Trattativa Stato-mafia, la sentenza dei giudici inchioda anche Berlusconi.

Trattativa Stato-mafia, la sentenza dei giudici inchioda anche Berlusconi. Ecco perché

La ricostruzione processuale sulle responsabilità penali di Dell’Utri mettono sotto accusa il Cavaliere, anche se non al punto da chiederne il processo e quindi la condanna. In attesa di leggere le motivazioni dei giudici di Palermo non si possono non ricordare due episodi estremi, dei rapporti della mafia con il movimento di Silvio Berlusconi

Trattativa Stato-mafia, la sentenza dei giudici inchioda anche Berlusconi. Ecco perché

Luigi Di Maio è convinto che la sentenza di ieri della Corte d’assise di Palermo condanna Silvio Berlusconi e quindi Forza Italia a non entrare a Palazzo Chigi. E il pm che insieme a Antonio Ingroia esplorò per primo i buchi neri della trattativa tra uomini delle Istituzioni e Cosa nostra, Nino Di Matteo, ha sottolineato che fino a ieri erano provate le triangolazioni tra l’imprenditore Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e Cosa nostra. Con la sentenza di ieri, dice Di Matteo, queste relazioni si ripresentano con il Berlusconi politico.

Suggestivo il giudizio del pm palermitano. Anche se va subito precisato che per i rapporti con Cosa nostra è in carcere solo Marcello Dell’Utri e non Silvio Berlusconi. A dir la verità la ricostruzione processuale dei giudici (anche della Cassazione) sulle responsabilità penali di Dell’Utri inchiodano anche il Cavaliere, anche se non al punto da chiederne il processo e quindi la condanna.

Epperò, in attesa di leggere le motivazioni dei giudici di Palermo, non si possono non ricordare due episodi estremi, dei rapporti della mafia con il movimento di Silvio Berlusconi. Due estremi, tralasciando tutto ciò che è scontato (come la nascita di Forza Italia in Sicilia con l’appoggio di Cosa nostra).

Il primo. Campagna elettorale del 1994. Forza Italia ipergarantista tuonava contro il carcere duro e i pubblici ministeri. Una scelta non tanto o non solo ideologica quanto materiale, economica, visto i guai giudiziari del Berlusconi imprenditore. E quindi il programma sulla giustizia di Forza Italia convergeva oggettivamente con le aspettative dei mafiosi. I candidati forzisti alle politiche di quell’anno, Tiziana Maiolo e Vittorio Sgarbi, andarono persino a incontrare nel supercarcere di Palmi il boss della Ndrangheta Piromalli. Che come Luciano Liggio era tesserato al Partito Radicale.
Sempre dalla Calabria, il 24 maggio del 1994, dalla gabbia del processo Scopelliti, il boss Totò Riina tuonò contro i pentiti, i tragediatori, prendendosela con i vari Violante e Caselli.

Secondo episodio. Un salto a Palermo, qualche anno dopo. Nello stadio della Favorita, il 22 dicembre del 2002 (governo Berlusconi) si giocava Palermo-Ascoli. E in curva fu srotolato questo striscione: «Uniti contro il 41 bis. Berlusconi dimentica la Sicilia». Perché questa rumorosa presa di distanza da Silvio Berlusconi? Negli anni si è poi discusso sull’esistenza di due interessi diversi e contrapposti interni a Cosa nostra: quello del partito dei detenuti, con i propri programmi da tutelare (attenuazione del 41 bis e abolizione dell’ergastolo), e quelli che, in condizione di libertà, portavano avanti gli interessi criminali di Cosa nostra.

Ma nell’uno o nell’altro caso – nonostante la presunta disponibilità di Forza Italia il 41 bis non fu abolito – la trattativa tra Dell’Utri e Cosa nostra, quand’anche vi fosse stata, non ha prodotto risultati apprezzabili, per Cosa nostra. Secondo la Procura di Palermo, infatti, l’ex senatore fondatore di Publitalia riuscì «a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che, se approvate, avrebbero potuto favorire l’organizzazione».

Ecco, la divergenza degli “innocentisti” e dei “colpevolisti”: qual è stato l’oggetto della trattativa? Perché si è voluto censurare il tentativo di pezzi degli apparati di repressione di cercare di capire da dove veniva la minaccia? Quelli furono anni terribili. Solo dopo fu scoperto che nel pieno della strategia stragista, alla fine del luglio del 1993, dopo le bombe di Roma e Milano, arrivarono alle redazioni del Corriere della Sera di Milano e del Messaggero di Roma due lettere con un unico messaggio: «Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo. Dopo queste ultime bombe informiamo la nazione che le prossime a venire andranno collocate soltanto di giorno e in luoghi pubblici poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. Ps: Garantiremo che saranno a centinaia».

Poi tutto si è fermato. Doveva esplodere un’autobomba all’Olimpico, per farla pagare ai carabinieri colpevoli (il generale Mori e il colonnello De Di no, condannati ieri) di non aver mantenuto gli impegni presi. Ma il congegno di accensione non funzionò. Fu l’inizio della fine di Cosa nostra stragista. Uno dopo l’altro furono tutti catturati. All’appello di quel gruppo manca solo Matteo Messina Denaro. Tutto si fermò per la trattativa di Marcello Dell’Utri? Aspettiamo con ansia di leggere le motivazioni dei giudici di Palermo.

La trattativa Stato-Mafia ed il pezzo mancante.

La trattativa Stato-Mafia ed il pezzo mancante. “Occorre scoprire chi ha tradito Paolo Borsellino e i mandanti della strage”

Parlano i magistrati fiorentini Nicolosi, Crini e Quattrocchi che per primi ipotizzarono la trattativa tra Stato e Cosa Nostra e l’hanno messa nelle sentenze. “Molto interessati a leggere le motivazioni”

[Interviste] La trattativa Stato-Mafia ed il pezzo mancante. “Occorre scoprire chi ha tradito Paolo Borsellino e i mandanti della strage”

“La parola trattativa nei processi sulle stragi di mafia del biennio 92-94 la scrisse per la prima volta Gabriele (Chelazzi, ndr). Era il 1996, in autunno, cominciavamo a raccogliere le dichiarazioni di Giovanni Brusca (poi collaboratore di giustizia, ndr). Fu nel nostro processo per le stragi in continente che in aula si parlò del papello, cioè delle richieste di Cosa Nostra allo Stato per mettere fine alle bombe. Ed ero con Gabriele, l’11 aprile del 2003, quando sentimmo il generale Mario Mori (all’epoca capo del Sisde, ndr) negli uffici della Dna in merito alla trattativa. Fu l’ultimo interrogatorio di Gabriele. Una settimana dopo morì, ucciso da un infarto. Quindi oggi non posso che dire bravi ai magistrati di Palermo che hanno completato quell’indagine e raggiunto questo importante risultato giudiziario. Sarò, io come molti altri, attento lettore delle motivazioni. La procura di Firenze aveva sempre cercato i mandanti esterni di quelle stragi. Quello era il nostro obiettivo, il pezzo mancante alla nostra indagine. Ancora oggi i colleghi della procura di Firenze hanno un fascicolo su quell’indagine. E ci sono due indagati. Questa sentenza potrà essere un tassello utile alla scoperta di tutta la verità ancora mancante”. I mandanti esterni di quelle stragi. E gli autori dei depistaggi nell’inchiesta sulla strada di via d’Amelio.

