci sono problemi: D’Ascanio prende un motorino di avviamento da aereo e con quello fa correre il suo scooter. E’ nata la Vespa, il 23 aprile del 1946.

Il nome sembra che sia stato merito di Enrico Piaggio: alla vista del primo esemplare avrebbe appunto esclamato “sembra una Vespa”. Lo scooter, molto apprezzato anche per il suo straordinario design, gode subito di grande fortuna e di molte imitazioni. Piace molto, fra gli altri, anche ai registi: tutti ricordano Gregory Peck e Audrey Hepburn a spasso per Roma su una Vespa.

Grande successo, quindi, anche commerciale. Ma poi comincia la parte complicata della vita dello scooter. Nel 1964 la parte motociclistica viene scorporata dal resto della Piaggio che fa aerei e per un po’ rimane sotto il controllo della famiglia. Poi passa agli Agnelli, per matrimonio. E questa è una storia curiosa e intricata. Enrico Piaggio aveva spostato la contessa Paola Antonelli (grande casato fiorentino). La contessa, però, era stata sposata già una volta con il colonnello Alberto Bechi Luserna. Da questa unione era nata una figlia, Antonella. Enrico Piaggio, quando sposa la contessa Paola, ne adotta anche ufficialmente la figlia, che infatti si chiamerà Antonella Bechi Piaggio. La ragazza, di grande bellezza e classe, sposa Umberto Agnelli, il numero due della famiglia torinese dell’auto. E hanno un figlio, Giovanni Alberto Agnelli, che si porta dietro la Piaggio, di cui diventa presidente. Successivamente Umberto si separerà da Antonella e sposerà Allegra Caracciolo di Castagneto, cugina della moglie dell’Avvocato.

Anche la fine di Enrico Piaggio è abbastanza strana. Si sente male in ufficio mentre è in corso uno sciopero molto duro degli operai Piaggio, a Pontedera. La folla degli scioperanti è talmente fitta che l’ambulanza fa fatica a raggiungere, fra due ali di folla ostile, la palazzina con Enrico sofferente. Alla fine riescono a fendere la folla e a portare il paziente in ospedale. Morirà dieci giorni dopo. Alla notizia della sua scomparsa cessano di colpo tutte le agitazioni e c’è solo silenzio. Al suo funerale partecipa in pratica tutta Pontedera, migliaia di persone: nessuno, nel momento della scomparsa, dimentica quello che Enrico ha fatto per la città.

Ma torniamo alla storia della Vespa. Giovanni Alberto, molto posato e attento, è sempre stato  considerato dai due fratelli Agnelli come il vero erede dell’impero torinese. E più volte è stato indicato come tale, anche in occasioni pubbliche. Ma Giovannino, come era chiamato confidenzialmente per distinguerlo dallo zio Gianni, a poco più di trent’anni viene colpito da una forma rarissima di cancro allo stomaco. Fa lunghi soggiorni in America alla ricerca di una cura, ma a pochi giorni dal Natale del 1997 si spegne.

La tragedia provoca il disinteresse degli Agnelli verso la Piaggio, che era sempre stata considerata “di Giovannino”. Alla fine viene ceduta a Roberto Colaninno (quello della scalata Telecom), che ne farà  la capogruppo di un polo motociclistico, fra cui Laverda, Aprilia e Moto Guzzi.

E qui comincia una specie di seconda vita della Vespa. Colaninno ha molta esperienza di mercati esteri e intuisce che il futuro della Vespa sta soprattutto in Asia, dove moltissima gente ha voglia di spostarsi, ma ha pochi soldi. Insomma, dopo più di settant’anni la Vespa corre ancora.

«Nei Campi flegrei c’è rischio di eruzioni vulcaniche improvvise»

Allarme degli scienziati: «Nei Campi flegrei c’è rischio di eruzioni vulcaniche improvvise»

«Nell’area sono possibili esplosioni freatiche senza precursori evidenti». E da YouTube sono stati rimossi i video con le registrazioni del convegno

Simulazione dell'ultima eruzione, avvenuta nel 1538, del supervulcano dei Campi Flegrei (fonte: INGV)
Simulazione dell’ultima eruzione, avvenuta nel 1538, del supervulcano dei Campi Flegrei (fonte: INGV)

Il drammatico confronto

Gli studiosi hanno usato come modello di confronto la disastrosa eruzione giapponese del vulcano Ontake nel 2014. La ricerca internazionale è stata pubblicata sul Bulletin of Vulcanology lo scorso settembre. L’ipotesi è che «in caso di forte agitazione del sottosuolo o per il passaggio di un’onda sismica, la quantità totale di gas diffuso può aumentare notevolmente». Si potrebbe quindi creare un effetto di sovrappressione che non può essere smaltita e «in aree sismicamente attive, (ad esempio la Solfatara) uno scenario simile non è improbabile e potrebbe portare a un’esplosione improvvisa e localizzata senza preavviso».

