Troppi furbetti nelle case popolari di Roma.

Troppi furbetti nelle case popolari di Roma. La sindaca Raggi: “C’è chi possiede una Porsche”

I legittimi assegnatari di quasi 1.600 alloggi risultano deceduti da tempo

Troppi furbetti nelle case popolari di Roma. La sindaca Raggi: “C’è chi possiede una Porsche”
Redazione Tiscali

“Una famiglia, che abbiamo sgomberato da una casa popolare, aveva addirittura una Porsche parcheggiata sotto casa. Per non parlare poi di più di 1.600 alloggi i cui legittimi assegnatari risultano deceduti”. Così la sindaca di Roma Virginia Raggi su Facebook. “Abbiamo scoperto il caso di una giovane donna che, seppur non indigente, aveva pensato di conservare indebitamente, dopo il decesso della nonna assegnataria, un appartamento di proprietà di Roma Capitale di 100 metri quadri in pieno centro storico a due passi da Piazza Navona – spiega -. Tutto ciò è inaccettabile e stiamo lavorando per far cessare immediatamente questi abusi che esistono purtroppo da troppi anni”.

Vive nella casa popolare ma è proprietario di 18 immobili

Dal censimento, condotto dallo stesso Comune, emergono anche veri e propri casi limite, come quello di un cittadino proprietario di ben 18 immobili. “L’Assessora al Patrimonio e alle Politiche abitative Rosalba Castiglione rivolge oggi una lettera aperta ai cittadini benestanti occupanti abusivi delle case popolari – evidenzia ancora la sindaca – con l’invito a fare un gesto di onestà: liberare spontaneamente l’alloggio, così che l’Amministrazione possa assegnarlo subito a chi ha diritto”.

Occupate da persone che hanno redditi alti

“Le case popolari devono andare ai cittadini che hanno reale bisogno” e non a “persone che hanno redditi alti, possiedono già immobili o sono residenti altrove – dice la sindaca Virginia Raggi -. Il costo a carico della collettività per questi abusi è altissimo. E il più alto è proprio quello che pagano le famiglie in attesa della casa popolare sin dal 2000, senza contare i costi legati al personale, alle azioni di sgombero e al tempo impiegato per rintracciare queste situazioni intollerabili”.

Gli assegnatari di quasi 1.600 alloggi sono ormai deceduti

Negli appartamenti di edilizia residenziale pubblica della Capitale, sono stati trovate anche altre persone con stipendi medio-alti. “Redditi di 70 mila, 80 mila, fino anche a 90 mila euro all’anno – spiega la sindaca -. Una famiglia, che abbiamo sgomberato da una casa popolare, aveva addirittura una Porsche parcheggiata sotto casa. Per non parlare poi di più di 1.600 alloggi i cui legittimi assegnatari risultano deceduti”.

Nelle graduatorie in attesa ancora 10 mila persone

“Gli alloggi popolari hanno uno scopo preciso e inderogabile: essere abitati dai nostri concittadini che un appartamento sul libero mercato, al momento, non se lo possono permettere”. E in graduatoria per quelle case si stima ci siano ancora 10 mila persone.

Caro Di Battista, spiegami perché accetti soldi da Berlusconi e fai affari con lui

Caro Di Battista, spiegami perché accetti soldi da Berlusconi e fai affari con lui

Il leader numero due dice che non si candiderà in parlamento e poi pubblica un libro con la Mondadori dell’ex Cavaliere. Senza un minimo di coerenza

[La polemica] Caro Di Battista, spiegami perché accetti soldi da Berlusconi e fai affari con lui

Di Battista, detto Dibba, ha annunciato che lascerà la politica. E questa – secondo me – è una buona notizia per la politica. Dice che non gli interessa più di tanto, ha un figlio appena nato da allevare, girerà il mondo e scriverà libri. E darà una mano agli amici grillini con comizi e interventi vari.

In realtà non si tratta di una crisi esistenziale, ma di qualcosa ci molto più semplice. La Casaleggio gli ha preferito nel ruolo di aspirante premier il collega Di Maio, e quindi a lui restava la parte di  numero due, c osa che evidentemente non ha gradito. Lui si sente un rivoluzionario, un capopopolo, un Che Guevara. E quindi, salta un giro da parlamentare perché offeso.

Ma questa, come si diceva, è una buona notizia: meno Dibba vanno in parlamento meglio è per tutti. La cattiva è che, oltre a girare il mondo (per fare non si sa bene cosa), scriverà anche dei libri. Il primo, quello delle “spremute di umanità” che lui cercava in America latina, era francamente orrendo, una sequenza di stupidaggini da primato.

Forse ne ha fatto anche un secondo, ma è bastato il primo.

La cosa curiosa è che il suo editore di riferimento è il gruppo Mondadori, posseduto dall’arci-nemico Silvio Berlusconi. E fin qui niente di male. Dentro la Mondadori c’è di tutto e moltissimi stampano i loro libri con questo gruppo. La cosa si fa interessante quando si capisce che i libri di Dibba non hanno alcun valore letterario o storico, sono delle autentiche castronerie.

E allora perché li pubblicano e gli danno pure dei soldi? Esclusivamente perché Dibba è Dibba, uno che ha acquisito una certa notorietà andando in televisione a propagandare le sciocchezze del suo movimento. Un affare. Lui si convince di essere uno scrittore, Berlusconi lo vende (così come venderebbe le memorie di un calciatore di pallone) e fa i soldi. Una parte, come è giusto, viene poi girata a Dibba.

La cosa curiosa è che il grillino Dibba così difficile in fatto di denaro, poi accetta tranquillamente gli assegni del suo maggior nemico, cioè Berlusconi.

Per il capo di Forza Italia questi sono affari e solo affari, probabilmente ride anche lui delle cretinate che scrive Dibba. Ma per Dibba che cosa sono?

Un modo per vivere. Soldi. Un libraccio in cambio di assegni circolari, un bel cambio. E non importa se a pagare è Berlusconi.

Genovese “Faccia della criminalità che vive nei salotti buoni”

Genovese, nelle carte del sequestro la dynasty sotto inchiesta: “Faccia della criminalità che vive nei salotti buoni”

Genovese, nelle carte del sequestro la dynasty sotto inchiesta: “Faccia della criminalità che vive nei salotti buoni”

GIUSTIZIA & IMPUNITÀ
Sono parole pesantissime quelle usate dal giudice per le indagini preliminari nel decreto di sequestro emesso nei confronti della potente famiglia di Messina. “Resta oggettivo – scrive il gip – che rubare allo Stato circa 20 milioni di euro è, con ogni distinguo che si voglia fare, molto più grave del prendere di notte, sulla pubblica via, un’autoradio o un motorino, pur condotte che in flagranza portano quasi automaticamente al carcere e rendono soggetti miserabili e non da frequentare”

“La faccia della criminalità che vive nei piani alti e nei salotti buoni delle città, con abiti eleganti e quei grandi mezzi dalla capacità attrattiva immensa, non certo emarginata come i ladri di strada, con la differenza però fornita dal dato economico che disvela le vere capacità criminali“. E poi: “Una sorta di autostrada dell’impunità e della sottrazione di denaro e beni ad ogni controllo e tassazione, sia per le organizzazioni criminale che per le evasioni fiscali eccellenti“. Ma anche il “riconoscimento, sia pur lento, della abissale differenza, per entità di guadagni e gravità di effetti economici, tra una criminalità di strada (pur grave e pericolosa), spesso con proventi irrisori e sprogorzionati ai rischi, e criminalità economica“.