“Quando scoprimmo il papello”

Giuseppe Nicolosi è oggi procuratore a Prato ma per oltre vent’anni è stato sostituto procuratore della Dda fiorentina. Piero Vigna, Chelazzi, Nicolosi, Alessandro Crini, Francesco Fluery, una squadra di magistrati che da Firenze scrissero pagine importanti nella lotta a Cosa Nostra, quella della stagione più efferata, quando i boss decisero di portare l’attacco allo Stato in continente (Roma, Firenze, Milano, di nuovo Roma tra aprile e luglio 1993) dopo aver ammazzato con il tritolo i giudici Falcone, Morvillo, Borsellino, gli uomini e le donne delle scorte. In quel biennio di bombe e morti, da Salvo Lima (marzo 1992) al fallito attentato all’Olimpico (gennaio 1994), affonda il processo sulla Trattativa Stato-Mafia arrivato venerdì a sentenza con una raffica di condanne nei confronti degli ufficiali dell’Arma all’epoca ai vertici del Ros, il reparto scelto per le operazioni speciali, dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e di alcuni boss (Bagarella e Cinà; Riina e Provenzano sono nel frattempo morti).

“Abbiamo tracciato la strada per il processo cosiddetto trattativa”, rivendica Nicolosi. “I contatti tra Mori e l’ex sindaco di Palermo Ciancimino sono fatti storici che abbiamo acclarato nei nostri processi così come l’esistenza del papello è stata dimostrata in aula. Ma – sottolinea il procuratore – noi abbiamo sempre proceduto per l’ipotesi di concorso alle stragi”. Una qualificazione giuridica ben diversa da quella di “minaccia al corpo politico dello Stato” (art.338 cp) scelta dalla procura di Palermo.

“Una sentenza importante ma…”

Ha poca voglia di commentare la sentenza anche Alessandro Crini, oggi procuratore a Pisa. “E’ certamente un passaggio importante ma dobbiamo leggere le motivazioni, fino ad allora è comprensibile un naturale riserbo” spiega ricordando come le inchieste di Firenze abbiano segnato almeno altri due passaggi fondamentali di questa lunga storia. “La trattativa tra Stato e Cosa Nostra – precisa – viene scritta in sentenza per la prima volta nelle motivazioni delle sentenze che hanno condannato all’ergastolo in via definitiva Ciccio Tagliavia, il capo famiglia di Brancaccio che inviò il tritolo per la bomba agli Uffizi”.  L’ultima sentenza di quel processo è arrivata nel febbraio 2017. L’aggettivo “presunta” fu tolto per sempre dal sostantivo “trattativa” che divenne “comprovata” e – hanno scritto i giudici della Cassazione – fu condotta da Cosa Nostra “con finalità ricattatoria con il supporto degli apparati di intelligence”.

Decisiva per scrivere la verità su quel biennio di stragi è stata l’attività investigativa della procura fiorentina e della Dna, allora guidata da Piero Grasso, che portò alla scoperta del più clamoroso depistaggio giudiziario: la condanna del falso pentito Vincenzo Scarantino come autore di quella strage. Un depistaggio che ha falsato per ben sedici anni (Spatuzza ha deciso di collaborare nel 2008, ndr) le indagini sulla morte di Paolo Borsellino e della scorta. “Nel processo Trattativa a Palermo – ricorda Crini – sono stati sentiti gli storici investigatori della Dia che hanno ricostruito il famoso colloquio al caffè Doney a Roma tra Spatuzza e i fratelli Graviano, nel gennaio 1994, un mese prima del loro arresto. Da allora le bombe di Cosa Nostra hanno cessato. Ma i mandanti di quelle bombe sono ancora senza nome”. Si tratta del vecchio fascicolo 3197/95, quello sui mandanti delle stragi di Cosa Nostra, chiuso nel 2011 e riaperto a Firenze nell’ottobre 2017 con l’iscrizione nel registro degli indagati di Berlusconi e Dell’Utri (sulla base di alcune frasi pronunciate e intercettate in carcere da Giuseppe Graviano e finite agli atti del processo Trattativa).

Come si vede, dunque, la sentenza di primo grado sulla Trattativa non è certo la conclusione della ricostruzione di quel biennio di bombe e sangue in cui lo Stato ha vacillato. Almeno altri due sono gli scenari già indicati ma ancora da raccontare: i mandanti delle stragi, appunto, che nulla hanno a che fare con i trattativisti condannati; gli autori dei depistaggi nell’inchiesta Borsellino e delle numerose omissioni che permisero a Cosa Nostra di piazzare il tritolo in via d’Amelio due mesi dopo che lo aveva piazzato a Capaci. Deve essere chiaro che senza queste risposte quella storia non sarà mai scritta del tutto.

“Molta attesa per le motivazioni”

C’è molta attesa per le motivazioni del processo di Palermo. Il presidente della Corte d’Assise di Palermo Alfredo Montalto s’è preso novanta giorni per scriverle. C’è attesa anzitutto per lo sviluppo di quel passaggio nel dispositivo letto nell’aula bunker Pagliarelli dal presidente Montalto: “Marcello Dell’Utri colpevole limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del governo presieduto da Silvio Berlusconi”. Un passaggio che ha fatto dire al pm Di Matteo: “Finora avevamo una sentenza che metteva in correlazione Cosa Nostra con Berlusconi imprenditore; ora ne abbiamo un’altra che per la prima volta la mette in correlazione con Berlusconi politico”. Rispetto a questa parole Berlusconi ha annunciato querela.

E c’è molta attesa per la qualificazione giuridica del processo che ha sempre fatto molto discutere. Massimo Fiandaca, uno dei massimi esperti di diritto penale, convinto che il processo fosse “una boiata pazzesca”, anche ieri ha ripetuto che il difetto principale del processo è proprio il reato ipotizzato, cioè la “minaccia al corpo politico dello Stato” (338, cp). Il governo italiano, ha spiegato più volte il professore – non è un corpo politico bensì un organo costituzionale. I pm avrebbero, quindi, dovuto semmai utilizzare l’articolo 289 cp, cioè gli atti violenti contro lo Stato.

“Il rischio dei teoremi”

Conviene allora tornare a Gabriele Chelazzi che da solo e contro tutti già nel 1999 aveva intravisto le responsabilità del cedimento dello Stato rispetto alle minacce e alle bombe di Cosa Nostra. Ma rispetto ad un’ipotesi di concorso alle stragi (il fascicolo sui mandanti). A Firenze, ogni anno il 17 aprile si ricorda il magistrato scomparso nel 2003. Giuseppe Quattrocchi, il procuratore ora in pensione che ha seguito fino a pochi anni fa gli sviluppi delle inchieste di mafia nel capoluogo fiorentino, ha partecipato alla cerimonia. Dove è stata letta una riflessione di Chelazzi rispetto al rischio dei teoremi nelle indagini. “Teorema altro non è che assemblare spezzoni di realtà depurate di elementi dinamici, farli diventare inerti, spersonalizzarli e sistemarli a mo’ di tesserino sullo stesso piano di appoggio e conseguentemente contraffare il tutto con un corretta ricostruzione della realtà”. Anche il procuratore Quattrocchi è in attesa delle motivazioni. Per capire soprattutto “cosa è successo d opo rispetto ai contatti tra il Ros e Ciancimino”. Le bombe sono finite. Cosa ha dato in cambio lo Stato?