Pericoli e previsioni

Durante il convegno napoletano è stata evidenziata la preoccupazione per le eruzioni freatiche improvvise e qualche ricercatore ha stigmatizzato il mancato proseguimento di progetti su rami di ricerca specifici, mentre altri hanno fatto notare che il confronto scientifico si sarebbe dovuto svolgere già negli anni scorsi. La consapevolezza è quella di avere a che fare nell’area flegrea con una caldera, una tipologia di vulcano che non consente previsioni accurate e attendibili sulle modalità e i tempi di una eventuale eruzione.

Il giallo dei video

In questo contesto c’è posto pure per un mistero: chi avesse voluto saperne di più avrebbe potuto consultare su YouTube i video con le registrazioni della due giorni che erano stati pubblicati. Purtroppo però da qualche giorno non sono più disponibili. Recita l’avviso su YouTube: «Questo video non è disponibile» (all’indirizzo www.youtube.com/watch?v=S2JUZ9_EAV8). È stato rimosso da non si sa chi. Così come un altro video (www.youtube.com/watch?v=MahfIA1r9gY) con documenti di grande interesse per il pubblico: le registrazioni e le slide di alcuni dei principali vulcanologi italiani riuniti nello stesso congresso. Un congresso plenario voluto dalla Protezione civile e da Ingv, l’Istituto nazionale di vulcanologia (presenti anche il presidente Carlo Doglioni e la dottoressa Chiara Cardaci della Protezione civile). Un confronto ai massimi livelli tra gli studiosi che, come ha ricordato il vulcanologo Giovanni Chiodini durante il suo intervento, «era auspicabile si fosse tenuto tre anni fa e bisognerebbe anche parlare delle motivazioni per cui non si è tenuto».

Indaga pure la procura di Napoli

Se il timore è quello di non creare allarmismi, bisogna però essere consapevoli che dal 2013 l’area dei Campi Flegrei è in «unrest», in agitazione, come attesta il livello giallo prescritto dalla Protezione civile. Del resto Ingv, qualche mese fa, aveva organizzato una conferenza pubblica proprio a Pozzuoli per tranquillizzare la popolazione della zona rossa, ritenendo infondate le preoccupazioni emerse dopo la pubblicazione, da parte del Corriere del Mezzogiorno, delle telefonate tra ricercatori allarmati per la situazione del sottosuolo. In quelle telefonate venivano pure denunciate carenze organizzative e di strumenti di ricerca. Sui fatti e sul caso Ischia sono in corso indagini in Procura a Napoli. Intanto Ingv ha organizzato per il 20 dicembre prossimo a Roma una «Giornata della trasparenza».

Piano di evacuazione fermo al 1984

Scrive ancora Il Correre del Mezzogiorno: “Nell’Area flegrea si attende ancora l’aggiornamento del piano di evacuazione fermo al 1984. E allora, non è forse doveroso consegnare ai residenti una dolorosa verità, cioè che le conoscenze scientifiche non ci consentono di sapere con esattezza e largo anticipo se e quando ci sarà un’eruzione ai Campi Flegrei? Averlo scritto significa forse fare allarmismo? Noi siamo convinti di no, perché quando la posta in gioco è così alta, la chiarezza è un obbligo morale”.

La salma di Vittorio Emanuele III torna in Italia

La salma di Vittorio Emanuele III torna in Italia, Elena già traslata in gran segreto: verranno tumulati nel santuario di Vicoforte

La bara verrà portata dall’Egitto con un volo militare. Ma non manca la polemica, il nipote: “Il loro posto è il Pantheon”. Mattarella infastidito

Un'immagine di Vittorio Emanuele

La regina Elena e re Vittorio Emanuele III di Savoia saranno tumulati l’uno accanto all’altra nel Santuario di Vicoforte in Piemonte. Dopo l’arrivo, ieri – in gran segreto – della salma della regina da Montpellier, le spoglie del sovrano hanno lasciato su un volo militare nella notte Alessandria d’Egitto per essere trasportate in terra italiana.

Da un aeroporto del Paese giungeranno in Piemonte, probabilmente in uno scalo militare, per poi trovare posto in un loculo ricavato all’interno della cappella di San Bernardo, dove da ieri si trovano quelle della consorte. Le operazioni sono condotte con il massimo riserbo, probablilmente per paura delle contestazioni. Gracile nel fisico e debole nel carattere, Vittorio Emanuele non certo un re che ha lasciato un ricordo positivo. Nella sua carriera si contano almeno tre macchie indelebili: l’ingresso nella sanguinosa Prima guerra mondiale, l’aver sempre assecondato il volere del dittatore Mussolini (compresa l’alleanza con Hitler e tutte le conseguenze) e l’aver lasciato il Paese allo sbando dopo l’8 settembre.

Non manca la polemica

Una parte dell’ex famiglia reale sembra non sia d’accordo con la tumulazione in un cimitero piemontese e, a quanto sembra, è intenzionata a dare battaglia per fare in modo che gli ex reali possano essere traslati al Pantheon a Roma. Oggi Gian Nicolino Narducci, un tempo segretario di Vittorio Emanuele IV e oggi segretario di Serge di Jugoslavia, ha incontrato il rettore della basilica, don Meo Bessone, e nel corso di un colloquio che alcune fonti hanno definito “concitato” ha fatto presente che “tutto si può ancora bloccare”. Ma al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, come riferiscono diversi quotidiani, questa polemica, dopo l’apertura a Maria Gabriella, per la cui iniziativa sono tornate in Italia le salme degli ex reali, sembra aver provocato un certo fastidio.

