Undici milioni buttati al vento per la “Centrale fantasma”. Ma nessuno pagherà

Undici milioni buttati al vento per la “Centrale fantasma”. Ma nessuno pagherà

Chi all’epoca si oppose venne bollato come esponente della cultura “Not in my garden”: gente ostile per principio al progresso

Undici milioni buttati al vento per la “Centrale fantasma”. Ma nessuno pagherà

Nel 2009, quando la “centrale di cogenerazione” stava per essere inaugurata, a Bagnoli di Sopra, paese di 3750 abitanti in provincia  di Padova, scoppiò una piccola rivolta ambientalista. Che non fece notizia. Quei cittadini che  mettevano in discussione la sicurezza dell’impianto – un modello di “energia verde” finanziato dalla Regione Veneto e dall’Unione europea –  furono bollati come tipici esponenti della cultura “Not in my garden”: gente ostile per principio al progresso. La società costruttrice assicurava che la centrale, realizzata per produrre energia elettrica bruciando olii vegetali di colza, soia e girasole, era in linea con tutte le normative  più avanzate a tutela dell’ambiente.

La centrale non è mai entrata in funzione

Nessuno allora poteva immaginare che i timori ambientalisti si sarebbero rivelati del tutto infondati. Ma non per la perfezione delle tecnologie “green”. Più semplicemente perché la centrale non è mai entrata in funzione. Se non per poche ore il 14 maggio del 2009, giorno del collaudo. Poi più niente. Alla faccia degli 11 milioni di euro dell’investimento. Ma se anche qualcuno fosse riuscito a spingersi così avanti con la fantasia, difficilmente avrebbe potuto prevedere che nessuno dei responsabili dello spreco avrebbe pagato. La responsabilità erariale è infatti prescritta: la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti ha depositato ieri la sentenza che lo certifica.

Realizzata in tempi record: 2 anni e mezzo

Della centrale resta la struttura – due giganteschi bidoni che svettano sulla pianura – e soprattutto la memoria della  velocità con cui si passò dalla progettazione alla relazione. Il 13 marzo del 2006 l’accordo tra il comune nel cui territorio l’impianto è stato realizzato, quello di Conselve (Bagnoli di Sopra è il comune confinante) e la Cosecon Spa. Il 21 marzo dello stesso anno – otto giorni dopo – il suo recepimento da parte della giunta regionale veneta allora guidata da  Giancarlo Galan. Meno di un anno dopo, nel febbraio del 2007, il bando per l’appalto, un altro mese ed ecco l’affido dei lavori e, il 31 dicembre del 2008, la consegna dell’opera.

I dubbi iniziarono a farsi strada tra i residenti

A dire il vero qualche perplessità maturò da subito, e non di natura ambientalista. Nel 2008, quando la realizzazione della centrale era in corso, Alessandro Naccarato, un parlamentare del Pd, presentò un’interrogazione dove faceva notare che lo Studio di Impatto Ambientale allegato al progetto approvato dalla Regione Veneto prevedeva l’acquisto all’estero del 49 per cento del combustibile, questo benché il finanziamento da parte dell’Unione europea fosse subordinato all’utilizzo di materie prime locali. Nella stessa interrogazione si faceva notare che il comune di Bagnoli di Sopra non era stato in alcun modo consultato benché fosse coinvolto negli effetti delle emissioni non meno di quello nel cui territorio la centrale era stata costruita.

I verbali della seduta del consiglio comunale fanno venire i brividi

I verbali della seduta in cui il consiglio comunale di Conselve approvò la realizzazione del cogeneratore sono diventati una specie di testo teatrale.  “Atti – si legge in una cronaca apparsa sul Manifesto nel 2009, un anno dopo la fine dei lavori di costruzione dell’impianto – che fanno, davvero, venire i brividi. Sindaco e maggioranza del Pd danno vita a uno spettacolo vergognoso sulla pelle e sulla testa della gente. Un devastante mix di ignoranza, supponenza e tacita intesa”.  Il dibattito del consiglio comunale d Conselve è anche l’inizio di un docufilm intitolato “Il Mio giardino” (firmato da Cristian Cesaro, Fabio Lessio, Santo Bruno e Davide Donnola) che, sempre in quegli anni, ha dato voce ai pochi che si opponevano al progetto.

Finita la centrale la Cosecon fu travolta da un’inchiesta della magistratura

La costruzione della centrale si era conclusa da pochi mesi quando, nel luglio 2008, la Cosecon fu travolta da un’inchiesta della magistratura che portò in cella, tra gli altri, il direttore generale, il capo dell’ufficio tecnico, la responsabile delle gare d’appalto, un dirigente regionale e due imprenditori edili. Tutti accusati di truffa aggravata ai danni dello Stato e dell’Unione europea, concussione, falsità ideologica e materiale. Mentre era in corso la bufera giudiziaria, cominciarono a venire fuori le magagne strutturali del progetto industriale. Quelle segnalate nell’interrogazione parlamentare presentata fin dal 2008: le produzioni locali erano insufficienti, non bastavano ad alimentare la centrale. Ed era  necessario acquistare la metà del combustibile all’estero. Troppo caro.

Il finale è scontato

L’impianto non parte, il Cosecon fallisce (lasciando un buco da cento milioni di euro) e viene sostituita da un’altra  società, la Attiva Spa che il 9 marzo del 2010 avvia un nuovo bando nel tentativo (fallito) di affittare l’impianto a un altro operatore. Nel 2012 un secondo bando va deserto.  La Corte dei conti ha ritenuto di dover applicare la prescrizione perché l’ha calcolata a partire dalla data del collaudo (14 maggio del 2009) e non, come sosteneva l’accusa, a partire dall’anno dopo, dalla data del primo tentativo di trovare un nuovo operatore, cioè dal momento in cui il fallimento del progetto era risultato evidente. Dei 24 imputati, solo 4 sono stati anche assolti nel merito, tutti gli altri hanno beneficiato della prescrizione. La ricostruzione dell’accusa è stata completamente confermata. Ma i soldi pubblici sono persi definitivamente. E non ci sarà alcun modo di recuperarli.