Sono le parole messe nero su bianco dal giudice per le indagini preliminari di Messina, Salvatore Mastroeni.  Giudizi pesantissimi su quella che è una delle famiglie più note e potenti della città ma anche dell’intera Sicilia: quella dei Genovese. È un sequestro multimilionario – si parla addirittura di beni pari a cento milioni di euro – quello che ha colpito Francantonio Genovese, primo segretario del Pd in Sicilia, ora deputato di Forza Italia. Era già stato condannato in primo grado per associazione per delinquere, truffa, riciclaggio, frode fiscale, peculato perché con enti controllati da lui e dai suoi familiari ha truffato la Regione siciliana. Per questo motivo è accusato di aver sottratto al fisco 20 milioni di euro. “Resta oggettivo – scrive dunque il gip – che rubare allo Stato circa 20 milioni di euro è, con ogni distinguo che si voglia fare, molto più grave del prendere di notte, sulla pubblica via, un’autoradio o un motorino, pur condotte che in flagranza portano quasi automaticamente al carcere e rendono soggetti miserabilie non da frequentare, delinquenti”.

Un’inchiesta su una dinastia lunga 3 generazioni – Il decreto di sequestro, chiesto dal procuratore di Messina Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Sebastiano Ardita, infatti, ricostruisce la storia non ufficiale della dinasty dei Genovese: quella criminale, seppur dal punto di vista degli inquirenti e in fase d’indagine preliminare. “È la singolare storia di questo procedimento, che vede operare una dinastia, con tre generazioni implicate, di cui il primo indagabile (teorico) è Luigi Genovese senior, in realtà deceduto ed il fatto sarebbe prescritto, e con un ramo collaterale ancora più nobile, avendo riguardo a soggetto più volte deputato alla Camera e Ministro”, annota il giudice nel provvedimento. Che parte dal padre di Francantonio – Luigi senior, senatore della Dc dal 1972 al 1994 – e che arriva al figlio del politico passato dal Pd a Forza Italia. Per la prima volta nel registro degli indagati, infatti, è finito anche il giovane Luigi Genovese, 21 anni, studente di Giurisprudenza appena eletto all’Assemblea regionale sicilianacon più di 17mila voti nelle file di Forza Italia. È l’ultimo rampollo della famiglia, che ha appena ricevuto il seggio a Palazzo dei Normani in eredità dallo zio Franco Rinaldi,  per volere del padre Francantonio.

Luigi, l’ultimo rampollo – Ma non solo. Perché per gli inquirenti Genovese junior ha ricevuto in dote anche altro:  denaro, parecchio denaro che il padre con “recentissime operazioni illecite, spericolate se non grottesche” vuole “salvare dall’aggressione“. “E così dal nulla si staglia la figura di Genovese Luigi junior, che diventa consapevolmente, firmando atti e partecipando alle manovre del padre, ricchissimo – si legge nelle carte dell’inchiesta – La circostanza della ricchezza improvvisa del genovese Luigi, il suo notorio ingresso in politica, il modo spregiudicato di acquisizione della ricchezza, danno la probabilità, sia pur per la visione cautelare di protezione dei beni e dei soldi dovuti allo Stato, che si verifichi la stessa attività del padre”. E dunque l’ipotesi del giudice è che il giovanissimo Genovese sia l’ultimo tassello di un puzzle che nel decreto di sequestro è descritto così:  “Il quadro è univoco circa 20 milioni di euro sottratti allo Stato e oggetto di riciclaggi ed evasioni sistematiche, conti offshore, ruoli parlamentari, mezzi ed introiti enormi, e peraltro, ciò, effettuato con indifferenza già agli obblighi di un cittadino e nei confronti di uno Stato, e correlativamente di cittadini lesi dall’evasione fiscale”.

L’indagine nata a Milano – L’inchiesta sul tesoro dei Genovese non comincia a Messina, ma molto più a nord: a Milano: “Il dato di base, che scopre un reato e che, per continuare ad evadere le tasse, ne innesca una serie impressionante e continua, è un atto di indagine che parte da Milano, dalla Guardia di Finanza di quella città che indagava su una filiale di una banca svizzera e da cui emergeranno i conti svizzeri di ricchi italiani”. Alcuni mesi fa alle autorità elvetiche era stato chiesto di svelare i nomi dei circa diecimila clienti italiani che avevano polizze assicurative considerate sospette. Tra quei nomi era dunque spuntato anche quello di Francantonio Genovese, quel conto in Svizzera viene definito dal giudice come la “madre” di tutti gli illeciti. “Quel conto svizzero che non costituirà, per la famiglia Genovese, solo untesoro immenso ma anche, come spesso succede col denaro, la scelta di campo di delinquere, senza poi più fermarsi, per proteggere sempre di più una ricchezza smisurata ma illegale”.

L’assicurazione alla Credit Suisse: “Soldi non sono noccioline” – “Appare evidente – si legge sempre nel provvedimento – che attraverso la sottoscrizione a proprio nome della polizza emessa formalmente da Credit Suisse (Bermuda) Ltd, con sede nelle isole Bermuda versando un premio di € 16.337.341,00. l’avvocato Genovese Francantonio abbia di fatto riciclato i proventi derivanti da reati fiscali perpetrati dal padre”. Quei soldi, infatti, sarebbero stati depositate in Svizzera dal padre di Francantonio. “Sul punto, su quella somma enorme esportata all’estero, evadendo il fisco (neanche una teorica emergenza di produzione o donativi dall’estero su estero per detto soggetto), vanno fatte una serie di considerazione. Risibile è la dichiarazione che fa Genovese Francantonio, che la esportazione avviene quando ha un anno e non ne sa molto. Innanzitutto i soldi, a differenza delle noccioline, sono cosi tanti e di cosi tanto valore, che non si potrebbe pensare mai, almeno da una certa età, che vi sia stata una detenzione inconsapevole, e se tutto inizia con Genovese Luigi senior, il reato prosegue e tanti ne derivare e fanno capo al figlio, con moglie e figlio e parenti”.