Coree, storica stretta di mano al confine tra Kim e Moon

Coree, storica stretta di mano al confine tra Kim e Moon: “Denuclearizzare la penisola e trattato di pace entro il 2018”

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MONDO
L’incontro è avvenuto a Panmunjom, il villaggio dove fu firmato l’armistizio che segnò la fine del conflitto nel 1953: “Non ci sarà mai più guerra nella penisola” hanno detto i leader, con Kim che ha parlato di “un unico popolo che non può vivere separato”. Il nordcoreano è il primo della famiglia al potere da circa 70 anni a calpestare il territorio sudcoreano. Impegno anche A ridurre gli arsenali convenzionali per ridurre le tensioni militari

Prima la storica stretta di mano sul 38esimo parallelo, poi gli impegni sul trattato di pace e il nucleare. Al termine del summit organizzato a Panmunjom, il villaggio dove nel 1953 fu firmato l’armistizio che segnò la fine della guerra di Corea, il leader del Nord Kim Jong-un e il presidente del Sud Moon Jae-in firmano una dichiarazione che apre nuovi scenari per gli equilibri militari e politici della penisola. I due si sono detti pronti a completare la denuclearizzazione della Corea e a trasformare entro il 2018 l’armistizio in un vero e proprio trattato di pace: “Siamo una nazione e siamo legati dal sangue, non possiamo vivere separati”, ha detto Kim al termine dei negoziati.

Un incontro, quello di venerdì 27 aprile, che aveva puntati addosso gli occhi di tutto il mondo. Per la prima volta dal 1953, il gradino di cemento che divide in due la penisola coreana all’altezza del 38esimo parallelo è stato superato fisicamente da un presidente del Nord. Intorno alle 9 e 30 (le 2:30 in Italia), Kim ha oltrepassato la linea di demarcazione di Panmunjom. Ad attenderlo, dall’altra parte, il presidente sudocoreano Moon Jae-in.

Chiusa prima sessione dello storico incontro tra le due Coree

Pace e nucleare – “Non ci sarà mai più guerra nella penisola di Corea” si legge nella dichiarazione che Kim e Moon hanno firmato al termine del loro incontro. Un chiaro impegno a porre fine formalmente alla guerra di Corea: 65 anni fa, infatti, il conflitto sulla penisola terminò con un armistizio e non con un trattato di pace. Per facilitare il processo, le due Coree hanno fatto sapere che cercheranno incontri con Usa e possibilmente Cina, entrambi parti coinvolte nel cessate il fuoco, “con l’intenzione di dichiarare la fine della guerra e stabilire un permanente e solido regime di pace”. Il sudcoreano Moon ha annunciato che in autunno andrà a Pyongyang, 11 anni dopo la visita del suo mentore politico Roh Moo-hyun.

Il summit ha portato a risultati concreti anche sulla questione delle armi nucleari: Nord e Sud hanno detto di voler completare la denuclearizzazione della penisola coreana e hanno concordato di ridurre gli arsenali convenzionali a sostegno degli sforzi per ridurre le tensioni militari. Dichiarazioni che fanno seguito alla scelta anticipata da Kim la scorsa settimana di voler interrompere i test nucleari e balistici. Una decisione confermata oggi davanti a Moon: “Non interromperò più il sonno del primo mattino”, ha detto il leader nordcoreano con un battuta.

La giornata dei simboli – L’incontro era iniziato con un’immagine storica: Kim, vestito con il tradizionale abito scuro in stile Mao, ha camminato verso il gradino che separa i due edifici dei meeting, noti come T2 e T3, nella Joint Security Area, dove Moon lo attendeva sorridente sul cordolo di cemento. Dopo la stretta di mano c’è stato anche un fuori programma, con Kim che ha sollecitato Moon ad entrare anche nella parte della Corea del Nord. I due, sempre tenendosi per mano, sono tornati sul suolo sudcoreano per dirigersi verso il palazzo di vetro e cemento della Peace House, dove poco dopo ha avuto inizio la prima tornata di colloqui del summit, il terzo dopo quelli del 2000 e del 2017.

Kim e Moon piantano un albero simbolo di pace

Un momento simbolico, così come simbolica è stata la cerimonia del pomeriggio, con Moon e Kim che hanno piantato un pino a sud del confine di Panmunjom, scoprendo una roccia su cui erano scolpiti i nomi dei leader e la frase “qui piantiamo pace e prosperità”. Alla base dell’albero, germogliato alla fine della Guerra di Corea, i leader hanno sistemato il terreno del monte Hallanell’isola di Jeju e del monte Paektu, i punti più a sud e a nord della penisola. Sul pino è stata poi versata acqua dei fiumi Han di Seul e Taedong di Pyongyang.

“Una nuova storia comincia adesso – a un punto di partenza della storia e di una nuova era di pace“, ha scritto Kim nel libro degli ospiti. Moon, da parte sua, ha ricordato che “il mondo guarda a Panmunjom”, diventato “simbolo di pace, non di divisione” grazie alla visita di Kim. “I due leader hanno avuto un dialogo sincero e franco sulla denuclearizzazione e sullo stabilire una pace permanente nella penisola di Corea e sullo sviluppo di legami intercoreani”, ha confermato Yoon Young-chan, portavoce di Moon. Kim ha auspicato colloqui “franchi” sulle questioni della penisola, “non sprecando tempo e occasione” offerti per ottenere “buoni risultati”. Al suo fianco la sorella minore Kim Yo-jong, intenta a prendere appunti e in un ruolo sempre più strategico, e l’ex  capo dell’intelligence Kim Yong-chol, ora alla guida delle relazioni intercoreane per conto del Partito dei lavoratori.

Le reazioni – “Si va verso la fine della Guerra di Corea! Gli Stati Uniti, e il suo fantastico popolo, dovrebbero essere molto orgogliosi di quello che sta accadendo ora nella penisola!” ha scritto il presidente Donald Trump su Twitter al termine del summit. Sullo stesso social la reazione del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni: “Le due Coree annunciano: “La guerra è finita”. Sono passati più di sessant’anni. Il futuro è pieno di incognite ma la giornata è storica”, ha scritto il premier. Anche il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ha commentato positivamente l’incontro fra le due Coree: “Sembrava quasi di essere alla vigilia di una terza guerra mondiale e invece l’incontro, che segue qualche settimana di distensione, ci fa guardare con ottimismo verso il futuro” ha detto all’Ansa.

Donald J. Trump

@realDonaldTrump

Is everybody believing what is going on. James Comey can’t define what a leak is. He illegally leaked CLASSIFIED INFORMATION but doesn’t understand what he did or how serious it is. He lied all over the place to cover it up. He’s either very sick or very dumb. Remember sailor!

Donald J. Trump

@realDonaldTrump

KOREAN WAR TO END! The United States, and all of its GREAT people, should be very proud of what is now taking place in Korea!