Emanuele Filiberto: non capisco la segretezza e la vergogna

“Mio nonno – osserva Emanuele Filiberto ai microfoni di Tgcom24 riferendosi a Umberto II, ultimo re d’Italia – diceva che le salme resteranno in esilio finché non torneranno al Pantheon a Roma. Dal 2002, quando è stata abrogata la norma transitoria della Costituzione sull’esilio, non c’erano più problemi nel riportarle in Italia. Ma abbiamo sempre aspettato. Ed è da sempre che vogliamo siano collocate al Pantheon”. Emanuele Filiberto si è detto “felice” per il rientro della bisnonna in Italia – ringraziando il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per averlo reso possibile – ma anche “sorpreso” per la segretezza dell’operazione: “Io l’ho appreso dalla stampa e dalle agenzie. Non capisco questa specie di ‘vergogna’ di riportare in Italia questa amata regina. Lo trovo strano”.

Del rientro delle salme del re e della regina si è iniziato a parlare nel 2011, anno a cui risale la richiesta dei famigliari di Casa Savoia. Istanza poi reiterata nel 2013 con la dichiarata disponibilità del vescovo di Mondovì, monsignor Luciano Pacomio. Il tutto cadrebbe nel settantesimo anniversario della morte di Vittorio Emanuele III (28 dicembre 1947) e, come ha voluto sottolineare Maria Gabriella, sorella di Vittorio Emanuele, “nel centenario della Grande Guerra” con l’auspicio che l’iniziativa “concorra alla composizione della memoria nazionale”.

L’arrivo della Regina Elena

Nel tardo pomeriggio di ieri, dopo mesi di preparativi avvolti dalla massima segretezza, si è compiuto il primo passo con l’arrivo, dal cimitero di Montpellier, della regina Elena. La collocazione è stata accompagnata “in un contesto di riserbo e sobrietà” dalla preghiera, a cura di don Bessone, prevista per il Rito delle esequie. La cappella di San Bernardo è conosciuta anche come mausoleo del duca Carlo Emanuele I, che vi è sepolto, e che sostenne l’inizio della costruzione del santuario nel Monregalese tra il 1596 e i primi anni del ‘600. Ora si attende, ad ore, la traslazione del re. Poi – spiegano a Vicoforte – si “predisporrà quanto opportuno per la visita di chi vorrà sostare in ricordo o in preghiera”.

La rivoluzione di Francesco

La rivoluzione di Francesco e la leggenda sulla lite con il cardinale sul futuro della Chiesa

Francesco porta la Chiesa nei crocevia della storia. E alla vigilia del suo 81° compleanno il papa non si oppone alle critiche ma chiede che siano costruttive e ispirate dalla fedeltà al Vangelo oggi

Papa Francesco
Papa Francesco

In quel mondo per alcuni aspetti misterioso come appare il Vaticano a tanta gente, alla vigilia dell’81° compleanno (17 dicembre) di Francesco, circola una storia non vera ma che indica come si respirano le riforme che il papa cerca di portare speditamente avanti. La storia narra che qualche tempo fa un autorevole cardinale ha chiesto udienza al papa e durante l’incontro abbia dato fuoco alle polveri di una critica piuttosto aspra nei confronti di Francesco. Non meglio identificate fonti raccontano di un acceso confronto e da fuori si è sentito il porporato dire con voce alterata a Francesco: “Noi ti abbiamo eletto per riformare e non per distruggere la Chiesa”. Questo bisbiglio del tutto inverosimile mostra in realtà la passionalità di una contesa sulle riforme che Francesco vuole. E intorno alla contesa fioriscono leggende. 

Non distruggere la Chiesa

In realtà Francesco è fedele al mandato di riformare e non di distruggere la Chiesa anche perché sarebbe un controsenso che un gesuita pensi a distruggere la Chiesa di cui è primo paladino. Vuole semplicemente portare la Chiesa nei crocevia della storia, dove i problemi scottano ma preparano il mondo futuro. Lo spiega bene un altro gesuita, Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica che nell’ultimo numero della rivista  racconta due inediti incontri di Francesco con i gesuiti del Myanmar prima e di quelli del Bangladesh dopo. Nel corso di un viaggio davvero difficile e delicato che – lo confida Francesco – è stato sul punto di venir cancellato.  Noi pastori dobbiamo imparare dal popolo. Perciò, se questo viaggio appariva difficile, sono venuto perché noi dobbiamo stare nei crocevia della storia”.