“Il padre non guadagnava tanto” – Durante l’inchiesta che lo ha visto imputato, Genovese senior si è trovato più volte a dovere spiegare da dove arrivassero le sue fortune economiche: spesso senza convincere i giudici. Nel verbale di interrogatorio del data 14 aprile 2015, Genovese ha dichiarato, e ammesso, che: “Le somme investite le ho ricevute da un conto corrente di mio padre (si tratta di somme che sia mio padre e forse anche mia madre detenevano all’estero), la cui accensione risale agli anni ’70. Già su punto la puntuale indagine della procura, con consulenza tecnica, ha accertato che il padre dell’avvocato Genovese Francantonio, Luigi, non risultava avere redditi tali da spiegare il “tesoro” all’estero. A fronte di una capacità reddituale media per anno (convertita in euro) di 117.034,00, avrebbe accumulato la somma di € 16 milioni in modo esterno ad ogni legale acquisizione, fondando il giudizio che tali somme siano state oggetto e frutto di evasione fiscale”. Un particolare lega Luigi Genovese senior a Francantonio: padre e figlio hanno sempre più denaro rispetto a quanto guadagnano. “Sulla base di quanto accertato dalla Guardia di Finanza di Milano, Genovese Francantonio ha sottoscritto, nel giugno del 2005, un prodotto finanziario (contratto assicurativo) con la società Credit Suisse Life. Il prodotto finanziario in questione è, palesemente, finalizzato ad occultare capitali all’estero e consente di sfuggire anche alla tassazione sugli interessi maturati sui depositi di capitali detenuti in Svizzera.  Si tratta di un investimento – non dichiarato al fisco italiano – non compatibile con il volume d’affari ed il reddito conseguito e dichiarato da Genovese Francantonio sino all’anno 2005. Cioè si procede nell’attività delittuosa del padre e con modalità analoghe”.

“Quei soldi ereditati da mio padre”. Ma era ancora vivo –Diventa addirittura surreale la giustificazione fornita da Genovese quando nel 2013 trasferisce nel “principato di Monaco a partire dall’anno 2013, fondi di importo consistente (per l’ammontare complessivo di 10 milioni di euro) su un conto esistente presso un intermediario monegasco, la banca Julius Bar, e intestato alla società panamense Palmarich Investments“. Secondo le indagini degli inquirenti in quel caso Genovese e la moglie Chiara Schirò avevano giustificato quegli accrediti, affermando che si trattava di fondi provenienti “da una eredità a seguito della morte del padre, Signor Luigi Genovese (testualmente dalle carte: “Portion of the inheritance received by Mr Genovese following the death of his father Mr Luigi Genovese”)”. Solo che il giudice fa notare come “all’epoca dei fatti “il padre di Francantonio Genovese “risultava essere ancora in vita“. “Questo dichiarare morto il padre vivo è uno dei tantissimi escamotage cui quel “tesoro” ha costretto il Genovese, e che giudicherà lui stesso, al condizionale eventuale, come fatto che sarebbe altamente spiacevole”.

Il ritorno in Italia: “Gli spalloni, trucco da Alì Babà” –Ricostruita nell’indagine è anche la fase in cui Genovese prova a recuperare quel denaro: secondo l’accusa lo fa tramite spalloni, cioè persone che trasportano personalmente il denaro alla frontiera. “Discorso plasticamente lesivo della dignità del ruolo ma spia della capacità di movimenti illeciti, è farsi portare miliardi in contanti dalla Svizzera da spalloni, riceverli in alberghi, di nascosto, scambiando parole convenzionali, una sorte di apriti sesamo che ricorda la favola di Ali Babà e i 40 ladroni”. Poi comincia una “impressionante attività di dismissioni, avvalendosi appunto di figli e nipoti. Qui Genovese Francantonio si va spogliando di tutto, talvolta con trucchi banali, talvolta con una serie di sotterfugi, anche geniali, in un contesto complessivo, che sorretto dalla evidenza del fine e del metodo, non dà alcun dubbio su gesti effettivi e reali di mera liberalità. Al riguardo, come detto, la liberalità non è prospettabile visto che ogni atto viene fatto apparire, magari faticosamente, ma oneroso per i beneficiari (curiosamente a Genovese Luigi passa un patrimonio enorme, con operazioni finanziarie, prestiti e sostanziali “pagherò)”. È l’ultimo atto della dynasty. Per adesso.

Lievito di birra e acqua ossigenata, ecco gli ingredienti del super eco-cemento

Lievito di birra e acqua ossigenata, ecco gli ingredienti del super eco-cemento

Il nuovo materiale, brevettato dall’Enea, risulta avere un’alta resistenza al fuoco e ottime capacità di isolamento acustico e termico

Lievito di birra e acqua ossigenata, ecco gli ingredienti del super eco-cemento

Redazione Tiscali

Il futuro dell’edilizia è nei materiali eco compatibili. E’ partendo da questa idea che l’Enea ha sviluppato, e recentemente brevettato, un rivoluzionario biocemento con elevate proprietà di isolamento termico ed acustico, oltre che una importante capacità di resistenza al fuoco. Il nuovo materiale, costituito da una miscela di lievito di birra e acqua ossigenata, nasce grazie all’innovativo processo – il vero oggetto del brevettato – ottenuto dai ricercatori della divisione “Bioenergie” e del laboratorio “Biosicurezza” dell’Enea.

Consente di ridurre i costi di produzione

Il processo, chiamato BAAC, è nato nei laboratori dei Centri ricerche Enea di Trisaia, in Basilicata, specializzato nella chimica verde e le bioenergie, e di Casaccia, alle porte di Roma e consente di ridurre i costi di produzione e di ottenere un prodotto a maggiore sostenibilità rispetto ai tradizionali cementi “cellulari” aerati (in cui cioè vengono introdotte una o più sostanze per renderli più leggeri). Nel processo di produzione, infatti, la polvere di alluminio – agente aerante molto infiammabile – viene sostituita da lievito di birra miscelato con acqua ossigenata che consente di ottenere un prodotto tecnicamente molto leggero per la grande quantità di bolle d’aria al suo interno, lasciando però inalterate le caratteristiche meccaniche e fisiche del materiale cementizio.

Grande attenzione da parte dei produttori

I vantaggi economici e di sostenibilità ambientale derivano dall’abbattimento delle spese energetiche e dei costi indiretti connessi alla gestione dell’impianto ai fini della sicurezza e dalla riduzione del numero dei componenti “addizionali” come la calce e il gesso. “Questa innovazione di processo – spiega Piero De Fazio della ‘Divisione bioenergie, bioraffinerie e chimica verde’ presso il Centro Ricerche Enea della Trisaia – è ancora di nicchia, ma presenta grandi potenzialità; infatti, le nostre attività di sperimentazione hanno suscitato l’interesse dei soggetti coinvolti nella filiera produttiva del cemento cellulare”.