Paolo Gentiloni

@PaoloGentiloni

Le due annunciano: “La guerra è finita”. Sono passati più di sessant’anni. Il futuro è pieno di incognite ma la giornata è storica

Pechino ha definito un “momento storico” la stretta di mano fra i due: “La Cina plaude allo storico passo intrapreso dai due leader, ammiriamo il coraggio e la determinazione politica che hanno mostrato”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying. Anche il governo giapponese si è espresso sullo storico incontro tra i presidenti della Corea del Sud e del Nord, “con la speranza che i leader possano avere un incontro costruttivo che conduca a una comprensiva risoluzione delle questioni irrisolte, quali il negoziato sui cittadini giapponesi rapiti e lo stop al programma missilistico e nucleare di Pyongyang”, ha detto il capo di gabinetto Yoshihide Suga. Per Mosca il summit è una notizia molto positiva: “Oggi vediamo che questo dialogo diretto ha avuto luogo e apre alcune prospettive”, ha detto il portavoce del CremlinoDmitry Peskov, descrivendo come “molto positivo il fatto che i due leader si siano incontrati, così come i risultati dei loro negoziati”.

La prima sessione dei colloqui, quella mattutina, è durata un’ora e 40 minuti. Al termine Kim ha attraversato nuovamente il confine entrando nel Nord per pranzo, accompagnato da decine di guardie di sicurezza. Dopo la firma della dichiarazione congiunta la cena finale offerta da Moon, alla quale ha partecipato anche la first lady nordcoreana Ri Sol-ju.

Morte di Aldo Moro, le verità sconvolgenti della commissione parlamentare

Morte di Aldo Moro, le verità sconvolgenti della commissione parlamentare: ecco perché lo statista fu ucciso

Una cosa è certa: “La morte del leader democristiano portò a bloccare la strategia della solidarietà nazionale”

Una nota immagine di Moro durante il sequestro
Una nota immagine di Moro durante il sequestro
TiscaliNews

Quarant’anni sono trascorsi da quando il suo corpo fu trovato in una Renault 4 rossa e tante domande restano ancora senza risposta. Sarà Gero Grassi, componente della commissione bicamerale sul caso Moro, a parlare all’Istituto Pontano di Napoli dei risultati e della relazione approvata a dicembre scorso dal Parlamento. Secondo quanto scrive il magistrato ed ex procuratore della Procura antimafia Franco Roberti sul Corriere del Mezzogiorno, saranno illustrate le novità cui la commissione è pervenuta. Ciò “partendo dai risultati già raggiunti in sede giudiziaria e dalle precedenti commissioni parlamentari e sviluppandoli attraverso l’acquisizione di nuovi documenti, accertamenti diretti anche a mezzo della polizia giudiziaria e libere audizioni”.

 

La morte dello statista

Alla base del discorso il fatto ormai risaputo che “la morte di Moro era servita a bloccare la strategia della solidarietà nazionale. L’attrazione del Pci di allora nell’ambito della base democratica per sottrarlo all’influenza sovietica. Una finalità non gradita a settori politici conservatori italiani ed anche a settori internazionali. Sia dell’alleanza Atlantica che dell’area sovietica.

Una “verità di comodo”

La novità principale offerta dalla commissione – sempre a leggere il Corriere – sarebbe proprio che intorno a quel gravissimo delitto politico “fu costruita una verità di comodo”,  che “circoscriveva le responsabilità ai soli brigatisti, per nascondere la verità indicibile”. Ovvero che “l’omicidio di Moro aveva visto il coinvolgimento diretto dei servizi segreti di paesi alleati con la complicità, a vari livelli, di apparati interni e della mafia”.

Aldo Moro

In pratica “un attacco alla sovranità del nostro Stato”. L’obiettivo finale, alla fine, sarebbe stato perseguito e sarebbe consistito nella “fine della solidarietà nazionale”. L’opera di “disinformazione avrebbe coinvolto ex terroristi, esponenti istituzionali ed altri soggetti ben individuati”. Una verità alla fine sconvolgente, su cui ci sarebbe ancora da andare a fondo.

“Far luce sulle eventuali responsabilità”

Non si tratterebbe tuttavia di “sminuire il ruolo del partito armato e dei condannati nei vari processi” bensì di “far luce – magari soltanto in seda storica – sulle eventuali responsabilità di quanti orientarono e sfruttarono consapevolmente l’azione brigatista per finalità politiche e geopolitiche del tutto autonome rispetto a quelle originarie dei terroristi, se non addirittura contrapposte a queste ultime”, si legge sul Corriere del Mezzogiorno.

Servirebbe a questo punto approfondire ulteriormente la vicenda, anche per vedere se si può superare la contrapposizione tra “due posizioni ormai sclerotizzate: storia tutta italiana o complotto internazionale?”

“Voglia di dimenticare”?

L’impressione tuttavia, secondo il giornale, è che ci sia “voglia di dimenticare”. Una voglia a cui il nostro Paese dovrebbe tuttavia non abbandonarsi. Anche perché “la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni nasce dalla percezione di una non volontà di queste ultime di fare opera di verità sugli eventi tragici che hanno cambiato il corso della nostra storia. Sulla capacità di reagire a questa triste deriva si gioca il futuro della nostra Repubblica”.

Un professore di sinistra senza esperienza politica. Ecco chi è Conte

Un professore di sinistra senza esperienza politica. Ecco chi è Conte, il premier del governo Lega – M5s

L’allievo e poi socio del professor Alpa, è il nome su cui ci sarebbe il massimo consenso tra Salvini e Di Maio. Il suo profilo è giudicato “accettabile” anche in ambienti vicini al Quirinale. 54 anni, pugliese, è docente Diritto privato a Firenze. Dove ha conosciuto Alfonso Bonafede, prossimo Guardasigilli

Il professor Giuseppe Conte
Il professor Giuseppe Conte

Nella Terza Repubblica delle post ideologie, il Professore è comunque solito definirsi “uno di sinistra”. E nell’era del post-partitismo il fatto che sia un Professore, esattamente come Mario Monti, lo rende esente da sospetti di continuità con la “deplorevole” casta dei Professori e dei tecnoburocrati.

Se si riescono a superare queste minime contraddizioni, il profilo dell’uomo che oggi dovrebbe essere indicato premier del governo giallo-verde è perfettamente compatibile con quello di un Professore universitario prestato alla politica. Un profilo giudicato “accettabile” anche da ambienti molto vicini a quelli del Quirinale.

Origini pugliesi

La sintesi di ottanta giorni di trattative e di stallo politico si chiama Giuseppe Conte, è nato 54 anni fa a Volturana Appula, paesino di 500 abitanti adagiato sul confine tra Puglia, Molise e Campania, laureato a Roma in giurisprudenza e carriera universitaria a Firenze dove ha la cattedra di Diritto privato. Il suo curriculum accademico, inviato alla Camera dei deputati nel 2013 per l’elezione del Consiglio di disciplina della giustizia amministrativa, riempie ben 12 pagine: laurea in Giurisprudenza all’Università di Roma, poi una sfilza di master e perfezionamenti in giro per il mondo (Yale, Vienna, Sorbona, New York University). Nel 1988 (l’anno della laurea), era già stato inserito nella commissione istituita a Palazzo Chigi per la riforma del codice civile. Non si contano le collaborazioni con riviste giuridiche, università di paesi stranieri, i libri e gli articoli pubblicati. Nel 2013 viene eletto nel Consiglio di disciplina della giustizia amministrativa – il Csm del Consiglio di Stato – proprio con i voti dei 5 Stelle.  Carica che ha lasciato quando Di Maio lo ha voluto nella squadra dei “suoi” ministri. Risulta essere questo il suo primo e unico incarico passato dai filtri della politica.