La Cina trasforma il deserto in un immenso giardino verde

La Cina trasforma il deserto in un immenso giardino verde

Il governo ha avviato un importante progetto che, da qui ai prossimi 6 anni, ha come obiettivo quello di trasformare l’arido deserto del Tengger, situato per la grande parte sul territorio della Lega dell’Alxa, nella regione autonoma della Mongolia Interna in Cina, in un immenso prato verde. Per riuscirci un vero e proprio esercito di operai sta piantando quotidianamente delle piante capaci di resistere alle alte temperature diurne e anche a quelle rigide della notte. 

Armi e militari, nel 2017 l’It. alia spenderà 64 milioni al giorno.

Armi e militari, nel 2017 l’It. alia spenderà 64 milioni al giorno. E i dati smentiscono la Difesa: stanziamenti a +21% in 10 anni

Armi e militari, nel 2017 l’Italia spenderà 64 milioni al giorno. E i dati smentiscono la Difesa: stanziamenti a +21% in 10 anni

Numeri & News
L’analisi nel primo rapporto annuale dell’osservatorio Mil€x. In aumento del 10% i costi per F-35, portaerei, carri armati ed elicotteri da attacco, pagati in maggioranza dal ministero dello Sviluppo economico. Roberta Pinotti ha dichiarato che negli ultimi dieci anni la difesa ha subito un taglio del 27%, ma i numeri dicono il contrario

di  | 23 novembre 2016
L’Italia nel 2017 spenderà per le forze armate almeno 23,4 miliardi di euro (64 milioni al giorno), più di quanto previsto. Quasi un quarto della spesa, 5,6 miliardi (+10 per cento rispetto al 2016) andrà in nuovi armamenti (altri sette F-35, una seconda portaerei, nuovi carri armati ed elicotteri da attacco) pagati in maggioranza dal ministero dello Sviluppo economico, che il prossimo anno destinerà al comparto difesa l’86 per cento dei suoi investimenti a sostegno dell’industria italiana. Nell’ultimo decennio le spese militari italiane sono cresciute del 21 per cento – del 4,3 per cento in valori reali – salendo dall’1,2 all’1,4 per cento del pil.

Mil€x: “Più trasparenza e controllo democratico”
Sono alcune delle anticipazioni del primo rapporto annuale di Mil€x, il neonato Osservatorio sulle spese militari italiane, presentate mercoledì alla Camera dai due promotori del progetto ed esperti in materia, il giornalista (e collaboratore del Fatto) Enrico Piovesana e il ricercatore Francesco Vignarca. Il rapporto integrale sarà pubblicato a gennaio, dopo l’approvazione degli stanziamenti definitivi nella Legge di Bilancio. “Mil€x – spiegano i suoi fondatori – è un’iniziativa indipendente, lanciata con la collaborazione del Movimento Nonviolento di Capitini e finanziata da donazioni private, ispirata a princìpi di neutralitàpolitica e obiettività scientifica. Pur riconoscendo la necessità di mantenere un adeguato livello di prontezza ed efficienza dello strumento militare, è necessaria una maggiore trasparenza e un più attento controllo democratico su questa delicata materia per scongiurare i rischi derivanti da un’eccessiva influenza della lobby militare-industriale, a suo tempo denunciati dal generale e presidente americano Dwight Eisenhower”. Rischi molto concreti nel nostro Paese, stando alle informazioni fornite da Mil€x.

Realtà e propaganda: nessun taglio alle spese militari
Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha dichiarato che negli ultimi dieci anni la difesa ha subito un taglio del 27 per cento e che quindi nuove riduzioni sono impensabili ed è anzi il momento di maggiori investimenti. I dati del bilancio del suo stesso ministero la smentiscono, mostrando un aumento degli stanziamenti dell’11 per cento (con un calo del 4 per cento in termini di valore reale causa inflazione) e un invariato rapporto bilancio Difesa/pil, indice della volontà politica di destinare alla Difesa una quota costante della ricchezza nazionale. Per il 2017 (al netto del mezzo miliardo in più per l’accorpamento della Forestale ai Carabinieri) il budget previsionale provvisorio della Difesa è di 19,8 miliardi, più dei 19,3 previsti nei documenti programmatici governativi dell’anno scorso, cui vanno aggiunte tutte le spese militari che non rientrano nel bilancio del ministero della Difesa.

Le voci “extra-bilancio” della spesa militare italiana
Mil€x ha elaborato una nuova e accurata metodologia di calcolo delle spese militari italiane, togliendo dal conteggio le spese della Difesa per funzioni non militari (Carabinieri in funzione di ordine pubblico e tutela ambientale, considerando solo i Carabinieri in funzione di polizia militare e quelli che partecipano alle missioni militari: -3,5 miliardi) e aggiungendo quelle per le privilegiate pensioni del personale militare a riposo pagate dall’Inps (+1,8 miliardi al netto dei contributi versati dalla Difesa), quelle per le missioni militari all’estero a in patria pagate dal ministero dell’Economia e delle finanze (+1,4 miliardi, compresa l’operazioneStrade Sicure il cui costo è salito da 80 a 120 milioni) e soprattutto quelle dei nuovi armamenti pagati dal ministero dello Sviluppo economico (+3,4 miliardi). Il totale diventa così 23,4 miliardi per il 2017 (cifra provvisoria, la definitiva sarà quasi certamente maggiore), pari a 64 milioni di euro al giorno, 2,7 milioni di euro all’ora, 45mila euro al minuto.