Egitto, attentato in una moschea, 305 morti e 109 feriti

Egitto, attentato in una moschea nel Sinai durante la preghiera del venerdì: “235 morti e 109 feriti”

Egitto, attentato in una moschea nel Sinai durante la preghiera del venerdì: “235 morti e 109 feriti”

L’attacco è avvenuto a circa 40 chilometri da al-Arish, capoluogo del governatorato. Il presidente Al-Sisi: “Vendicheremo i nostri martiri, le forze armate risponderanno con forza brutale”. Nella regione è attivo un gruppo jihadista alleato dell’Isis ma il luogo di culti colpito è frequentato da una tribù attiva nella lotta allo Stato islamico. Fonti locali: “Uccisi 15 terroristi”

Prima i terroristi hanno piazzato alcuni ordigni artigianaliintorno alla moschea, facendoli esplodere all’uscita dei fedeli dopo la preghiera del venerdì, giorno sacro per i musulmani. Poi hanno “aspettato i fedeli davanti alla porta” per colpire quelli in fuga, utilizzando lanciarazzi e armi automatiche. E dopo avere sparato contro di loro bruciando alcune auto fuori dal luogo di culto, sono fuggiti a bordo di quattro veicoli, dei fuoristrada 4×4, coi quali avevano circondato l’edificio. Sono 235 le vittime e almeno 109 i feriti dell’attentato avvenuto in una moschea a nord del Sinai, a circa 40 chilometri da al-Arish, capoluogo del governatorato. È uno degli attacchi terroristici più violenti nella storia recente del Paese. Nel Sinai settentrionale, ma soprattutto più a est, è attivo un gruppo jihadista alleato dell’Isis. Quindici terroristi sono stati uccisi in un raid condotto con due droni dalle forze armate egiziane nel nord della regione. Il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, ha convocato una riunione di emergenza con i responsabili della sicurezza e annunciato tre giorni di lutto nazionale. Al termine del confronto, il presidente ha tenuto una conferenza stampa: “La tristezza e il dolore che provano ora gli egiziani non sarà vano – ha detto al-Sisi – Gli egiziani trarranno da questo dolore la volontà di affrontare il terrorismo. Le forze armate risponderanno con forza brutale“. In risposta all’attacco terroristico, le autorità egiziane hanno lanciato un’offensiva contro i terroristi chiamata “Operazione di vendetta per i martiri”. Alcuni raid aerei sono stati effettuati contro covi di militanti vicino al villaggio di al-Rawdah, nel Sinai del Nord. Secondo la televisione ufficiale del Paese, Al-Sisi ha predisposto un’indennizzo di 200.000 lire egiziane (circa 10.000 euro) ai famigliari delle vittime decedute e 50.000 lire egiziane alle famiglie dei feriti.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto inviare un messaggio di cordoglio al presidente egiziano al-Sisi: “Ho appreso con profondo dolore la notizia del vile attentato che ha colpito poche ore fa la moschea di Bir Al-Abed con un drammatico bilancio di morti e feriti. Nella comune lotta contro il terrorismo e l’estremismo religioso – nemici esiziali della libera espressione del culto – l’Egitto potrà contare sempre sul determinato sostegno dell’Italia”. Papa Francesco ha mostrato solidarietà al popolo egiziano in un telegramma: “Sono profondamente addolorato in quest’ora di lutto nazionale. Raccomando le vittime alla misericordia dell’Altissimo Dio e invoco divine benedizioni di consolazione e pace sulle loro famiglie. Mi unisco a tutte le persone di buona volontà nell’implorare che i cuori induriti dall’odio imparino a rinunciare alla strada della violenza che porta a così grande sofferenza, per abbracciare la via della pace”. A condannare l’attacco anche Ahmed el-Tayyeb, grande Imam di Al-Azhar, il più influente centro teologico dell’islam sunnita del Paese: “È importante respingere i terroristi con tutta la forza possibile”. Le condoglianze alle vittime sono arrivate anche dal segretario generale della Lega Araba, Ahmed Aboul-Gheit, e dal Ministro degli esteri Angelino Alfano: “Solidarietà e vicinanza dell’Italia al popolo dell’Egitto per il vile attacco terroristico. La paura non prevarrà”. “Condanniamo questo barbaro atto terroristico contro civili innocenti. L’Unione Europea è al fianco dell’Egitto nella lotta contro il terrorismo”, ha twittato l’ambasciatore Ue in Egitto Ivan Surkos. Vicinanza all’Egitto è arrivata anche da Tel Aviv. Ron Huldai, sindaco della città, ha pubblicato su Twitter la foto del comune illuminato con i colori della bandiera egiziana.

 – Explosion rips through a mosque in northern  in , killing
over 150 & 135 wounded.

Orrore per la strage terroristica nella moschea del  I nostri pensieri vanno alle vittime, la nostra solidarietà alle famiglie colpite e all’Egitto

A horrific attack in . We send our condolences to our friends across the border and light the Municipality building in their honor.

All’interno della moschea, ha riferito il consigliere comunale di Bir El Abd Salama El Rokei, c’erano “almeno 200 persone”. La moschea colpita “è frequentata dalla tribù Sawarka, la maggiore del nord del Sinai e, in generale, conosciuta per la propria collaborazione con l’esercito e le forze dell’ordine” nella lotta contro l’Isis: lo riferiscono fonti locali all’Ansa. Secondo i media locali, la moschea attaccata “appartiene ai sufi”, un orientamento mistico dell’Islam “che i gruppi terroristici considerano apostata“. La zona del Sinai settentrionale è considerata una vera e propria “roccaforte del sufismo”. Il luogo di culto si trova in una zona desertica “a 60 chilometri da Al Arish“, il capoluogo del Sinai settentrionale, e “a 30 da Bir El Abd“, precisano le fonti del posto sottolineando che la posizione sta allungando i tempi dell’arrivo di ambulanze e forze di sicurezza. Secondo fonti locali, sono almeno 30 le ambulanze arrivate sul posto per trasportare i feriti all’ospedale, dove una grande folla di civili è in coda per donare il sangue. L’edificio si trova lunga la cosiddetta “autostrada internazionale” ed è frequentata anche da automobilisti di passaggio.

Fake news e social usati come armi: l’insostenibile leggerezza dei populisti

Fake news e social usati come armi: l’insostenibile leggerezza dei populisti

Fake news e social usati come armi: l’insostenibile leggerezza dei populisti

Basta con i partiti! Riprendiamoci il Paese! Mettiamoci al lavoro e cerchiamo di risolvere noi i problemi, senza professionisti politici, senza mestieranti di chiacchiere”.

Chi ha pronunciato questa frase? Trump? Grillo? Berlusconi? No, anche se potrebbe essere un passaggio di molti loro discorsi.

Queste parole sono del 1945, di Guglielmo Giannini, fondatore del Fronte dell’Uomo Qualunque, che potremmo eleggere precursore onorario dell’Internazionale Populista. Frasi attuali oggi più che mai, che rimbombano nelle piazze riempite dai leader populisti, sempre sorridenti e sicuri di sé, novelli pifferai che attraggono le masse con un’affascinante melodia composta da promesse irrealizzabili e slogan liberatori. Sopra una “ruspa” come non sentirsi invincibili davanti all’”invasione degli immigrati”, portati in Italia con “i taxi del Mediterraneo” per “rubarci il lavoro”?