L’esordio da XFactor

In quel format a metà tra XFactor e il Grande Fratello che il primo marzo fu la presentazione in pompa magna all’Eur del governo 5 Stelle, Conte è stato certamente quello che ha colpito di più: palese il suo imbarazzo di accademico nel prestarsi ad uno show senza capo né coda.  Parlò tra gli ultimi, il professor Conte: pochette bianca nel taschino dell’abito grigio fumo, ciuffo giovanile, voce calda, aspettò ore prima di raggiungere il microfono e dire perché era lì come candidato ministro alla Funzione Pubblica: “Ho accettato di collaborare con Luigi Di Maio nella logica di uno spirito di servizio e offro il mio impegno per un obiettivo molto ambizioso, rendere efficiente la pubblica amministrazione…”. Fu tra i pochi, forse l’unico tra i venti convocati, che usò il termine “collaborare” e a sottolineare il carattere “simbolico” di quella cerimonia, consapevole, in quanto accademico, che non era possibile parlare di “incarico” come invece fecero tutti gli altri abbagliati da un appuntamento che, se non era un gioco, era bizzarro per non dire anticostituzionale.

Conte rischia anche di essere tra i pochissimi di quella squadra di “elevati” a realizzare quello per cui fu chiamato: entrare nella squadra di governo. Di più: di diventarne il mister, l’allenatore, il coach, il Presidente del consiglio.

Il suo nome è quello su cui Salvini e Di Maio avrebbero trovato l’accordo ieri dopo l’ennesimo faccia a faccia. E oggi, nel pomeriggio, dovrebbero comunicarlo e sottoporlo al giudizio del Presidente Mattarella molto attento in questi giorni nel ricordare le prerogative del Capo dello Stato in base alla Costituzione e alla prassi di 70 anni di Repubblica: non notaio passivo di decisioni altrui; garante degli assetti economici ed internazionali (cioè Europei).

Cautela dopo la lezione di Sapelli

Conte non ha fatto l’errore compiuto da un suo illustre collega, il professor Giulio Sapelli che una settimana fa cedette alla vanità di dichiarare cosa avrebbe fatto quando sarebbe diventato premier. E in questi mesi si è mosso con cautela e discrezione seppure negli ambienti accademici, fiorentini e della Capitale, è stato dato per scontato che sarebbe diventato “almeno ministro alla Funzione Pubblica”.

Per capirne un po’ di più il profilo, può essere utile confrontarsi con alcuni suoi colleghi, soprattutto dell’ateneo di Firenze dove giunse come ordinario nel 2001. E’ definito persona “sobria”, “preparata”, “grande lavoratore, uno che dorme 4 ore per notte”, “piglio decisionista”, dotato di “grande sensibilità nel trattare con parti e contendenti di alto livello economico”. Accanto alla vita universitaria, infatti, Conte vanta anche una luminosa carriera come professionista e socio di un importate studio legale aperto nel 2002 con il professor Guido Alpa, uno dei massimi esperti in Italia di diritto commerciale e societario e suo professore ai tempi della Sapienza.

Nessuna esperienza politica

Tutti sono d’accordo anche su un’altra cosa: Giuseppe Conte è un “tecnico” in tutto e per tutto che viene prestato alla politica visto che “nel suo passato non ci sono esperienze di tipo politico e non ha alcuna esperienza di cosa voglia dire gestire un organo dello Stato”. Chi conosce la sua attività professionale, oltre che accademica, lo racconta anche come “uno tra i massimi esperti di enti no-profit”. Per cui nessuno si stupisce nel ricordare che “in effetti Conte si è sempre definito come uno di sinistra”.

Quando si presentò nel dream team di Di Maio la raccontò così: “In passato ho votato a sinistra. Oggi penso che gli schemi ideologici del ‘900 non siano più adeguati. Credo sia più importante valutare l’operato di una forza politica in base a come si posiziona sul rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. E sulla sua capacità di elaborare programmi utili ai cittadini”.

L’ingaggio dei 5 Stelle

Più che un colpo di fulmine, quello con i 5 Stelle è stato un vero e proprio ingaggio: “Fui contattato da loro nel 2013 se ero interessato ad essere eletto nel Consiglio della giustizia amministrativa. Per correttezza ho precisato che non li avevo votati, mi risposero che era meglio così. In questo anni non ho mai ricevuto una telefonata. E così ho avuto modo di apprezzare la buona volontà di questi ragazzi, fanno sul serio…”.

E’ facile immaginare che il contatto tra il Professore e i 5 Stelle sia stato Alfonso Bonafede, fedelissimo di Di Maio, studio legale a Firenze, destinato a fare il ministro Guardasigilli nel governo giallo-verde. Il programma della Giustizia è stato scritto da Conte che è anche legale di Di Maio.

Il programma del “ministro” Conte parte da tre punti: “Abolire le leggi inutili, molte più delle 400 indicate da Luigi Di Maio; rafforzare la normativa anti-corruzione prevedendo quelle iniziative che si muovono nello spazio oscuro che precede la corruzione; rivedere, quasi integralmente, la riforma della cattiva scuola”. Non sarà un politico, il Professore, ma ha un senso innato per il consenso.

Ma il Contratto di governo è illecito

Il problema vero è come si porrà il Professore-Premier rispetto al “Contratto per il governo del cambiamento”: un puro accordo politico senza alcun valore contrattuale che sarebbe in ogni modo nullo perché vincola le parti in modo illecito, al di fuori delle regole costituzionali. Insomma, una volta entrato a palazzo Chigi, il professor Conte, se fedele alla dottrina e ai suoi insegnamenti, dovrebbe spiegare che la fatica di dieci giorni di lavoro è carta straccia. Al massimo una lista di appunti utile per la navigazione, ma in alcun modo vincolante per nessuno. E dovrebbe anche, soprattutto, convincere la base dei 5 Stelle come un accademico puro possa diventare politico da un momento all’altro. “Sarà un grande amico del popolo” ha detto ieri Di Maio. “Sarà eletto in Parlamento” è stata la promessa della Lega. Il professor Conte è tante cose ma nessuna delle due promesse.

Dietro la strage del treno, milioni di fondi destinati alla sicurezza utilizzati per rinnovare il parco mezzi

Dietro la strage del treno, milioni di fondi destinati alla sicurezza utilizzati per rinnovare il parco mezzi

C’è il video del disastro. I problemi emersi lungo la tratta Torino-Chiavasso-Ivrea sono comuni e interessano tutta l’Italia. Nel 2017, sui quasi 17mila chilometri di rete ferroviaria, si sono verificati 101 incidenti nei quali hanno perso la vita 93 persone

TiscaliNews

E’ una delle linee ferroviarie più vecchie d’Italia quella interessata dall’incidente avvenuto lungo la tratta Torino-Chiavasso-Ivrea e costato la vita a 2 persone, oltre alle altre 20 ferite in maniera più o meno grave. Alcuni la definiscono persino maledetta, perché lungo quel percorso gli incidenti mortali non sono poi così rari. Il 10 giugno del 1992, il primo drammatico scontro… un frontale tra due treni che provocò la morte di sei persone e molti feriti. Secondo le statistiche rese pubbliche sulle pagine de La Stampa soltanto lo scorso anno ci sarebbero state altre 9 vittime ai passaggi a livello. I problemi sulla rete ferroviaria sono dunque noti, tanto che negli anni sono stati stanziati ben 40 milioni di euro che sarebbero serviti a rendere più sicura la tratta.