La critica ai Gesuiti troppo severi

“Il Papa – spiega Spadaro – è costruttivo nei suoi gesti e nelle sue parole. Non fa cose per pressione mediatica o per acquisire luce positiva: fa quel che deve fare per «costruire» ponti e tenere aperte le porte del dialogo. Il suo è un realismo che punta a tessere relazioni”. Parole che trovano conferme dallo stesso Francesco nell’incontro con i gesuiti. Il gesuita – ha detto – è colui che deve sempre  approssimarsi, come si è avvicinato il Verbo fatto carne. Guardare,  ascoltare senza pregiudizi, ma con mistica. Guardare senza paura e guardare misticamente: questo è fondamentale per il nostro modo di guardare la realtà. C’è stato – come saprete – un movimento dei cosiddetti  «gesuiti scalzi», che volevano un’osservanza rigida, quasi claustrale, delle regole. Una riforma al contrario, dunque, e contro lo spirito di sant’Ignazio. La vera preghiera e la vera osservanza gesuitica non vanno per quella strada. Non è un’osservanza restaurazionista. La nostra osservanza è guardare sempre avanti con l’ispirazione del passato, ma guardare sempre avanti. Le sfide non sono dietro, sono avanti.

La “guerra” per i diritti degli immigrati

Una di queste sfide cui la Chiesa non può rinunciare è la vicinanza agli immigrati. In loro il papa vede la condizione difficile ma reale per mostrare la coerenza della Chiesa con il Vangelo.  “Gesù Cristo oggi si chiama rohingya. Tu parli di loro come fratelli e sorelle: lo sono. Penso a san Pedro Claver, che mi è molto caro. Lui ha lavorato con gli schiavi del suo tempo… e pensare che alcuni teologi di allora – non tanti, grazie a Dio – discutevano se loro avessero un’anima o no! La sua vita è stata una profezia, e ha aiutato i suoi fratelli e le sue sorelle che vivevano in una condizione  vergognosa. Ma questa vergogna oggi non è finita. Oggi si discute tanto su come salvare le banche. Il problema è la salvezza delle banche. Ma chi salva la dignità di uomini e donne oggi? La gente che va in rovina non interessa più a nessuno. Il diavolo riesce ad agire così nel mondo di oggi. Se noi avessimo un po’ di senso del reale, questo dovrebbe scandalizzarci. Lo scandalo mediatico oggi riguarda le banche e non le persone. Davanti a tutto questo dobbiamo chiedere una grazia: quella di piangere. Il mondo ha perso il dono delle lacrime”.

Occhio a considerare il papa un ingenuo

Francesco è guidato da spirito di misericordia ma non di ingenuità. “Cerco di visitare, parlo chiaro, soprattutto con i Paesi che chiudono le loro frontiere. Purtroppo in Europa ci sono Paesi che hanno scelto di chiudere le frontiere. La cosa più dolorosa è che per prendere questa decisione hanno dovuto chiudere il cuore. E il nostro lavoro missionario deve raggiungere anche quei cuori che sono chiusi all’accoglienza degli altri. La sfacciataggine del nostro mondo è tale che l’unica soluzione è pregare e chiedere la grazia delle lacrime. Ma io questa sera davanti a quella povera gente che ho incontrato ho sentito vergogna! Ho sentito vergogna per me stesso, per il mondo intero! Scusate, sto solamente cercando di condividere con voi i miei sentimenti…”. Ci si può chiedere chi possa avere paura nella Chiesa di un papa che parla in questo modo e opera in conseguenza. Restando fedele al principio che la realtà si capisce meglio dalla periferia piuttosto che dal centro.

Nominando i cardinali, ho cercato di guardare alle piccole Chiese, quelle che crescono in periferia. Non per dareconsolazione a quelle Chiese, ma per lanciare un chiaro messaggio:le piccole Chiese che crescono in periferia e sono senza antiche tradizioni cattoliche oggi devono parlare alla Chiesa universale, a tutta la Chiesa. Sento chiaramente che hanno qualcosa da insegnarciForse Francesco pensa di dare un fondamento più evangelico che statuale al Vaticano trasformandolo in un nucleo centrale di competenze a servizio delle periferie, liberando le periferie dal gravoso compito di pensarsi in funzione di Roma anziché del Vangelo. Ma si tratta di un’impresa davvero gigantesca e storica. 

Igor il russo preso in Spagna

Killer Budrio, Igor il russo preso in Spagna “Prima della cattura ha ucciso 3 persone”

Killer Budrio, Igor il russo preso in Spagna “Prima della cattura ha ucciso 3 persone”

Norbert Feher, il latitante accusato degli omicidi del barista di Budrio Davide Fabbri e della guardia volontaria Valerio Verri, è stato fermato vicino a Saragozza. Minniti: “Un reparto del Ros che aveva segnalato alla Guardia civil il possibile nascondiglio”. Procuratore capo di Bologna: “Non c’è stata sottovalutazione. Presenteremo richiesta di estradizione”

Igor il Russo, alias di Norbert Feher, il killer serbo latitante accusato degli omicidi del barista di Budrio Davide Fabbri e della guardia volontaria Valerio Verri, è stato catturato in Spagna. L’arresto è avvenuto dopo un conflitto a fuoco avvenuto vicino a Saragozza, nella quale sono morte tre persone. Due delle vittime sono agenti della Guardia Civil, Víctor Romero Pérez, 30 anni, e Víctor Jesús Caballero, 38. Il terzo defunto è José Iranzo, un testimone che accompagnava gli agenti nella ricerca di un uomo che il 5 dicembre aveva assaltato una fattoria e aveva ferito due persone.