Notizie scioccanti quanto false ogni giorno inquinano il dibattito e alimentano la paura. E la paura funziona sempre in politica, una politica troppo spesso distante dai problemi delle persone, degli ultimi. Non a caso il populismo attecchisce proprio dove la forbice delle disuguaglianze è più larga, dove l’ascensore sociale è fermo. Tra un commento sgrammaticato, un insulto e una minaccia, anche l’escluso della società trova nei social l’unico strumento di partecipazione democratica. Perché lì può dire la sua, su tutto. Può sfogarsi, senza freni inibitori. E ad esacerbare gli animi, paradossalmente, è proprio l’algoritmo di Facebook. Studiato per crearti un habitat confortevole, ti suggerisce argomenti e persone simili a te. Polarizzando le idee. Radicalizzando pensieri e sentimenti, come la paura appunto. Riducendo così al minino il confronto, sale della democrazia.

Non a caso i social network si sono rivelati “l’arma più potente” dei populisti. Come per l’elezione di Donald Trump, l’affermazione del M5S, o la Brexit. A volte, con scenari inquietanti, come l’attività dei Russi sui social. D’altronde è stato Trump stesso a riconoscere che Facebook e Twitter lo hanno aiutato a vincere: “È come avere il New York Times senza sobbarcarsene i costi” ama dire.

E così, tutto diventa semplice e immediato. Se vince le elezioni, “domani mattina” il populista risolve qualsiasi problema. E succede che vinca, in effetti.

Trump diceva che all’indomani della sua elezione avrebbe fermato l’immigrazione costruendo un muro per evitare i flussi migratori dal Messico. E lo avrebbe pure fatto pagare ai messicani. Oggi, a distanza di un anno dalla sua elezione, non c’è un mattone di quel muro e nemmeno se ne parla più (per fortuna, aggiungiamo noi). Puigdemont prometteva l’indipendenza della Catalogna. Ha vinto il referendum indipendentista e, subito dopo, è fuggito in Belgio per non farsi arrestare, confermando così il paradigma del perfetto populista: cavalcare il sentimento delle masse, promettere l’irrealizzabile, scappare lontano incurante delle conseguenze. Come con la Brexit: Farage ha cavalcato le paure degli inglesi, ha vinto il referendum e si è dimesso dieci giorni dopo. Saranno altri ad occuparsi delle conseguenze disastrose, mentre lui rimane eurodeputato antieuropeista stipendiato da tutti noi.

Berlusconi nel 1994 scelse di “scendere in campo” perché stanco dei “politici falliti”. Lui era l’imprenditore di successo. E via con le promesse. Una fra tutte, il milione di posti di lavoro. Nella realtà, un milione di posti di lavoro perduti durante i suoi governi. E il Paese sull’orlo del default. Però a differenza degli altri, dopo il fallimento, lui non se n’è andato. Anzi, oggi risorge come l’araba fenice nella nuova veste di leader dei moderati. Ergendosi, proprio lui, a baluardo contro il populismo. Salvo siglare il cosiddetto “patto dell’arancino” col campione del populismo nostrano Matteo Salvini, ad oggi il più spregiudicato utilizzatore dell’odio in rete. La gente ha paura degli immigrati? E allora, sulla sua pagina, una raffica quotidiana di video e notizie tendenziose che hanno il solo scopo di accrescere il sentimento di intolleranza, direttamente proporzionale al suo consenso. Più odio, più voti. Odio verso i migranti in questo caso.

Verso politici e giornalisti, nel caso di Beppe Grillo, anche lui luminare del populismo italico che dal resort di Briatore (quello sì a 5 stelle) detta la sua ricetta pauperistica per aiutare chi ha meno: il teorico della “decrescita felice” con la povertà degli altri. Con lo stesso livore verso la classe politica (di cui ha fatto parte) il Generale Pappalardo, entrato a gamba tesa nel panorama variegato del populismo nostrano. Ex politico trombato, con in tasca vitalizio e ricca pensione, tra un pranzo alla buvette del Senato e un comizio improvvisato, il Generalissimo ha come unico scopo l’arresto coatto dei politici, perseguitati per strada al grido “cialtroni, abusivi”. Arresti degni del più brillante film dei Vanzina, con tanto di colpo di scena finale: “Grazie e arrivederci!”.

“La situazione politica italiana è grave ma non seria” diceva Flaiano.

E se fosse addirittura comica?

“L’Italia è un Paese morto. Non ci sono punizioni per chi sbaglia. E non ci sono premi per chi merita”

Piero Angela: “L’Italia è come il gigante Gulliver, imbrigliata da mille lacci. E gli italiani sono stanchi di un paese fermo”

“L’Italia è un Paese morto. Non ci sono punizioni per chi sbaglia. E non ci sono premi per chi merita”

 19/02/2017 

ROBERTO SERRA – IGUANA PRESS VIA GETTY IMAGES
BOLOGNA, ITALY – OCTOBER 15: Journalist Piero Angela during conference with professor Carlo Pedretti – utmost italian expert about Leonardo da Vinci – for ‘Celebration of the History’ week at Sala Borsa on October 15, 2009 in Bologna, Italy. (Photo by Roberto Serra – Iguana Press/Getty Images)

Era appena nato e l’ostetrica che lo prese in braccio previde: “Sarà un ingegnere”. Negli ottantotto anni che sono passati da allora, invece, Piero Angela ha aperto nel salotto di casa degli italiani una finestra che si affaccia sull’universo della scienza, conducendo gli spettatori di un paese abituato a navigare dentro le colonne d’Ercole della cultura umanistica in territori attraversati da voragini spazio-temporali e galassie a forma di spirale, dinosauri e particelle elementari, un po’ maestro Manzi, un po’ romanzo d’avventura di Emilio Salgari. Fino a dieci anni fa, lo si ascoltava con lo stupore che suscita il custode di una competenza riconosciuta e intoccabile.

Poi, si è diffusa la superstizione che basti una ricerca su Google per contestare verità accertate con scrupolo: “Una volta, nei bar di provincia, certi personaggi che avevano teorie bizzarre sul cosmo venivano subito zittiti. Oggi su internet si confrontano a tu per tu con i Premi Nobel. Quando mi processarono per non aver dato spazio al punto di vista dei medici omeopati in una trasmissione in cui mettevo in discussione l’efficacia della medicina alternativa, mi difesi dicendo che la velocità della luce non si determina per alzata di mano, che non si possono mettere sullo stesso piano verità certificate e verità supposte, che in questo campo non vale la regola della par condicio: non è come per la politica, la scienza non è democratica”.

Da piccolo sognava di fare ciò che ha fatto?

“Quando ero bambino, la televisione non esisteva ancora. Non avevo idea di cosa sarei potuto diventare. Ricordo, però, che i miei genitori mi avevano regalato un’enciclopedia scientifica. Consultavo continuamente la sezione dei perché. Sentivo una gran voglia di conoscere la ragione delle cose”.

Che insegnanti ha avuto?

A scuola, mi sono annoiato molto. C’è stato solo un prete, in quarta e quinta elementare, che mi ha veramente affascinato. Si chiamava Don Ughetti. Arrivava in classe con i suoi alambicchi e conduceva esperimenti che ci facevano rimanere a bocca aperta. È l’unico che mi è rimasto.