Dove sono finiti i fondi destinati alla sicurezza?

Quei fondi, indispensabili per la messa in sicurezza di una linea importante, che taglia in due Piemonte e Valle d’Aosta, sono stati dirottati ad Aosta, per comprare nuovi treni bimodali, in grado cioè di funzionare sia a gasolio che con la linea elettrica. E il paradosso, denuncia La Stampa, è che i soldi sono stati spesi, ma “in Valle quelle motrici le stanno ancora aspettando”. I residenti della zona attendono da anni un ammodernamento delle infrastrutture, ma il problema sicurezza diventa tale soltanto quando ci sono nuove sciagure. “Ora che ci sono di nuovo i morti il caso torno attuale”, commenta Mirko Franceschinis, portavoce del Comitato pendolari, l’associazione nata dopo il disastro del 1992. E’ grazie a questo comitato che si riuscì a smilitarizzare la tratta, fino a quel momento gestita dal Genio.

Problemi causati dalla burocrazia

La burocrazia non sembra esser stata tuttavia ancora sconfitta, e l’ultimo incidente ne è un evidente segno. Quel passaggio a livello, spiega Franceschinis, doveva esser soppresso da tempo. Lo stesso dicasi delle 32 barriere disseminate lungo i 30 chilometri che separano le stazioni di Ivrea e Chiavasso: avrebbero dovuto esser un lontano ricordo, eppure sono ancora là, a minacciare i convogli, i pedoni e le auto in transito. In moltissimi punti, infatti, quelle barriere restano sollevate nonostante il passaggio di un treno. Certo, se i fondi da destinare alla sicurezza vengono sistematicamente utilizzati per fare altro la dei disastri ferroviari sarà inevitabilmente destinata ad allungarsi anno dopo anno. Lo scorso anno sono stati avviati i tavoli tecnici tra Regione Piemonte, Anas Comuni interessati e RFI. Le parti avrebbero dovuto discutere sull’eliminazione dei passaggi a livello… ma la burocrazia è riuscita a frantumare qualsiasi barlume di speranza. “Ogni volta c’era un problema – sottolinea Carlo Della Pepa, primo cittadino di Ivrea -. Puntualmente cambiava funzionario o interlocutore in RFI e la giostra ricominciava”.

Nel 2017 ben 101 incidenti ferroviari e 93 morti

Ma il problema riscontrato ora dai residenti della zona sembra esser lo stesso denunciato da tantissimi comuni italiani. Secondo l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie, soltanto nel 2017, sui quasi 17mila chilometri di rete gestiti quasi integralmente da RFI, si sono registrati 101 incidenti con 93 morti. Nonostante i numeri importanti la Ansf rivendica si tratti di percentuali estremamente basse. Negli ultimi 10 anni, infatti è morta 1 persona ogni 5 milioni e 438 mila chilometri percorsi da un convoglio. I disastri legati a guasti e cause tecniche si sono invece dimezzati. Ma quei 93 morti in un anno sono un peso enorme. Se i fondi fossero stati utilizzati per l’adeguamento delle infrastrutture, anziché per l’acquisto di nuovi treni, molte di quelle persone probabilmente sarebbero ancora vive.

C’è il video dell’ultimo disastro

Nel frattempo, in merito al recente disastro del Regionale 10027, la polizia ferroviaria ha acquisito per conto della procura di Ivrea i video catturati da diverse telecamere di sorveglianza installate nella zona. Stando a quanto fatto sapere dagli inquirenti nei filmati si intravedono le luci del trasporto eccezionale avvicinarsi al passaggio a livello della ferrovia e poco dopo lo schianto, con un grande bagliore, alcune scintille e i vagoni che ruzzolano nel cortile dell’abitazione come se fosse un treno giocattolo. Poco dopo tre persone escono dall’abitazione “armati” di una torcia che puntano sui finestrini delle carrozze.

Sensazionale scoperta a Pompei

Sensazionale scoperta a Pompei: dal cantiere dei nuovi scavi emerge la prima vittima

Dalle prime osservazioni, risulta che l’individuo sopravvissuto alle prime fasi dell’eruzione vulcanica, si sia avventurato in cerca di salvezza lungo il vicolo ormai invaso dalla spessa coltre di lapilli

di TiscaliNews

Il torace schiacciato da un grosso blocco di pietra, il corpo sbalzato all’indietro dal potente flusso piroclastico, nel tentativo disperato di fuga dalla furia eruttiva. E’ in questa drammatica posizione, che emerge la prima vittima del cantiere dei nuovi scavi della Regio V a Pompei. Lo scheletro è stato ritrovato all’incrocio tra il Vicolo delle Nozze d’Argento e il Vicolo dei Balconi, di recente scoperta, che protende verso via di Nola.

Dalle prime osservazioni, risulta che l’individuo sopravvissuto alle prime fasi dell’eruzione vulcanica, si sia avventurato in cerca di salvezza lungo il vicolo ormai invaso dalla spessa coltre di lapilli. Il corpo è stato infatti rinvenuto all’altezza del primo piano dell’edificio adiacente, ovvero al di sopra dello strato di lapilli. Qui è stato investito dalla fitta e densa nube piroclastica che lo ha sbalzato all’indietro.

Un imponente blocco in pietra (forse uno stipite), trascinato con violenza dalla nube, lo ha colpito nella porzione superiore, schiacciando la parte alta del torace e il capo che, ancora non individuati, giacciono a quota più bassa rispetto agli arti inferiori, probabilmente sotto il blocco litico.Le prime analisi eseguite dall’antropologa, durante lo scavo, identificano un uomo adulto di età superiore ai 30 anni. La presenza di lesioni a livello delle tibie segnalano un’infezione ossea, che potrebbe essere stata la causa di significative difficoltà nella deambulazione, tali da impedire all’ uomo di fuggire già ai primi drammatici segnali che precedettero l’eruzione stessa.

Per Massimo Osanna, direttore generale del Parco Archeologico di Pompei, “questo ritrovamento eccezionale rimanda al caso analogo di uno scheletro rinvenuto da Amedeo Maiuri nella casa del Fabbro e oggetto di recente studio. Si tratta dei resti di un individuo claudicante, anche lui probabilmente impedito nella fuga dalle difficoltà motorie e lasciato all’epoca in esposizione in situ. Al di là dell’impatto emotivo di queste scoperte, la possibilità di comparare questi rinvenimenti, confrontare le patologie e gli stili di vita, le dinamiche di fuga dall’eruzione, ma soprattutto di indagarli con strumenti e professionalità sempre più specifiche e presenti sul campo, contribuiscono ad un racconto sempre più preciso della storia e della civiltà dell’epoca, che è alla base della ricerca archeologica”.I nuovi scavi della Regio V, dove è avvenuta quest’ultima scoperta, fanno parte del cantiere di messa in sicurezza dei fronti di scavo interni alla città antica, previsto dal Grande Progetto Pompei.