Procurement sproporzionato rispetto alle esigenze
Nel 2017 un quarto della spesa militare totale (24 per cento) è destinata all’acquisto di nuovi armamenti: 5,6 miliardi tra Difesa e Mise, +10 per cento rispetto al 2016. Una cifra enorme (15 milioni al giorno) frutto di un procurement distorto da logiche industrial-commerciali (sostegno pubblico alla produzione e promozione dell’export, come nel recente caso dai carri armati Centauro 2 e dei nuovi elicotteri da attacco Mangusta) slegate dalle reali esigenze strategico-operative dello strumento militare. Commesse sproporzionate, giustificate dalla Difesa gonfiando le necessità (come nel caso del numero degli aerei da sostituite con gli F-35 o delle navi da rimpiazzare con le nuove previste dalla Legge Navale), esagerando i benefici economici e occupazionali(come nel caso del programma F-35) e ricorrendo alla retorica del ‘dual use’ militare-civile (come nel caso della nuova portaerei Trieste presentata come nave umanitaria, e delle fregate Fremm 2 presentate come unità per soccorso profughi e tutela ambientale). A proposito del programma F-35, per cui il budget non è stato dimezzato come chiesto dal Parlamento, ma è anzi salito a 13,5 miliardi, Mil€x anticipa che nel 2016 l’Italia ha firmato nuovi contratti riguardanti altri sette aerei (oltre agli otto già acquistati) e che quelli in versione da portaerei per l’Aeronautica formeranno un gruppo di volo imbarcabile sulla Trieste.

Spese tornano ad aumentare dopo la flessione post-crisi
In confronto al 2016 si registra un aumento dello 0,7 per cento a valori correnti (-0,3 per cento in termini reali) con un’impercettibile flessione nel rapporto spese militari/pil che rimane di poco inferiore all’1,4 per cento (flessione che potrebbe anche tramutarsi in incremento se il pil 2017 dovesse risultare inferiore a quello previsto dal governo). Rispetto al 2006 si registra un aumento del 20,8 per cento a valori correnti (del 4,3 per cento calcolando l’inflazione) e un aumento nel rapporto spese militari/pil dall’1,25 per cento del 2006 all’1,37 per cento del 2017. L’andamento storico mostra netta crescita fino alla recessione del 2009 con i governi Berlusconi III e Prodi II, calo costante negli anni post-crisi del quarto governo Berlusconi, nuova forte crescita con il governo Monti, flessione con Letta e nel primo anno del governo Renzi e nuovo aumento negli ultimi due anni.

Alti costi personale: troppi marescialli e poca truppa
Se si guarda alla composizione delle spese militari italiane, la parte del leone la fa sempre il costo del personale (9,5 miliardi, il 41 per cento del totale). Questo perché, spiega Mil€x, “nonostante la graduale contrazione del personale avviata con la riforma del 2012, il riequilibrio interno delle categorie a vantaggio della truppa e a svantaggio degli ufficiali, anch’esso previsto dalla riforma, sta procedendo con lentezza. Le forze armate italiane rimangono ancora caratterizzate da un numero maggiore di ‘comandanti’ (ufficiali e sottufficiali, soprattutto marescialli che sono ancora oltre 50mila) rispetto ai ‘comandati’ (graduati e truppa che sono ancora solo 81mila). Date le notevoli differenze retributive tra le categorie (generali e ammiragli: 172mila euro; marescialli: 42mila euro; graduati e truppa: 25mila euro), il quadro attuale (171 mila uomini) costa 1,2 miliardi in più rispetto a quello previsto dalla riforma(150mila uomini e giusto equilibrio interno delle categorie).

Boom di spese per ‘aerei blu’, colpa dell’ ‘Air Force Renzi’
Infine Mil€x segnala un notevole aumento di costi nel 2017 per il trasporto aereo di Stato (i cosiddetti ‘aerei blu‘) che sale a 25,9 milioni, con un incremento di quasi il 50 per cento rispetto ai 17,4 milioni del 2016. La quasi totalità di questa cifra, 23.503.075 euro, è il costo del nuovo Airbus A340 della Presidenza del Consiglio in forza al 31° stormo dell’Aeronautica Militare, utilizzato solo una volta in un anno per una missione di imprenditori italiani a Cuba, il cui costo totale per otto anni (2016-2023) risulta essere di 168,2 milioni tra noleggio e assicurazione più 55 milioni di carburante, per un totale di 223,2 milioni: 27,9 milioni in media all’anno.

Ufficiale l’addio a Equitalia, il decreto fiscale diventa legge

Ufficiale l’addio a Equitalia, il decreto fiscale diventa legge

  • 24 novembre 2016

È legge il decreto fiscale, dopo il via libera dell’Aula del Senato alla fiducia chiesta dal governo sul decreto fiscale, collegato alla manovra. Il sì di Palazzo Madama arriva con 162 voti favorevoli, 86 voti contrari e un astenuto. Il decreto, essendo stato approvato in un testo identico a quello che ha ottenuto il sì di Montecitorio, è dunque legge (a palazzo Madama il via libera alla fiducia coincide con l’approvazione dell’intero provvedimento).

Stop a Equitalia e rottamazione delle cartelle
Tra le principali misure, lo stop ad Equitalia con il passaggio delle funzioni all’Agenzia delle entrate-Riscossione, la rottamazione delle cartelle, la nuova edizione della voluntary disclosure, il cosiddetto ‘spesometro’ trimestrale per l’Iva e l’abolizione degli studi di settore sostituiti con indici sintetici di affidabilità fiscale. Il Dl finanzia poi alcune spese indifferibili legate a fondo occupazione, missione in Libia, investimenti nella rete ferroviaria, accoglienza dei migranti, fondo per le Pmi, tax credit per il cinema.