L’adolescenza?

Vivevo a Torino. Fuori c’era la seconda guerra mondiale. Ogni giorno verso mezzanotte suonava la sirena che dava l’allarme antiaereo. Quando la sentivamo, ci precipitavamo nei rifugi che avevamo scavato sotto casa. Tremavamo dal terrore. Però c’era una strana atmosfera familiare: le signore recitavano il rosario, noi avevamo plaid e termos. Fino a quando i bombardamenti non diventarono troppo intensi, rimanemmo lì. Poi, nel novembre del ’42, ci trasferimmo a San Maurizio Canavese, dove mio padre dirigeva una clinica psichiatrica.

Andò meglio?

Mio padre ricoverava come pazzi ebrei e ricercati politici. Riuscì a metterne in salvo molti. Un giorno, di ritorno dal liceo, vidi davanti alla clinica i cadaveri di tre uomini. Li avevano appena fucilati i fascisti. Il quarto, che era mio padre, si salvò solo perché un gerarca che era da lui in cura riuscì a convincere il capo della squadra di polizia a risparmiarlo.

Come scopre il giornalismo?

Dopo due anni di ingegneria – contrariamente a quello che aveva profetizzato l’ostetrica che mi fece nascere – mi misi a studiare il pianoforte: prima la musica classica, poi il jazz: lo amavo moltissimo. Componevo colonne sonore per documentari quando un amico mi chiese di collaborare a un programma sulla storia del jazz in Rai. Cominciai così.

Che Rai era?

A Torino, lavoravano Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo. Io, però, ero alla radio. Mi chiesero di provare a prendere un microfono in mano. Non credevo facesse per me. Però ci provai ed andò bene. Per otto anni collaborai come esterno. Poi mi offrirono di fare una sostituzione nell’ufficio di Parigi. Ci rimasi nove anni.

Cosa ricorda?

La Francia litigiosa in cui fu chiamato a mettere ordine il generale De Gaulle. I governi continuavano a cadere. Il sistema politico era frantumato. Il generale, nonostante l’ostilità di quella parte del Paese che temeva una torsione autoritaria, impose una riforma istituzionale che razionalizzò il sistema e diede stabilità alla Francia.

Sembra la descrizione dell’Italia di oggi… anche noi avremmo bisogno di un uomo forte?

Servirebbe un uomo di prestigio, capace di trovare il consenso per fare le cose che non sono mai state fatte. L’uomo forte da noi evoca una brutta esperienza. Sarebbe meglio un sistema che assicuri un governo stabile.

L’Italia ha l’energia per risollevarsi?

L’Italia è come il gigante Gulliver, imbrigliata da mille lacci che ne immobilizzano la forza. Nel dopoguerra, ogni giorno vedevi un miglioramento: si tiravano di nuovo su le case, costruivamo le strade, organizzavamo un salone internazionale, nascevano cose nuove. La vita proseguiva. Oggi, invece, ogni giorno scompare qualcosa. Ci impoveriamo. E gli italiani sono assuefatti al degrado. Non vedono via d’uscita. Sono arrabbiati. Nutrono rancore. Sono stanchi di un paese fermo.

Cosa può fare la politica?

In tutta la storia dell’umanità, la politica non ha mai creato ricchezza. La rivoluzione industriale è un prodotto della tecnologia. E il miracolo economico italiano degli anni sessanta non è merito della Democrazia cristiana. Sono l’innovazione, la ricerca, la competenza, il talento, la creatività, l’istruzione, che creano il valore aggiunto. L’Italia non lo fa da quindici anni. Il nostro sistema è congegnato per bloccare le energie produttive.

Abbiamo delle responsabilità anche noi italiani?

Quando ero bambino, non mi hanno mai detto che ero titolare di diritti. Avevo molti doveri. Se li rispettavo, venivo premiato. Altrimenti, venivo punito. In Italia oggi – nella famiglia, nella scuola, nella società – tutti vogliono tutto. Nessuno è più educato a pensare che per avere qualcosa prima deve essere disposto a offrire qualcos’altro in cambio.

E allora il problema è più serio.

Il problema dell’Italia è un problema morale, che non si può risolvere in cinque minuti. Ogni giorno leggiamo di casi di corruzione. Non sono solo politici, palazzinari, delinquenti: sono anche avvocati, giudici, uomini della guardia di finanza, dipendenti pubblici che truffano lo stato per cui lavorano. Non ci sono punizioni per chi sbaglia. E non ci sono premi per chi merita. Un paese così non può funzionare. È un paese morto.

Anche lei è stato accusato di aver raccomandato suo figlio Alberto.

Alberto si è laureato con 110 e lode. Ha studiato ad Harvard, alla Columbia, a Berkley, in Francia. Ha fatto ricerca sul campo. Ha condotto un programma sulla televisione svizzera. Quando mi chiesero di prenderlo, mi opposi: sapevo che avrebbero parlato di favoritismo. Ma insistettero, e mi convinsi che non potevo fare una discriminazione al contrario. Alberto è veramente bravo. Lo dimostra il successo dei programmi che conduce e dei libri che scrive. E, comunque, né io né lui siamo assunti dalla Rai. Abbiamo dei contratti stagionali. E siamo giudicati in base ai risultati che otteniamo. Dovrebbe essere così anche altrove.

L’orologio rotto della Leopolda

L’orologio rotto della Leopolda

Viaggio tra i militanti dove la ferita del 4 dicembre brucia ancora. Calcetto, manovre su Consob e Millennials: cronaca di una giornata nella pancia del renzismo

LAURA LEZZA VIA GETTY IMAGES

Ecco Luca Lotti: “Oh ragazzi, ma lo sapete che alle tre si gioca a calcio con la nazionale parlamentare femminile?”. Accanto c’è Matteo Richetti, sorridente e divertito: “Non dirlo che, se vengono, oscuriamo mediaticamente la Leopolda”. Alle tre, allo Stadio Bozzi, non troppo lontano dalla Leopolda, Lotti e Richetti, scarpette e calzoncini, sono a tirare calci al pallone, con la squadra femminile, rigorosamente renziana: Bonaccorsi, Malpezzi, un undici titolare di fedelissime.

È il renzismo, bellezza: stile da novelli Peter Pan mai cresciuti, giovanilismo spinto e ostentato, eterni adolescenti compiaciuti dell’essere tali. Ieri un minuto di silenzio sulla strage nella moschea egiziana, in tono solenne. Oggi il battutismo e poca gravitas, politica ed emotiva. Poco prima Richetti, grande protagonista della scorsa edizione, sale sul palco, sempre facendo il giovane di professione: “Che formicaio di gente, che casino questa Leopolda… È la Leopolda otto. Altre due puntate e diventiamo una serie tv, come Gomorra o The Young Pope”. Pausa, nell’attesa di un applauso che però non scatta, nella sala sonnecchiosa e distratta dei “tavoli tematici”.