Le indagini archeologiche in corso stanno interessando l’area del cosiddetto “Cuneo”, posta tra la casa delle Nozze d’Argento e la casa di Marco Lucrezio Frontone.”Il mio mandato è iniziato con crolli a Pompei 7 giorni dopo il giuramento da ministro – ha scritto su Twitter il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini – e si conclude sempre a Pompei con ritrovamenti straordinari dopo 4 anni di restauri, di scavi in zone mai esplorate e con 1 milione di visitatori in più”.

Il teorico dell’uscita dall’euro della Lega aveva 400mila euro in titoli esteri

Il teorico dell’uscita dall’euro della Lega aveva 400mila euro in titoli esteri

Botta e risposta su twitter tra il finanziere Davide Serra e il leghista Claudio Borghi

Il leghista Claudio Borghi
Il leghista Claudio Borghi
di PSO

“Quindi non si fa partire un governo legittimo perché se non ci sarebbe lo spread…Tutto molto logico. Chissà quando si comincerà a ragionare sul problemino che il debito dei paesi dell’eurozona è privo di garanzia di banca centrale’?”, twitta il deputato della Lega Claudio Borghi. In un altro tweet, il responsabile economico della Lega aggiunge: “Com’era quella che l’euro ci proteggeva delle turbolenza dei mercati? Adesso vi state svegliando o qualcuno ancora dorme? Com’erano i conti dei soldi ‘bruciati’ senza nemmeno essere al governo? Adesso sono brucati di Cottarelli o capiamo che il sistema non funziona”.

Secondo il sovranista, per evitare simili spiacevolezze, per gli italiani sarebbe meglio tornare alla lira. Tuttavia, c’è chi lo bacchetta e lo accusa di parlare con ‘lingua biforcuta’ (Tex Willer docet). C’è infatti chi lo rimprovera di avere parcheggiato in un banca estera quattrocentomila euro circa in titoli di stato e obbligazioni estere. Il responsabile economico della Lega (sostenitore dell’Italexit) li aveva sino a qualche mese fa quando era consigliere regionale in Toscana. Ora, ha ribattuto  Borghi, quei soldi non ci sono più: utilizzati per “l’acquisto di una casa”. Tutto provato: la sua dichiarazione dei redditi circola sui social. A divulgare il documento è stato il finanziere Davide Serra, molto vicino a Matteo Renzi: “Scusi onorevole sono certo non sia vero che lei ha tutti i suoi risparmi all’estero e che lei finanzia stati esteri come da sua dichiarazione qui allegata. Visto vuole uscire Euro può darci evidenza ha tutti i suoi Risparmi in Debito Italiano e conti in Italia?”.

Da tweet a tweet: “Scusi caro Serra, ma con quale logica uno che ha sempre denunciato l’assoluta pericolosità per i risparmi per l’Italia in un’eurozona che con le regole attuali non ha garanzie per i risparmiatori (e lei che speculava al ribasso su MPS lo sa) dovrebbe metterci i propri risparmi?”, ha risposto Borghi. Però il fatto che detenesse tanti soldi in obbligazioni estere ha fatto storcere il naso a molti, visto che da sempre è un “teorico” dell’uscita dall’euro per l’Italia: “Facile dire usciamo dall’euro tanto i suoi risparmi sono al sicuro altrove”. Secondo Borghi, però, i suoi risparmi sono “in un normale dossier titoli di banca in Italia”. O meglio, erano, precisa Borghi in un altro tweet: “Le anticipo che ho venduto etf e obbligazioni per comprare una casa”.

L’affondo di Serra: “Osservo che se tutti facessero come lei non ci sarebbero soldi in nessuna Banca Italiana per Mutui, Prestiti a Aziende, Debito Pubblico che finanzia Pensioni e lo Stato fallirebbe. Solo per essere coerenti con sua Logica. Lo spieghi bene anche ai suoi elettori”. La difesa di Borghi: “Caro Serra, è proprio quello che sta succedendo”, risponde, “quando si aboliranno leggi suicide come il Bail in e quando il nostro debito pubblico sarà garantito incondizionatamente da una banca centrale allora torneremo un paese normale e ripartirà l’economia”.

Senza dubbio però qualcosa ‘olet’ (politicamente parlando). Borghi in una intervista rilasciata al Foglio aveva detto: “Se è la mia opinione personale, che cercate, resto convinto – conferma – che l’uscita dall’euro sarebbe la soluzione ideale, e del resto era contenuta nel programma della Lega. Poi, però, la politica è fatta di mediazioni: e quando ci siamo seduti al tavolo con i nostri alleati del centrodestra, ci siamo accorti che Forza Italia non era affatto d’accordo. Ed è per questo che nei dieci punti della coalizione non compare”. Di sicuro il leghista queste cose le pensa, ma non le fa.

Scoperta la proteina che rivoluzionerà la vita di chi soffre di pressione alta

Scoperta la proteina che rivoluzionerà la vita di chi soffre di pressione alta

Si chiama galectina-1 e consentirà di sconfiggere l’ipertensione

Scoperta la proteina che rivoluzionerà la vita di chi soffre di pressione alta
TiscaliNews

L’ipertensione ha le ore contate. Un team di ricercatori della National University of Singaporeha infatti scoperto una proteina in grado di tenere sotto controllo la pressione del sangue. Si chiama galectina-1 e, stando a quanto pubblicato dagli scienziati sulle pagine della rivista scientifica Circulation, influenza la funzione di un’altra proteina di tipo-L del canale di calcio, che normalmente agisce per contrarre i vasi sanguigni. Riducendo l’attività di questi canali, la galectina-1 porta così all’abbassamento della pressione del sangue.

Attuali farmaci causano problemi

I pazienti con ipertensione di stadio 1 hanno la raccomandazione di cambiare lo stile di vita per ridurre il rischio di soffrire di altre malattie cardiovascolari. Quelli con ipertensione di stadio 2 o superiore, invece, devono assumere farmaci antipertensivi per controllare la pressione sanguigna. I farmaci che bloccano i canali di calcio sono tradizionalmente usati per abbassarla, ma il loro uso è associato a un rischio maggiore di insufficienza cardiaca nei pazienti ipertesi, in particolare per quelli con problemi cardiaci.

Un killer silenzioso

Pertanto, lo sviluppo di farmaci che potrebbero regolare l’attività del canale del calcio di tipo L può aprire, secondo gli studiosi, una nuova frontiera per le terapie anti-ipertensive. Stando ad alcuni dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno l’ipertensione causa 7,5 milioni di morti nel mondo (circa il 12% del totale di tutti i decessi). In Italia l’ipertensione arteriosa è un problema che colpisce 16 milioni di persone. Di queste il 33 per cento sono uomini, il 31 per cento donne. Ad esser a rischio complicanze sono tuttavia il 19 per cento degli uomini e il 14 per cento delle donne. La scoperta potrebbe aprire le porte allo sviluppo di nuovi farmaci in grado di ridurre questi numeri. I ricercatori dovranno fare ulteriori test, ma già ora si dicono certi di aver imboccato la strada giusta.