Secondo quanto emerso Iranzo, grande conoscitore dei monti e dei sentieri della zona, stava guidando le guardie impegnate nella ricerca di un uomo – si presume sempre Igor il Russo – che il 5 dicembre aveva fatto irruzione in una proprietà a Albalate del Arzobispo e ferito due persone. Verso le 19 di giovedì i tre hanno raggiunto il podere e al loro arrivo Igor ha aperto il fuoco e li ha uccisi. Quindi si è impossessato delle armi degli agenti, due pistole, ed è fuggito a bordo di un pick up verde.

Quanto ai fatti del 5 dicembre, le due persone rimaste ferite erano state colpite mentre tentavano di entrare nella casa di uno di loro: Manuel A., 72 anni, che tornava nella sua proprietà accompagnato da un fabbro, Manuel M., 42 anni, per cambiare la serratura della porta che da giorni era bloccata. Al loro arrivo erano stati sorpresi da un uomo, descritto come alto, che aveva aperto il fuoco. Il primo ad essere ferito era stato il giovane, ad un braccio, quindi l’altro, al costato. Dopo la sparatoria, erano stati dispiegati numerosissimi agenti nelle province di Teruel e Saragozza.

Al momento della cattura, riferiscono fonti dell’inchiesta citate da El Mundo, ‘Igor’ era “vestito in uniforme e pesantemente armato” con le armi rubate agli agenti uccisi. Le stesse fonti, prosegue il sito del quotidiano spagnolo – che definisce l’arrestato “un ex militare dell’Europa dell’Est” – sostengono che l’uomo “sapeva dove sparare perché ha ferito mortalmente le due guardie nonostante indossassero giubbotti antiproiettile. Gli agenti non hanno avuto il tempo di aprire il fuoco”.

La polizia scientifica ha confermato che le impronte digitali rilevate a Feher e immesse dalla Guardia Civil nella banca dati europea Afiscombaciano con quelle già in possesso delle autorità italiane. Il killer, scrive El Pais, era stato inizialmente localizzato a Malaga, nel sud della penisola iberica, dove era coinvolto in un traffico di droga.

IL PROCESSO A FERRARA – Il 13 dicembre si è aperto al tribunale di Ferrara il processo a Feher. L’uomo – chiamato “Vaclavic Igor” anche nel ruolo di udienza fuori dall’aula e non con il suo vero nome – viene sottoposto a giudizio per tre rapinecommesse nell’estate 2015, secondo l’accusa di procura, carabinieri e polizia, con la sua banda composta da Ivan Pajdek e Patrik Ruszo, che sono già stati condannati in abbreviato, davanti al gup, rispettivamente a 15 e a 14 anni.

Le tre rapine risalgono all’estate del 2015. A Villanova di Denore, il 26 luglio, la vittima è stata Alessandro Colombanilegato, bendato e picchiato davanti casa sua. Poi il 30 luglio l’assalto di notte nella casa di una pensionata di Mesola, Emma Santi, 93 anni, legata con fascette da elettricista e imbavagliata e ritrovata così due giorni dopo dal figlio per un bottino composto da una collana e gli anelli che aveva addosso. Infine il 5 agosto a Coronella, quando furono tenuti sotto sequestro per quattro ore, nella loro casa, la figlia Cristina e Giulio Bertelli, l’anziano padre disabile per rubare poi vestiti, mutande, cibo e l’auto dei due, una vecchia Fiat Tipo. L’udienza è stata rinviata al 17 ottobre dopo aver accolto la lista dei testimoni.

L’arresto “è frutto di un’attività investigativa che è partita dall’attività di indagine dell’Arma dei carabinieri. Di recente in Spagna c’era stato un reparto del Ros che aveva segnalato alla Guardia civil il possibile luogo dove si poteva nascondere Feher, a testimonianza di un’attività investigativa mai cessata. Abbiamo sempre detto dal momento in cui la vicenda è diventata drammaticamente presente nel nostro Paese che noi non avremmo mai mollato”, ha commentato il ministro dell’Interno Marco Minniti.

“Il risultato investigativo secondo me è eccezionale” e fin dall’inizio delle indagini sulla vicenda “non c’è stata nessuna sottovalutazione. Neanche dopo il primo omicidio”, ha commentato in conferenza stampa il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato, che ha annunciato: “Ci sarà la nostra richiesta di estradizione, che dovrà fare i conti con il fatto che il Paese richiesto dell’estradizione ha nell’attualità un procedimento penale per fatti gravissimi commessi in quel territorio”, ha spiegato il magistrato. “A parti invertite sarebbe la stessa cosa: se noi avessimo arrestato il latitante ‘spagnolo’ e ci fossero state delle morti in Italia, è chiaro che avremmo proceduto in Italia e non avremmo rinunciato alla nostra giurisdizione. Certamente processeremo Igor secondo le norme e dovremo coordinarci“.