Sul palco però va in scena un’altra serie, ovvero la possibile nuova puntata del conflitto con le banche, perché c’è Marco Fortis, l’economista “ottimista”, già collaboratore di Tremonti, molto inserito nel mondo che conta tra finanza e industria sin da quando iniziò a collaborare con Carlo Sama, il famoso “Carlo il bello”, ex manager del gruppo Montedison e cognato di Raul Gardini. Poi nei cda di Edison, Eridania Beghin Say e Antibioticos, fino alla collaborazione con Renzi a palazzo Chigi. Quello di Marco Fortis, curriculum di tutto rispetto nel settore, ma certo non “super partes”, al momento è uno dei nomi “graditi”, forse il più gradito, per la sostituzione di Giuseppe Vegas alla Consob.

È una casella cruciale, la presidenza dell’autorità che multò Boschi senior su Etruria, nell’ambito dell’offensiva su Bankitalia scatenata nella commissione d’inchiesta sulle banche, dove Consob è stata già chiamata per dichiarare sulle informazioni ricevute da via Nazionale nei casi delle banche insolventi. Fortis, seduto accanto a Richetti, parla di economia, della “ripresa” del paese in questi anni, pari a quella francese e inglese: “C’è una differenza tra la realtà e la realtà percepita. La realtà è di una crescita forte, soprattutto nei settori del manifatturiero e del turismo”. E chissà se è colpa dei giornali, altro grande classico da queste parti, se non tutti la pensano così.

Leopolda in tono minore, più affollata di gente e solitaria (politicamente) al tempo stesso, grondante di retorica dei millennials per coprire l’assenza di tutte le figurine di successo di questi anni, ma anche “politiche”, da Chiamparino a Bonaccini. Millennials sul palco, sopra una platea di mezza età, anzi un po’ agée: “Ma la strategia – si chiede un amministratore – quale è? Bene i mille giorni, bene tutto, ma con quali proposte andiamo?”. È una Leopolda in tono minore, ansiosa di raccontarsi che non è finita. Dice Francesco Crò, che si occupa di comunicazione per il Pd: “Mi chiedi che gente c’è? Beh, questi sono i suoi, i suoi di Renzi voglio dire, sono avvelenati di partecipazione, lo vogliono sostenere. Insomma, vogliono dire e dimostrare che non è finita col 4 dicembre”.

Già. Al tavolo che l’anno scorso, e quello prima, e quello prima ancora era presieduto da Maria Elena Boschi – il famoso tavolo sulle “riforme” – quest’anno c’è Roberto Giachetti. È uno sfogatoio in libertà: “Serve una riforma fiscale”, “serve una riforma degli ordini professionali”, serve pure una lezione ai giudici: “Perché quando un magistrato come Woodcock sbaglia non viene espulso e condannato? Dobbiamo raccogliere le firme per la separazione delle carriere”. Alla fine Giachetti sbotta: “Voi state dicendo cose sacrosante, tutte giuste, ma ce la vogliamo dire la verità? E la verità è che la sconfitta del 4 dicembre ha prodotto danni in tutti i settori. E poiché non siamo D’Alema, non siamo dei venditori di fumo, non possiamo dire che in sei mesi si sistema tutto. Ci vuole tempo. E la responsabilità è di chi ha ingannato i cittadini dicendo che la riforma rappresentava la deriva autoritaria”. Scatta l’applauso, forte.

Perché c’è poco da fare. Tutte le chiacchiere sulle alleanze, sulle aperture, sulle consultazioni di Fassino, franano nell’animus delle persone. La ferita del 4 dicembre brucia ancora, ed è come se l’orologio politico fosse ancora fermo lì. La signora seduta accanto a Giachetti: “Siamo rimasti a bocca asciutta, lì stiamo”. E con una grande paura per quel che accadrà: “Ma guarda – dice Stefano Ceccanti – che non è vero che siamo condannati ad arrivare terzi. Al Senato noi siamo secondi perché non votano quelli tra i 18 e i 25 anni (i millennials, ndr), che in maggioranza stanno con Grillo, mentre alla Camera con una coalizione ce la giochiamo col centrodestra”. È comunque una bella falcidiata per il gruppo parlamentare uscente. Quello sì, presente in massa, come mai: prime, seconde, terze file di stretta osservanza renziana. Un gruppo di lavoro è coordinato da Gianfranco Librandi, ex Scelta civica, frequentatore assiduo delle trasmissioni Paolo Del Debbio, non proprio uno di sinistra. Manuela Repetti, invece, ex Forza Italia, moglie di Sandro Bondi, è rimasta solo il primo giorno. Passa Claudio Velardi, vecchio volpone che ne ha viste tante: “L8, Lotto… Qua tutti dicono ‘lotta lotta’. Bah. Ma che è ‘sta lotta?”.

L’unto dal Sistema

L’unto dal Sistema

Il paradosso del Cav: da reprobo a argine ai 5 stelle. Ora l’establishment lo guarda con indulgenza

 Alessandro De AngelisVicedirettore, L’Huffpost

ALESSANDRO BIANCHI / REUTERS

È accaduto: cinque lustri dopo la discesa in campo del ’94, Silvio Berlusconi è diventato, in questo finale di legislatura vissuto come un viaggio verso l’ignoto, un “populista buono”, incarnatore di una stabilità presunta, l’argine affidabile. Dice Paolo Mieli: “Il clima è cambiato. L’ultima volta che si eleggeva il capo dello Stato, Berlusconi stava andando ai servizi sociali senza manette e ora che i nuovi barbari sono i Cinque Stelle torna come salvatore della patria. Da qualunque parte lo guardi è un alleato di un possibile governo. Così viene vissuto”.

C’entrano certo il carattere e i vizi degli italiani, avvezzi alla comodità di un oblio repentino più che alla fatica della memoria, grande costante della storia d’Italia: “È un classico – prosegue Mieli – di questo paese. La demonizzazione successiva comporta sempre la riabilitazione parziale o totale del demonizzato dell’ora precedente. Ricorda Cossiga? Il partito che ne chiese l’impeachment per gladio e i i servizi deviati alla fine degli anni Novanta lo portò in trionfo alla festa dell’Unità neanche fosse un Lenin redivivo”.

C’entra però molto, forse soprattutto, la politica di oggi: “Il suo ritorno – sostiene lo storico Giovanni Orsina – è il sintomo di un cambio d’epoca, ovvero della crisi di un sistema politico che non riesce a produrre nulla di nuovo e a stabilizzarsi, e che consuma soluzioni, come il renzismo disintegrato in tre anni”. Si spiega così perché un pezzo dell’establishment racconta un Berlusconi “potabile”, “moderato”, con i giornali del mondo dell’impresa che rimuovono il ricordo del default economico del 2011 (ricordate il “fate presto” del Sole) e gli oppositori politici che rimuovono la gigantesca anomalia democratica che ha rappresentato (e rappresenta) con un mai irrisolto conflitto di interessi, e un imbarazzante bagaglio di scandali etici e processuali. Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl ai tempi del famoso assedio “politico-mediatico-giudiziario” non riesce a capacitarsi di cotanta benevolenza: “Parliamoci chiaro. Siamo in una situazione ultra-paradossale. Che cosa significa la frase di Scalfari “tra Berlusconi e Di Maio voterei Berlusconi”? Significa che essendo tutti terrorizzati sia dal Movimento a Cinque stelle sia da Salvini, oggi si perdona a Berlusconi anche quello che costituì la ragione della demonizzazione più totale, come il suo rapporto spregiudicato con le donne, peraltro in un momento in cui si discute solo di scandali sessuali, da Weinstein a Brizzi”.