In un tweet dei senatori Pd la sintesi delle misure approvate

Il relatore Del Barba (Pd): non solo Equitalia, misure per rilancio
«L’attenzione dei media e dei cittadini riguardo il decreto fiscale è stata in gran parte attratta dalla norma contenuta che sancisce lo scioglimento di Equitalia a partire dal primo luglio 2017. Si tratta di una misura molto importante, ma questo però fa passare in secondo piano le tante altre positive misure contenute nel provvedimento, a partire dalla definizione di un rapporto più stretto tra il Mef e l’Agenzia delle entrate, per individuare le risorse e definire le strategie per la riscossione». Lo ha detto il senatore Pd Mauro Del Barba, relatore del Dl in commissione, spiegando che nel provvedimento «c’è dell’altro: I dati delle fatture Iva dovranno essere obbligatoriamente comunicati all’Agenzia delle Entrate per via telematica ogni tre mesi, permettendo controlli incrociati più rapidi ed efficaci, mentre le comunicazioni dell’Iva ogni 3 mesi consentiranno un incremento del gettito complessivo superiore ai 9 miliardi.

Decreto fiscale: come funziona la rottamazione delle cartelle

Riaperti i termini per la voluntary disclosure
Del Barba ricorda poi che «saranno al massimo 4 le rate per le cartelle rottamate e in questa materia la ‘definizione agevolata’ garantirà per il prossimo anno un gettito erariale di 2 miliardi di euro». Il relatore spiega inoltre che con la nuova legge «vengono riaperti i termini della voluntary disclosure e verranno erogati 600 milioni per i centri migranti» e che «delle agevolazioni per il cinema si è molto parlato, ma vanno ricordati anche i quasi 600 milioni di euro che vengono spostati dal fondo per le salvaguardie degli esodati al fondo per l’occupazione e destinati al rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga per il 2016».

BOLDRINI: “ECCO GLI INSULTI E LE MINACCE CHE RICEVO SU FB”.

BOLDRINI: “ECCO GLI INSULTI E LE MINACCE CHE RICEVO SU FB”. E PUBBLICA I NOMI DI CHI LA OFFENDE

“Basta insulti sessisti in Rete”, per la Presidente Camera non è libertà espressione ma una forma di violenza

Il post pubblicato da Laura Boldrini sul suo profilo Facebook
Il post pubblicato da Laura Boldrini sul suo profilo Facebook

Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne Laura Boldrini pubblica alcuni degli insulti più volgari e violenti da lei ricevuti su Facebook per denunciare il fenomeno delle minacce alle donne sui social. “Ho selezionato e vi mostro solo alcuni messaggi tra quelli insultanti ricevuti nell’ultimo mese. Ho deciso di farlo anche a nome di quante vivono la stessa realtà ma non si sentono di renderla pubblica e la subiscono in silenzio. Ho deciso di farlo perché troppe donne rinunciano ai social pur di non sottostare a tanta violenza. Ho deciso di farlo perché chi si esprime in modo così squallido e sconcio deve essere noto e deve assumersene la responsabilità. Leggete questi commenti e ditemi: questa si può definire libertà di espressione?”.

I nomi di chi la offende e la minaccia

Gli insulti ricevuti dalla Boldrini vanno da “meriti di fare la fine di una puttana” (Faro Di Maria) a “ma mai nessuno l’ammazza sta terrorista?” (Andrea Granelli). Gli altri, anche più pesanti, sono visibili sulla pagina FB della presidente della Camera e vanno dall’augurio di una morte atroce a quella di subire uno stupro da parte di albanesi. Ma c’è anche un 25enne che esprime il desiderio di tagliarle le mani con un’accetta.

Libertà d’espressione?

“Chi è che si deve vergognare, io o loro? Lo stigma deve passare da chi subisce a chi commette”. Così Boldrini ha commentato – in un colloquio con La Stampa – la sua decisione. Un gesto pensato “in nome e per conto di tutte quelle donne che non hanno la possibilità o non si sentono di farlo. Ho voluto prendere solo alcuni dei commenti, perché tutti non c’entravano. Sono commenti disgustosi, violenti, quasi tutti a sfondo sessuale, dove chi scrive non motiva un dissenso né esprime una critica, ma butta fuori odio e ferocia”. “Voglio – aggiunge – che le madri, i colleghi, gli amici, i datori di lavoro di queste persone, sappiano come si esprimono, perché chi scrive queste cose ha una carica di aggressività a mio avviso pericolosa”. Infine, un richiamo: “Le piattaforme digitali hanno potenzialità positive enormi, giocano un ruolo importante nella democrazia, per questo mi dispiace vederle inquinate da tanto odio e tante menzogne. Io ho preso querele su dichiarazioni false che mi sono state attribuite, delle vere bufale, è folle”.

Presto incontro con vertici di Facebook

Dopo la richiesta espressa in modo così accorato, i vertici del social netwoork si sono fatti sentire. “In seguito alla mia scelta di pubblicare i nomi di chi mi ha offeso e insultato online oggi ho ricevuto una telefonata dai vertici internazionale di Fb. Ci hanno contattato per avere presto un incontro”. Lo rivela la Presidente della Camera a Radio Radicale. “Sono molto contenta perchè le audizioni dei titolari di queste grandi organizzazioni alla Commissione Cox (n.d.r una Commissione che si occupa di lottare contro l’odio nel discorso pubblico) erano state deludenti. E’ evidente che i grandi social non sono solo piattaforme di discussione ma condizionano fortemente il discorso politico. Non possono dirci che basta solo cancellare gli insulti. Noi donne siamo continuamente offese in modo osceno e non possiamo più stare in silenzio. I social – conclude Boldrini – devono fare molto di più, investire molte più risorse, per contrastare la violenza e l’odio in rete”.

Preoccupazione per le centrali nucleari francesi, spenti 18 reattori.

Preoccupazione per le centrali nucleari francesi, spenti 18 reattori. Documenti di fabbricazione falsificati, oltre 400 i dossier tenuti segreti all’Authority

Troppo carbonio nell’acciaio, resistenza meccanica a rischio

Preoccupazione per le centrali nucleari francesi, spenti 18 reattori. Documenti di fabbricazione falsificati, oltre 400 i dossier tenuti segreti all'Authority

E’ grande la preoccupazione dell’Authority francese sulla sicurezza nucleare sullo stato di salute della maggior parte delle centrali attive nel Paese. Stando a quanto ammesso dallo stesso presidente dell’ASN, Pierre-Franck Chevet, in una intervista rilasciata a Le Figaro, le condizioni degli impianti sono critiche e, dall’aprile del 2015, lo scenario è persino peggiorato. “Dai controlli effettuati – annuncia l’Authority – è stato rilevato un eccesso di carbonio nell’acciaio della vasca dell’EPR (reattore pressurizzato europeo), siamo passati da una brutta sorpresa all’altra”. Chevet, che ha dato l’ordine di fermare immediatamente 18 dei reattori messi sotto esame, sostiene la necessità “di ripensare il controllo del nucleare”.