“Spero che sconti la pena dovuta e che possa essere finalmente fatta giustizia. Anche se questo non potrà mai cambiare il mio dramma”, il commento di Maria Sirica, vedova di Davide Fabbri, prima vittima del killer. “La cattura in Spagna del criminale che ha ucciso nostro padre non ci fa certo gioire – il commento di Francesca ed Emanuele Verri, figli di Valerio, seconda vittima di Feher – non possiamo certo dichiararci soddisfatti se non altro perché è costata la vita ad altre tre persone. Due militari e un civile. Il nostro pensiero va a loro”.

Negozi chiusi nei giorni festivi?

Negozi chiusi nei giorni festivi? Ecco quanto costa santificare le feste

Negozi chiusi nei giorni festivi? Ecco quanto costa santificare le feste

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Esperto di crediti bancari in sofferenza

Leggendo la proposta M5S sulla limitazione alle aperture dei negozi nei giorni festivi mi è venuto in mente quando da bambino alla domenica, dopo la messa, passavo in pasticceria a comprare i dolci. A onor del vero non mi sembrava che il pasticciere sentisse l’apertura domenicale come una vessazione, anche perché, probabilmente, in quel giorno si concentrava metà del suo fatturato settimanale. A pensarci bene, poi alla domenica era aperta anche l’edicola (almeno al mattino) e il bar dove compravo delle pesantissime bottiglie di vetro di coca cola “vuoto a rendere” e non mi pare che all’epoca nessuno si desse pena per i ferrovieri, i ristoratori o per il proprietario della sala giochi, che anzi alla domenica faceva il pienone. Il tutto ovviamente tenendo da parte quelli che lavorano nei servizi essenziali come gli ospedali, i vigili del fuoco etc. come pure gli operatori dello spettacolo o dei mass media.

Con buona pace dei pentastellati, almeno dall’abolizione della servitù della gleba, quella di lavorare nei giorni festivi è una libera scelta che, peraltro, viene tipicamente retribuita in modo maggiorato rispetto al compenso dei giorni feriali, per tenere conto del disagio derivante dall’operare mentre gli altri sono a riposo. Allora da dove nasce questa retorica di tutelare “il riposo delle famiglie” e di difendere i lavoratori maltrattati del turboliberismo imperante che ci vuole ridurre tutti a consumatori senz’anima?

Oltre all’ovvia finalità propagandistica, credo ci sia la volontà di far leva su un sentimento generale di solidarietà nei confronti di quei lavoratori che maggiormente stanno sperimentando condizioni di lavoro disagiate o in qualche modo penalizzanti in relazione a fenomeni come l’innovazione tecnologica o, più in generale alla globalizzazione (qualsiasi cosa si voglia intendere con questo termine). In questo breve post vorrei illustrare come si tratti di argomentazioni retoriche prive di fondamento e come la tendenza a regolare eccessivamente o limitare l’attività economica sia potenzialmente dannosa.

Il primo nodo da smarcare riguarda le cattive condizioni di lavoro e l’accezione da dare questo termine. Viviamo in un paese dove il lavoro nero è purtroppo una realtà diffusa e dove, soprattutto in realtà aziendali medio piccole, non è infrequente che le condizioni di sicurezza sul lavoro vengano trascurate; un paese dove lavorare inizialmente senza compenso o per somme irrisorie, nei tirocini degli studi professionali, come nelle attività artigianali e in qualche esercizio commerciale è una tragica realtà. Come possiamo affermare che le condizioni di lavoro dei supermercati che vogliono aprire alla domenica o dei siti di e-commerce applicate alla logistica e alle consegne siano peggiorative rispetto a quelli che in tanti segmenti ed aree del nostro paese sono purtroppo standard molto bassi? E’ probabilmente vero il contrario: IkeaCarrefour o anche la perfida Ryanair non pagano le persone in nero, applicano contratti che non infrangono alcuna normativa e sono sicuramente più attenti alla sicurezza sul lavoro del negozietto di paese e della microimpresa.

E’ spiacevole che qualcuno debba lavorare alla domenica? Forse. E però sicuramente peggio vedere delle persone disposte a lavorare che rimangono disoccupate. Il riposo domenicale è un “benefit” che può permettersi chi ha un lavoro stabile, a tempo pieno e una situazione economica sufficientemente solida da non aver bisogno di lavoro extra. Se per alcune generazioni questa era la norma, oggi lo scenario è più complesso e il numero dei soggetti disponibili a lavorare nei festivi è molto più alto anche in conseguenza delle mutate condizioni in termini di occupazione e reddito pro capite soprattutto per i più giovani

Quali sono i danni potenziali derivanti dalla limitazione alle aperture nei negozi? In concreto abbastanza limitati, perché una chiusura in più o in meno in calendario non incide drasticamente sull’economia e in ogni caso la regola inutile si presta ad essere opportunamente aggirata. Il danno più importante è di carattere culturale: in un’epoca nella quale anche le organizzazioni più tradizionali si stanno aprendo allo smartworking, in un paese che cresce poco (quando cresce), ed ha livelli elevati di disoccupazione soprattutto giovanile, far passare l’idea che regolare per legge gli orari dei negozi sia una misura conveniente costituisce un pericoloso precedente. Le regole astruse che limitano in modo arbitrario l’attività economica sono una delle cause del declino del paese, aggiungerne di nuove in nome di una non meglio specificata tutela del riposo costituirebbe sicuramente un passo indietro.