Pd o partitini, quale futuro per noi italiani in minoranza?

Pd o partitini, quale futuro per noi italiani in minoranza? Tre considerazioni su cui ragionare

Pd o partitini, quale futuro per noi italiani in minoranza? Tre considerazioni su cui ragionare

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Giornalista
Poiché sondaggi concordi prospettano una larga maggioranza a M5sLega, con quest’ultima che sottometterebbe quel che resta del berlusconismo e del post-fascismo, non sarà forse il caso che noi italiani di minoranza cominciassimo a domandarci se davvero è inevitabile affidare le nostre sorti alla sommatoria tra un partito malmesso come il Pd e i partitini di sinistra, decorosi ma minuscoli?

Allo stato tra noi minoritari circolano due ipotesi, opposte ma in fondo concordi nell’accettare come inevitabile la condizione di perdenti. La prima soluzione suggerisce che Matteo Renzi e gli oppositori di Renzi depongano le armi, uniscano le forze e vadano alla guerra protetti dall’artiglieria della stampa amica. Nella migliore delle ipotesi Renzi e la sua consorteria accetterebbero un qualche compromesso, perfino lasciare il passo ad un leader più credibile e capace come Paolo Gentiloni o Carlo Calenda. Suona ragionevole, ma è assai improbabile che un patto di non belligeranza nel Pd e nella sinistra basterebbe da solo a spegnere il vento nelle vele di Lega e M5s.

Con Renzi e i renziani al suo fianco, nelle prossime elezioni al massimo il capo dell’assemblaggio progressista potrebbe gestireuna dignitosa sconfitta, certo non scrollare dalle spalle del maggior azionista, il Pd, il peso di un’immagine che lo vuole partito dell’establishment, quando non di opache congreghe dedite soprattutto alle convenienze proprie e del parentado. Lo stigma fa torto a tanti quadri onesti e competenti: ma questo è irrilevante. Quel che importa è la percezione largamente diffusa nell’elettorato, di una coincidenza tra il Pd ed una classe dirigente considerata mediocre e intrallazzona.

Per smentirla occorre ben altro che strillare contro i barbari ad portas o affidarsi al giornalismo collaterale. Quest’ultimo, anzi, tende a produrre effetti-boomerang. Lo zelo col quale persegue la character assassination degli avversari, in primis di Beppe Grillo, è perfino controproducente, non solo perché spesso si affida a pretesti inconsistenti, ma soprattutto perché stride con la considerazione tributata fino a ieri a figure modeste come i Renzi e gli Alfano, o con l’ossequio tuttora riservato ai poteri incrociati con l’editoria. Non meno dannose sono le affettuose e soffocanti premure con le quali quella stampa amica fornisce al Pd bussole e argomenti per orientarsi e scegliere amici e nemici, inevitabilmente in accordo con le propensioni proprietarie. Valga in proposito il consiglio che Ezio Mauro impartì a Renzi due anni fa, al tempo in cui Repubblica e l’allora premier-segretario erano totalmente allineati: imita Blair e Manuel Valls, “che innovano la politica rispettando storia, valori, tradizione”. Senza dubbio Renzi è stato blairiano e vallsiano come ci si attendeva da lui: e mentre Valls conduceva il Ps francese all’irrilevanza, con passo altrettanto sicuro l’italiano ha portato il Pd sulla medesima china. Morale: una sinistra padronale, patrocinata e ispirata dal giornalismo di scuola Fiat, non ha un grande futuro.

L’altra ipotesi che circola tra noi minoritari emana da quella sinistra pura e dura che nel marasma del Pd intravede la possibilità di ‘tornare nel popolo’, con lo slancio solidale e morale che si attribuisce al Pci di Enrico Berlinguer. Così riformulata, la sinistra sarebbe in grado di contrastare Lega e M5s? In teoria potrebbe attrarre quella larga parte di elettorato pentastellato, secondo stime il 45%, che proviene alla lontana dall’area comunista e ne conserva alcune vocazioni, dallo schema a ruoli fissi che contrappone il popolo, sempre virtuoso, contro l’élite, mai innocente, fino ad un pacifismo molto compreso nell’esibizione della propria virtù. Ma anche se molti elettori 5 stelle hanno vissuto con disagio l’alleanza con la Lega, pare difficile convincerli a tornare indietro. E dove, poi? Certo non nel Pd, zavorrato com’è da Renzi e dai renziani. E neppure nei partitini della sinistra, per quell’impressione di datato e di irrilevante che ne pregiudica le sorti. Più probabile che, se nutrono dubbi, questi elettori rinuncino a votare.

E allora? Compiangersi, aspettare in finestra che l’estenuante transizione cominciata nel 1989 finalmente si rapprenda in una geografia politica nuova, in alternative meno fumose di quelle oggi offerte da culture politiche tipicamente transitorie come i populismi? Chi di noi minoritari rifiutasse l’attendismo dovrebbe partire da tre considerazioni. La prima: Lega e M5s vincono perché sono percepite come forze rivoluzionarie, anti-sistema. Che poi lo siamo concretamente è secondario rispetto alle inclinazioni di un elettorato oggi assai bendisposto verso chi promette di rovesciare il tavolo. Di conseguenza anche il più sobrio riformismo avrebbe scarse possibilità di successo se non fosse in grado di trasmettere un qualche slancio rivoluzionario, un’attitudine immaginifica, un radicalismo magari assennato ma trascinante, radicalmente diverso nei contenuti dall’estremismo degli avversari.

Seconda considerazione: tutti i grandi partiti italiani in parte si somigliano. Mancano di un sistema di idee coerente, anche questo tipico dei populismo, piluccano a destra e a sinistra secondo convenienza, e subiscono l’egemonia delle stesse mitologie (per esempio lo ‘scontro tra civiltà’ e culturalismi consimili, di solito puntati contro musulmani e migranti). Dunque una forza alternativa a Lega e M5s dovrebbe presentarsi con un pensiero originale, magari esterno alla simmetria vigente destra-sinistra. Per formulare un pensiero anticonformista che contenga le premesse del cambiamento non occorre fare grandi sforzi, basta cercare ispirazione nel pensiero liberal degli ultimi lustri, vivacissimo (per esempio la critica al ‘capitalismo reale’ espressa da Ronald Dworkin, Robert Reich o Bruno Trentin). Ma occorre stabilire lo spazio per una discussione libera, cioè non condizionata da interessi legati a consorterie o reti economiche.

Infine: oggi centro-sinistra e sinistra sommati non arrivano neppure ad un quarto dell’elettorato, e la tendenza punta verso il declino. I rinforzi e il sangue fresco necessari per contrastare Lega e M5s potrebbero arrivare dai milioni che nelle ultime elezioni non hanno votato. Questi italiani da tempo ritengono di non avere più punti di riferimento in Parlamento e nel dibattito pubblico, da cui di fatto sono spariti. Sono, siamo, la tribù scomparsa. Che pure potrebbe riapparire se solo trovasse un’offerta politica un po’ più appassionante di quanto si trovi oggi in Parlamento e sui giornali.