Troppo carbonio nell’acciaio, resistenza meccanica a rischio

Non è ben chiaro cosa possa accadere all’acciaio alterato, e questo, paradossalmente, non sembra neppure esser il problema più grave. “Nella fabbrica del Creusot – spiega nell’intervista – abbiamo rilevato l’esistenza di pratiche inaccettabili dall’inizio degli anni ’60. Da allora sarebbero stati presentati oltre 400 dossier sui quali venivano segnalati problemi, poi volontariamente tenuti nascosti all’ASN. Le anomalie sono molteplici, e tra queste, risultano non pochi documenti di fabbricazione palesemente falsificati.

Diverse le centrali nucleari situate vicino ai confini italiani

“Abbiamo ricevuto lo scorso fine settimana un fascicolo completo per ciascuno dei reattori presenti sul territorio francese – ha concluso il presidente dell’Authority – ci vorrà circa un mese per valutare i test e dare, o meno, l’ok per il riavvio degli impianti”. I reattori dell’Edf attualmente fermi potrebbero “nel migliore dei casi” tornare ad essere operativi “tra un mese e raggiungere la piena potenza a gennaio” 2017. Al momento sul territorio francese sono in funzione 22 centrali, alcune delle quali prossime ai confini italiani. Sapere che molte di queste presentano delle anomalie strutturali non preoccupa pertanto i soli cittadini francesi ma anche quelli del Belpaese.

Fidel Castro, dalla cacciata di Batista alla repressione dei diritti.

Fidel Castro, dalla cacciata di Batista alla repressione dei diritti. Luci e ombre del rivoluzionario-dittatore

L’Huffington Post  |  Di Lorenzo Bianchi
Pubblicato: 26/11/2016 11:01 CET Aggiornato: 26/11/2016 11:01 CET
FIDEL CASTRO

L’autunno del dittatore-patriarca è stato triste. Il 19 aprile 2011, cinquantesimo anniversario della proclamazione del carattere socialista della rivoluzione cubana e della vittoria alla Baia dei Porci contro i dissidenti mandati dalla Cia, Fidel si era spogliato anche dell’ultima carica, quella di segretario del Partito Comunista Cubano. Era il sesto congresso, quello dedicato alle riforme economiche volute dal fratello Raul, che la figlia di Fidel Alina Fernandez Revuelta, dissidente dal 1993, definisce “il patriarca della nostra famiglia, sempre preoccupatissimo di tenerne insieme i membri, Fidel incluso”. Il lider maximo aveva allora 84 anni. Sul sito Cubadebate.cu scriveva: “Sono convinto che il destino del mondo potrebbe essere molto diverso senza gli errori commessi dai capi rivoluzionari, che pure hanno brillato per talento e meriti”. E ancora: “Raul sapeva che non avrei accettato un ruolo nel partito. Mi ha sempre chiamato Primo segretario e Comandante in capo, funzioni che gli delegai quando mi ammalai gravemente (ndr, una pesantissima diverticolite). Non ho mai cercato di esercitarle, neanche quando recuperai in modo considerevole le capacità di analizzare e scrivere. Credo di aver ricevuto sufficienti onori. Mai ho pensato di vivere così tanti anni: i nemici hanno fatto il possibile per impedirlo, hanno cercato di eliminarmi innumerevoli volte e spesso ho “collaborato” con loro”. Parole stanche e sibilline. Il congresso approvava svariate eresie: “Investimenti esteri, piccola imprenditoria agricola, lavoro non statale, compravendita di abitazioni fra privati”. Bestemmie ideologiche al cospetto del “lider maximo”.

Fidel nacque a Biran, il 13 agosto del 1926, nella provincia di Oriente, vicino a Santiago del Cuba. Il padre Angel Castro Argiz, era un benestante proprietario terriero emigrato dalla Galizia. I genitori della madre, Lina Ruz Gonzales, venivano dalle Canarie. Dal 1941 al 1945 Fidel studia all’Avana. Frequenta un collegio per ricchi, il Belen, gestito dai gesuiti. Si imbeve di cultura spagnola, lui che a tredici anni aveva vergato in inglese una lettera al presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Si iscrive a legge. Nel 1948 sposa Mirta Diaz Balart, la sua prima moglie e va negli Usa in viaggio di nozze. Comincia il praticantato in un piccolo studio legale. Milita nella Lega antimperialista. Nel 1952 vorrebbe candidarsi al Parlamento nelle liste del “Partito ortodosso”, ma il golpe di Fulgencio Batista gli cancella le elezioni. Castro lo denuncia per “violazione della Costituzione”. Appello respinto.

Le frasi celebri di Fidel Castro

da Repubblica
  • Le frasi celebri di Fidel Castro

Il 26 luglio del 1953 Fidel imbraccia le armi. Tenta l’assalto della caserma Moncada a Santiago del Cuba. Muoiono ottanta suoi seguaci. Lui viene arrestato e condannato a 15 anni di carcere. “La storia mi assolverà” è l’esordio della sua arringa difensiva. Nel 1955 esce grazie a un’amnistia generale. Ritorna a Cuba navigando dal Messico su una piccola barca, il Granma. Sbarca il 2 dicembre 1956. Riescono a salvare la pelle solo in 12 su 80, fra questi Fidel, Che Guevara e Camilo Cienfuegos. Riparano nella Sierra Maestra. Arrivano a reclutare 800 uomini. Il 24 maggio del 1958 Batista scaglia contro i guerriglieri della Sierra l’operazione “Verano”, diciassette battaglioni che soccombono. Sono decimati dalle diserzioni. Il primo gennaio del 1959 il dittatore lascia Cuba.