Il punto di fondo da cogliere, evitando di lasciarsi abbindolare dalla retorica buonista e anacronistica, è che solo lasciando le persone libere di scegliere come e quando organizzare la propria attività economica si persegue veramente il benessere comune anche in considerazione del fatto che il lavoro disagiato che ad alcuni appare ingiusto, può costituire per altri una rilevante opportunità soprattutto se l’alternativa è non lavorare affatto.

Biotestamento è legge

Biotestamento è legge: il Senato approva tra gli applausi. Welby, Englaro, Fabo: la politica cede dopo 11 anni

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Giornata storica per il Parlamento che dà il via libera al provvedimento dopo anni di promesse e polemiche. Istituite le Dat, disposizioni anticipate di trattamento, che regoleranno il fine vita dei cittadini. Regge il patto Pd-M5s, Fi lascia libertà di coscienza, Ala vota a favore. Emma Bonino si commuove in tribuna. Mina Welby: “E’ quello che voleva Piergiorgio”

Gli applausi dell’Aula del Senato, la radicale Emma Boninocommossa in tribuna a fianco di Mina Welby che sorride mentre fuori in piazza i protagonisti di anni di campagne, estenuanti e lunghissime, ascoltano l’annuncio. Il Biotestamento è legge: il Senato ha dato il via libera definitivo con 180 sì, 71 no e 6 astenuti. Vengono così istituite per legge le Dat, disposizioni anticipate di trattamento, grazie a cui ogni cittadino può esprimere le proprie disposizioni sul fine vita (leggi la scheda). E’ un giorno storico per il Parlamento italiano che cede dopo undici anni di battaglie. Fino a pochi mesi fa non ci credeva nessuno: non ci credeva la maggioranza, vincolata ai no di Area popolare e dei cattolici, non ci credevano i 5 stelle che pure fin da subito avevano garantito il loro appoggio, non ci credevano a sinistra. Ci credevano forse solo loro, i familiari di chi ha sofferto per malattie personali, ma che comunque ha deciso di lottare per la dignità di tutti. “Senza Englaro, Welby, Fabo, tutto questo non sarebbe stato possibile”, hanno detto in piazza i radicali e i rappresentanti dell’associazione Luca Coscioniche assistevano alla diretta del voto da piazza Montecitorio (guarda il video). La lotta è iniziata con Piergiorgio Welby, morto nel 2006, e poi è stata portata avanti dalla moglie Mina. Quindi il papà di Eluana Englaro, Beppino che ha sopportato battaglie politiche sul corpo della figlia e nonostante tutto è rimasto in prima fila a chiedere il rispetto dei diritti. Poi, tra gli ultimi, dj Fabo, che è stato accompagnato a morire in Svizzera dal radicale Marco Cappato. E infine l’allievo di Don Milani Michele Gesualdi che, con gli ultimi scampoli di forza, ha chiesto ai cattolici di appoggiare quella battaglia per lui giusta. Il colpo di scena per la legge che sembrava essere destinata a restare nei cassetti anche in questa legislatura è arrivato nelle ultime settimane. A tirare la prima bomba alla politica è stato il Papa, dicendo che “può essere moralmente lecito rinunciare o sospendere le cure”. Quindi le crepe in Aula, complice il clima da fine dei lavori: la maggioranza, grazie al patto Pd-M5s sul tema, ha scelto di andare avanti sul Biotestamento e di rinunciare allo Ius soli e l’accordo tra i due partiti ha fatto il resto. Ieri l’Assemblea di Palazzo Madama ha respinto tutte le proposte emendative, mentre i soliti volti noti del centrodestra hanno cercato di fare resistenza senza ottenere risultati.

Mina Welby: “Era proprio quello che aveva voluto Piergiorgio”
In tribuna ad ascoltare la discussione a fianco della Bonino c’era anche la moglie di Piergiorgio Welbymorto nel 2006. A loro spettavano gli applausi e loro per prime si sono commosse. “Era proprio quello che aveva voluto Piergiorgio tanti anni fa”, ha dichiarato Mina Welby poco dopo. “Però poi quando ha scritto al presidente della Repubblica li è andato più a fondo. Per lui eutanasia voleva dire morte ‘umana’ in tutti i sensi, ci sono anche delle possibilità di morire in casi molto particolari che oggi vengono fatti in Svizzera, Belgio o in Olanda. Sono meno di quelli che si crede. E credo che con le cure palliative anche qui da noi ci saranno molte meno richieste anche sull’eutanasia. L’importante è che però i medici si formino e che vengano applicate”. Per Mina Welby oggi “è una bellissima giornata che sancisce un diritto di cura, di rifiuto, di scelta. Di libertà di scelta. Questo non vuol dire che se una persona vuole terminare la ventilazione, la nutrizione o non la vuole proprio non vuol dire che rifiuta la vita, ma è arrivata a un punto di grande sofferenza che verrebbe soltanto aumentata. L’interruzione di queste cure o non accettarle vuol dire non avere altre sofferenze. Quindi non è eutanasia come ho sentito dire in questi giorni. L’eutanasia è un’altra cosa. Vorrei che anche in futuro si legiferi su questo”.