È cambiato il clima, oltre ai rapporti di forza per cui l’ex premier non è più il dominus assoluto del paese, ma solo un attore rilevante del gioco politico. Paradigmatica, di questo nuovo clima, anche la vicenda dell’assegno di Veronica, la grande accusatrice “politica” del “ciarpame senza pudore” e del “mio marito è un uomo malato”, revocato dalla corte d’appello di Milano. Impensabile, solo qualche anno fa, quando la “malattia” dell’ex premier, cioè l’ossessiva dipendenza dal sesso faceva chiedere a mezza Italia se avesse la lucidità di governare il paese e spingeva il Palazzo a costruire soluzioni di emergenza. O anche l’udienza della Grande Chambre di Strasburgo, con i giudici che hanno preso molto sul serio il ricorso presentato dal Cavaliere sull’applicabilità della Severino, e con le fanfare berlusconiane che si sono spente in un clima di rigore, sobrietà e, perché no, di moderazione per nulla evocativo delle scomposte intemerate dei questi vent’anni. Prosegue Mieli: “È evidente che, in questo nuovo clima, lui asseconda, gioca, non è mica stupido. I suoi voti serviranno se si dovrà fare un governo di unità nazionale. Oggi il più grande ammiratore di Berlusconi, senza che lo dica, è Mario Draghi”.

E chissà se è un caso che che proprio del presidente della Bce l’ex premier è assurto al ruolo di grande difensore, prima quando in Parlamento arrivò la famosa mozione del Pd per impedire il rinnovo di Visco poi in commissione banche, di fronte alla volontà del Pd di coinvolgerlo: “Sarebbe da irresponsabili” disse. Senza più la forza di un tempo, azzoppato dall’incandidabilità, comunque Berlusconi gode, di un vantaggio posizionale: principale azionista di un governo di destra, possibile partner di un governo di larghe intese, interlocutore “affidabile” di un certo establishment europeo: “Col senno di oggi – spiega Orsina – Berlusconi in realtà è più establishment di altri. Così ti spieghi Scalfari e chi lo vede partner di un governo di larghe intese, perché comunque ha un rapporto col sistema prolungato, con la politica sin dai tempi di Craxi, partecipa di una certa cultura dell’Italia repubblicana, ha un programma, la rivoluzione liberale, che sono gli anni ottanta, non il vaffa”.

Il Sistema, insomma, riconosce Berlusconi, Cavaliere non più nero, né più Sua Emittenza o Papi, che in tv appare come un simpatico vecchietto finché non parla di Dell’Utri o dei giudici, parole che, come una amara madeleine, fanno riemergere il tempo perduto. E il Sistema con Berlusconi crea, già ora, le condizioni per tutelarsi e autoriprodursi, come accaduto con la forzatura sulla legge elettorale, perfetta per escludere dalla prospettiva del governo le “turbolenze”, per la stabilità immaginata, come i Cinque Stelle. In questa dinamica (e in questo clima), di larghe intese già in atto, l’attuale governo, a ben vedere, non è affatto ostile sui dossier che contano davvero per Berlusconi, anzi. Di rottura del duopolio, per dirne una, non se ne è neanche parlato a proposito di interessi televisivi, né di una riforma che costringesse una azienda cotta come Mediaset a investire per essere più competitiva. Su sulla difesa di Mediaset da Vivendi il governo poi si è mobilitato più che per l’agenzia del farmaco, in nome dell’interesse nazionale. E soprattutto, con la mossa della golden power su Telecom, si è posto in una posizione terza e di garanzia, ponendo le basi per sminare dal tema del conflitto di interessi del Cavaliere il prossimo governo. Sempre che questo schema e questo clima sopravviva a un ostacolo chiamato voto.

Natale in Puglia? La città di Bari diventa “panoramica”

Natale in Puglia? La città di Bari diventa “panoramica”

Non siamo a Vienna ma a Bari, colpo d’occhio inaspettato anche per chi la osserverà da terra: ogni ‘cabina gondola’ della ruota panoramica sarà illuminata con led, così come la parte centrale della ruota. Che resterà in largo Giannella fino a marzo 2018

Sognare e ammirare dall’alto la città di Bari su una ruota panoramica. È la gradita sorpresa che l’amministrazione comunale ha preparato per cittadini e turisti in vista del Natale. Grazie alla collaborazione con Confcommercio Bari Bat sarà installata una struttura alta 55 metri in largo Giannella sul lungomare Nazario Sauro.

La ruota panoramica sarà attiva dal 6 dicembre – per la festa di San Nicola – e permetterà ai cittadini e ai turisti di godere il panorama della città addobbata a festa da un punto di vista insolito, con una vista mare mozzafiato. Avrà un peso di 300 tonnellate e sarà dotata di 28 cabine, ciascuna con una capienza massima di sei passeggeri. Oltre 160 persone potranno così godere in contemporanea di una delle più grandi attrazioni di questo genere in Europa, aperta anche ai disabili. Un colpo d’occhio spettacolare anche per chi la ammirerà da terra: ogni ‘cabina gondola’ sarà illuminata con led, così come la parte centrale della ruota.

La ruota è adatta a tutte le età e sarà fruibile anche alle persone con disabilità grazie a un servizio di assistenza individuale. «Abbiamo accolto con entusiasmo l’iniziativa della Confcommercio – spiega l’assessora allo Sviluppo economico Carla Palone – così come stiamo facendo con tutte le altre iniziative proposte dalle altre associazioni di categoria e dai singoli commercianti. Ormai Bari è a tutti gli effetti una città attrattiva ed è normale che sia oggetto di interesse di tanti investitori, anche non baresi. Questo non può farci che piacere, soprattutto se riusciamo a valorizzare queste esperienze per offrire un momento di svago ai cittadini e una risorsa per i commercianti della città. Sono state attivate tutte le procedure utili per accogliere questa gigantesca ruota panoramica per le feste di Natale, quando la città sarà già animata da un ricco calendario di eventi che richiamerà nel centro cittadino tante persone, oltre che per dare la possibilità a tanti bambini di vivere un’esperienza magica. La grande installazione resterà a Bari fino a marzo, in modo da accompagnare l’intero periodo dei saldi. Un ultimo ringraziamento va al Comando della 3ª Regione aerea per la collaborazione per la disponibilità e la collaborazione nella gestione dello spazio».