Castro diventa il capo delle Forze Armate. Gli Usa riconoscono subito il nuovo governo. Cominciano gli espropri. Tocca per prima alla United Fruits americana. Fidel visita la Casa Bianca. Gli Il vicepresidente Nixon lo giudica un “ingenuo”. Ma nel 1960 il lider maximo firma un accordo per l’acquisto di petrolio russo e nazionalizza le raffinerie americane in territorio cubano. Washington interrompe le relazioni diplomatiche e spinge l’Isla Granda fra le braccia di Nikita Kruscev. Il 17 aprile 1961 la Cia promuove il disastro della Baia dei Porci, 1400 esuli cubani sono catturati appena toccano il suolo cubano. Centoquattro perdono la vita. Il presidente John Kennedy nega la copertura aerea allo sbarco. Nell’ottobre 1963 i velivoli spia U 2 statunitensi scoprono a Cuba nove siti con rampe che possono essere usate per i missili nucleari. L’8 settembre il primo carico di SS-4 Sandal era arrivato nel porto di Avana. Kennedy ordina il blocco navale di Cuba. Viene abbattuto un U 2 americano. Si sfiora l’olocausto nucleare. Il presidente americano accetta l’offerta di Mosca. Ritiro dei missili sovietici in cambio della promessa che Cuba non sarà mai più invasa.

Castro e l’Isola campano grazie a Mosca. Fino al 1990 l’aiuto dell’Urss vale un quarto del Pil nazionale. L’altro filone di ossigeno sono le rimesse degli emigrati negli Usa. Valgono 850 milioni di dollari all’anno. Nel 1978 Castro ha collettivizzato anche l’agricoltura. Nel 2003 vanta (e l’Unesco conferma) un livello di istruzione di base fra i più alti dell’America Latina, e prodigi sanitari, aspettative di vita seconde solo a quelle registrate negli Stati Uniti e un tasso di mortalità infantile inferiore solo a quello del Canada.

Il prezzo è la mancanza di libertà. Un solo partito legittimo, quello comunista. Secondo Freedom House sotto il governo di Fidel le esecuzioni e i morti in carcere sono stati 9000 e oltre 77 mila balseros hanno perso la vita sulle zattere che tentavano di raggiungere le coste americane. La stessa organizzazione calcola che a Cuba la stampa sia libera quanto lo è in Iran, centovantunesimo posto nel mondo nel 2013. Fino all’ottobre del 2012 era necessario un permesso speciale per espatriare. I gay venivano espulsi dal Partito Comunista Cubano e affidati alle cure delle Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione che li dirottavano nelle piantagioni di canna da zucchero per trasformarli “in veri uomini”. In un’intervista del 1965 a Giangiacomo Feltrinelli Fidel confidava “il timore di dover mandare un figlio a scuola e di vederselo tornare frocio”. Il 31 agosto del 2010 aveva chiesto pubblicamente scusa. Ora la figlia Mariela, 50 anni, parlamentare, sessuologa, dichiara che “il Paese è pronto a riconoscere il matrimonio gay, anche se molti sono contrari”. Su Cubadebate.cu all’anziano padre era rimasta solo la magra soddisfazione di adeguarsi ai tempi nuovi, dichiarando la sua passione per internet.

Fidel Castro e Che Guevara, i due volti della rivoluzione cubana

Fidel Castro e Che Guevara, i due volti della rivoluzione cubana

Entrambi figure carismatiche, l’uno è morto nel suo letto a 90 anni dopo aver guidato Cuba per quasi 50, l’altro è morto in battaglia, da eroe. L’ultima lettera di Guevara a Fidel

di RICCARDO JANNELLO

Ultimo aggiornamento: 26 novembre 2016
Fidel Castro e Che Guevara

L’Avana (Cuba), 26 novembre 2016 – Sulla Plaza de la Revolucion, l’enorme spiazzo dell’Avana dove si tengono le manifestazioni del regime facendo accorrere centinaia di migliaia di persone – e dove anche Papa Francesco ha avuto la sua glorificazione – di fronte al monumento a José Marti, innalzato come eroe e prodromo delle conquiste socialiste cubane, ci sono due disegni che rappresentano i volti della rivoluzione che ha portato Cuba a ciò che è stata almeno fino a stanotte. Da una parte Ernesto Che Guevara, dall’altra, ad altezza e dimensione simile, Fidel Castro.

Che cosa sia successo fra i due dopo il grande legame iniziale è compito degli storici raccontarcelo. Ma certo due figure così carismatiche, così particolari, non potevano che avere destini diversi, migliori o peggiori non si sa. El Che è morto in battaglia, credeva nell’impegno in trincea per unire tutta l’America latina in un solo stato rivoluzionario. Fidel, agli occhi di Guevara, aveva abbandonando questa idea della forza e aveva scelto – per necessità o virtù, chissà – la via politica, con il legame sempre più forte con l’Unione Sovietica contro Washington, con i regimi socialisti e comunisti, sposando in pieno, nel finale, il chavismo venezuelano.

Castro è morto a 90 anni, nel suo letto, spegnendosi mano a mano. Che Guevara è morto combattendo nella sierra boliviana e di anni ne aveva soltanto 39, e non ancora 31 quando la rivoluzione dei barbudos portò all’Avana la cacciata di Fulgencio Batista. Castro ha potuto fare il suo testamento umano e politico ad agosto scorso, intervenendo l’ultima volta al settimo congresso del Partito comunista cubano. “Questa potrebbe essere la mia ultima volta qui – disse il lider maximo nel suo discorso -, fra poco compirò 90 anni e questo non è il risultato di qualche sforzo ma il capriccio del destino. Sono come tutti gli altri: presto arriverà la mia ora”.