Fuori dai palazzi, ad aspettare il risultato del voto c’erano i protagonisti delle lunghe campagne di sensibilizzazione di questi anni e naturalmente i familiari dei malati. Insieme al radicale Marco Cappato, la presidente dell’associazione Luca Coscioni Filomena GalloMina Welby (co-presidente ALC e moglie di Piergiorgio Welby), Carlo Troilo (cons. generale ALC e fratello di Michele, malato suicida), Rodolfo Coscioni (cons. generale ALC e papà di Luca Coscioni), Anna Cristina Paoloni (mamma di Luca Coscioni), Monica Coscioni (sorella di Luca Coscioni), Chiara Rapaccini (compagna di Mario Monicelli), Flaminia Lizzani (figlia di Carlo Lizzani), Generosa Spaccatore (moglie di Luigi Brunori) e Maddalena Soro(moglie di Giovanni Nuvoli), e tutti gli attivisti per la libertà di scelta. L’Associazione – promotrice e la più attiva sostenitrice della legge sul Biotestamento Luca Coscioni aveva consegnato proprio al Presidente del Senato Grasso, martedì 5 dicembre, 27mila firme raccolte in calce all’appello di Dj Fabo per un’immediata approvazione senza modifiche della legge sul biotestamento. Queste firme si erano andate a sommare alle oltre 121mila firme raccolte sotto la più generale proposta di legge popolare depositata nel settembre 2013, alle oltre 158mila sottoscrizioni dell’appello lanciato da Mina Welby, così come all’appello dei senatori a vita e a quello dei quasi 90 sindaci italiani e 2 presidenti di regione, rappresentati di circa 15 milioni di italiani.

Chris Froome dopato

Chris Froome dopato durante la Vuelta 2017. “Colpa di una cura per l’asma”

Il corridore britannico è stato trovato positivo a un controllo antidoping effettuato il 7 settembre. La sostanza incriminata è il salbutamolo, presente in un farmaco antiasmatico

Chris Froome ha utilizzato una sostanza dopante durante la Vuelta 2017. Il corridore britannico è stato trovato positivo a un controllo antidoping effettuato il 7 settembre in occasione della 18ma tappa del Giro ciclistico di Spagna, che poi ha vinto. La notizia è stata data dalla federazione ciclistica internazionale ma per il momento non verrà preso alcun provvedimento sanzionatorio. Anche le controanalisi hanno confermato la presenza nel sangue del corridore di una sostanza incriminata, il salbutamolo, che viene utilizzata in un farmaco antiasmatico. Il campione britannico a luglio aveva anche trionfato per la quarta volta al Tour de France.

Froome si difende: “Curavo asma, ma con dosi lecite”

La notizia della positività di Froome ha sconvolto il mondo del ciclismo, e la federazione internazionale (Uci) ha già sollecitato ulteriori approfondimenti ed ha chiesto alla squadre del corridore britannico di fornire spiegazioni sull’accaduto. “Tutti sanno che soffro di asma, ma so quali sono le regole e sono stato attento a non superare le dosi consentite”: questa la difesa del campione. “È noto che ho l’asma e so esattamente quali sono le regole. Uso un inalatore per gestire i miei sintomi (sempre entro i limiti consentiti) e so per certo che verrò testato ogni giorno indossando la maglia del leader della corsa”. “La mia asma -spiega Froome, in una nota diffusa dal Team Sky – è peggiorata alla Vuelta, quindi ho seguito il consiglio del medico di squadra per aumentare il dosaggio di Salbutamol. Come sempre, ho avuto la massima cura per garantire che non usassi più della dose consentita”. Quanto alla richiesta di spiegazioni da parte della federciclismo internazionale, il campione britannico ha detto “prendo molto sul serio le richieste” dell’Uci che “ha assolutamente ragione di voler esaminare i risultati dei test e, insieme al team, fornirò qualsiasi informazione richiesta”.

Il Ct francese: “Non sono sorpreso”

 Il ct della Francia, Cyrille Guimard, ai microfoni di RMC, non crede alla versione di Froome. “Non sono assolutamente sorpreso per Froome. C’erano segnali di pericolo. Nel 2014, ci fu un caso relativamente torbido. Dopo la Liegi-Bastogne-Liegi, aveva annunciato di avere la polmonite e poi ha preso parte al Giro di Romandia otto giorni dopo. Su quel test aveva avuto un TUE (permesso di uso terapeutico) grazie all’UCI. Quando tutto questo si accumula, non possiamo essere più sorpresi da un tale caso. Ora sarà una guerra tra avvocati”.