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L’attesa della morte, dunque, ma non la morte del suo pensiero: “Le idee del comunismo cubano sono fatte per durare. Rimarranno come prova che in questo pianeta se si lavora con fervore e dignità possiamo produrre i beni materiali e culturali di cui necessitano gli esseri umani. Dobbiamo lottare senza tregua per ottenerlo, dobbiamo trasmettere ai nostri fratelli di tutto il mondo l’idea che il popolo cubano vincerà”.

Un discorso forte nelle corde di Fidel, di quando arringava la folla della Plaza de la Revolucion parlando dei beni primari dell’isola, della propria autarchia economica. Il Che, che era nato combattente e combattente voleva rimanerlo, era partito da un comune ideale, ma essere relegato – così diceva – da Castro a una guida solo economica della rivoluzione non gli bastava più, quando a Fidel, egli pensava, quel ruolo di lider maximo e anima di tutti i cubani sembrava bastare e avanzare. Il lungo addio tra Fidel e il Che non significherà che il primo abbandonerà la memoria del secondo, tutt’altro, ma forse quella morte improvvisa ha permesso a Castro di evitare un lungo confronto popolare fra i due, amati allo stesso modo dal popolo cubano.

Abbandonando il Paese per cercare nuove avventure, Guevara scrisse una commossa lettera al suo amico e compagno di lotta, amorevole, ma ferma e decisa sulla necessità che la rivoluzione sia sempre nelle menti e nei cuori e nei corpi. Ma il rispetto che Fidel aveva nei confronti del Che non poteva esautorarlo da considerarlo il suo vero compagno di lotta, uno di quelli che come lui e altri dieci pionieri si erano salvati – seppur il Che ferito – dal primo sbarco sull’isola, il 2 dicembre 1956 alla Playa de las Coloradas a bordo della Granma. E quindi massimo onore anche dopo la “despedida” per Guevara e massimo riconoscimento alla sua opera sulle banconote, al Museo de la Revolucion e alla caserma Moncada, l’esempio più eclatante di difesa della lotta armata: chiudendo il percorso nella visita all’edificio di Santiago de Cuba, c’è la camicia strappata e intrisa di sangue che Guevara indossava a La Higuera quando fu ucciso. In fondo il sangue di quella camicia è lo stesso che ha battuto fino alla notte scorsa nel petto di Fidel.

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Quell’hasta la victoria siempre magari veniva interpretato in due modi diversi, ma la fama e la trasparenza di Castro come di Guevara rimarranno indelebili e le loro figure marceranno insieme nella storia del Ventesimo secolo. Ora il lider maximo si prepara ad affrontare in modo definitivo e non più mediato dal suo sguardo divenuto con il tempo implorante aiuto, il giudizio della storia. Con quegli slogan che lo hanno contraddistinto: patria o morte, marxismo leninismo o morte, tutto per la rivoluzione nulla contro la rivoluzione.

Fidel castro e Che Guevara, compagni di lotta (Afp)

E’ morto Fidel Castro, il padre della rivoluzione cubana

E’ morto Fidel Castro, il padre della rivoluzione cubana

Fidel Castro è morto. Ne dà notizia la tv di Stato di Cuba.

tappo castro intv di bella© Fornito da Rai News tappo castro intv di bellaPadre della rivoluzione, aveva 90 anni e già da diversi anni aveva passato il testimone al fratello Raul.

Castro è stato primo ministro di Cuba dal 16 febbraio 1959 all’abolizione della carica, avvenuta il 2 dicembre 1976, ed è stato, dal 3 dicembre 1976 al 18 febbraio 2008, Presidente del Consiglio di Stato e Presidente del Consiglio dei ministri, nonché Primo Segretario del Partito Comunista di Cuba, il partito unico del Paese, che tuttavia non partecipa direttamente alle elezioni.

Assieme al fratello Raúl, a Che Guevara e a Camilo Cienfuegos fu uno dei protagonisti della rivoluzione cubana contro il regime del dittatore Fulgencio Batista e, dopo il fallito sbarco nella baia dei Porci da parte di esuli cubani appoggiati dagli Stati Uniti d’America, proclamò l’istituzione della Repubblica di Cuba, uno Stato monopartitico di stampo socialista, che secondo Castro e i suoi sostenitori è una democrazia popolare apartitica, ma che i dissidenti e buona parte degli analisti politici internazionali definiscono come regime totalitario.

Ha spesso giocato un ruolo internazionale maggiore di quanto lascino supporre le dimensioni geografiche, demografiche ed economiche di Cuba, a causa della posizione strategica e della vicinanza geografica agli Stati Uniti del Paese.

Castro è stato una figura assai controversa: i detrattori lo hanno sempre considerato un nemico dei diritti umani, mentre i suoi sostenitori un liberatore dall’imperialismo e sottolineano i progressi sociali che egli ha promosso a Cuba.

Parigi, il Bataclan riapre con Sting: “Non dimenticheremo le vittime”

Parigi, il Bataclan riapre con Sting: “Non dimenticheremo le vittime”

Un minuto di silenzio al concerto per commemorare i 130 morti degli attentati terroristici dell’Isis. Il cantante: “Dobbiamo ricominciare la vita”. Ma gli Eagles of Death Metal restano fuori

Parigi, Sting al Bataclan un anno dopo la strage

Parigi, 12 novembre 2016 – “Stasera abbiamo due compiti: onorare i morti e ricominciare la vita. Non li dimenticheremo”. Sting sale sul palco del Bataclan un anno dopo le stragi del 13 novembre. E ha voluto onorare con parole pronunciate in francese i 130 morti (90 nella sala concerti) di quella notte di terrore che iniziò nei pressi dello Stade de France e visse nella sala da spettacolo nell’XI arrondissement di Parigi i suoi momenti più tragici. Poi un minuto di silenzio, chiesto dal cantante britannico prima di partire con la musica.

Un concerto da tutto esaurito, da 1500 spettatori, che vuole essere un inno alla vita dopo un anno di silenzio e cordoglio. Lo stesso Sting ha voluto inaugurare la riapertura del locale, hanno fatto sapere gli organizzatori. Il cantante è salito sul palco alle 21 e ha aperto lo spettacolo con ‘Fragile’, brano scritto da lui scritto nel 1987, poi si è esibito in “Message in a Bottle”. Lo show è durato un’ora e mezza carica di emozione, fino alle 22:40, in cui l’Englishman in New York ha scatenato Parigi. L’interno del Bataclan, hanno spiegato gli organizzatori, è stato “rifatto in modo che fosse identico” a prima degli attentati. Fuori, invece, tutto ricorda quella notte di paura: sulle strade in tantissimi hanno lasciato davanti all’ingresso fiori e bigliettini in ricordo delle vittime e le misure di sicurezza sono ingenti, con decine di agenti dispiegati e i marciapiedi davanti e di fronte alla sala concerti transennati. Il traffico davanti al Bataclan è stato bloccato.

MA GLI EAGLES NON ENTRANO – All’evento sono arrivati anche gli Eagles of Death Metal, la band che suonava la notte delle stragi. Ma non sono entrati: è stata la direzione del Bataclan a lasciarli fuori. “Sono venuti ma li ho mandati via. Ci sono cose non si perdonano”, ha detto il direttore della Sala concerti jules Frutos, citato dalla stampa francese. A inizio marzo, ancora segnato dal massacro, il frontman del gruppo aveva detto che a suo avviso l’attacco era stato preparato dall’interno della sala esprimendo sospetti nei confronti del servizio di sicurezza.

UNA NOTTE DI TERRORE – Le commemorazioni per le 130 vittime della furia jihadista sono cominciate ieri sera nello stadio nazionale di Saint-Denis, dove 80mila spettatori hanno osseravato un minuto di silenzio prima dell’inizio di Francia-Svezia, gara valida per la qualificazione ai Mondiali del 2018. Presente il presidente François Hollande, che quella sera fu portato in un luogo sicuro. Qui, la notte del 13 novembre 2015, un kamikaze si fece saltare in aria alle 21.20 uccidendo il 63enne portoghese Manuel Dias, autista che aveva accompagnato allo stadio un gruppo di tifosi.

Al Bataclan, invece, alle 20.45 era in programma il concerto degli Eagles of Death Metal. Un’ora dopo tre terroristi, Ismael Omar Mostefai, Samy Amimour e Foued Mohamed-Aggad, entrarono nella sala con kalashnikov, zaini pieni di caricatori, bombe a mano, cinture esplosive e un fucile a pompa, e urlando “Allah Akbar” spararono all’impazzata, tra le esplosioni dell granate, contro i circa 1.500 spettatori. Fu una strage: 93 morti, in gran parte giovanissimi, tra cui l’italiana Valeria Solesin.

 

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Eagles of Death Metal, le lacrime davanti al Bataclan

 

Intanto alle 21.25 c’era stata una prima sparatoria nei pressi di due ristoranti, Le Carillon su Rue Albert e Le Petite Cambodge su Rue Bichat, che aveva lasciato a terra 10 morti. Cinque minuti dopo un secondo kamikaze si fece esplodere, senza conseguenze, davanti al fast food Quick, nei pressi dell’ingresso H dello Stade de France. Alle 21.32 una seconda sparatoria: 3 vittime nei pressi di altri due locali. Quattro minuti dopo 20 persone morirono sotto le raffiche dei terroristi davanti al ristorante La Belle Equipe, vicino Rue de Charonne. Alle 21.43 una kamikaze si fece esplodere nella caffetteria Comptoir Voltaire, nei pressi del Bataclan (15 feriti) e 10 minuti dopo un altro kamikaze si fece saltare in aria presso un McDonald a circa 400 metri dallo Stade de France, causando 11 feriti.

 

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Parigi sotto attacco: dal Bataclan allo stadio, la mappa del terrore

 

Al Bataclan intanto erano arrivate le prime squadre di intervento, accolte da altre sparatorie e esplosioni. Decine e decine le persone in ostaggio mentre i tre kamikaze si fecero esplodere. All’una di notte arrivò la rivendicazione dell’Isis. Tragico il bilancio finale: 130 morti e più di 340 feriti.

A un anno dagli attentati di Parigi, l’Isis sta perdendo terreno in Siria e Iraq ma resta ancora una grave minaccia per l’Occidente  per la sua capacità di condurre attacchi su vasta scala. Stasera, comunque, ci sarà solo spazio per il ricordo. Al concerto blindato dell’ex frontman dei Police sono attesi 1.500 spettatori, tra cui anche superstiti e famiglie delle vittime.

LA POLEMICA – La riapertura del Bataclan “era l’unica risposta da dare all’orrore vissuto in quei giorni”, ha spiegato Jules Frutos, codirettore della sala concerti della capitale francese, che tuttavia polemizza con gli Eagles of Death Metal. La band americana che si stava esibendo al momento dell’attentato infatti non sembra più essere la benvenuta sul palco. “Non passeranno dal Bataclan, ho deciso così”, ha detto Frutos ai microfoni di France Info spiegando di non non aver digerito l’atteggiamento del frontman Jesse Hugues nei mesi successivi all’attentato. A inizio marzo, ancora molto segnato dal massacro, Hugues – noto per le sue posizioni favorevoli alle armi – aveva sostenuto che a suo avviso l’attacco era stato preparato dall’interno della sala esprimendo sospetti nei confronti del servizio di sicurezza. Intervistato poi da da Taki’s magazine – un giornale americano dalle posizioni estremiste – affermò di aver visto “dei musulmani festeggiare in strada durante l’attacco, in tempo reale”. E ancora: “Mi ricordo di loro mentre fissavano il mio amico. Ho semplicemente considerato che si trattava della gelosia degli arabi” rispetto agli americani. Dichiarazioni a cui seguì una valanga di reazioni indignate e il fondatore degli Eodm presentò le scuse.