Latina, hanno sostituito i migranti ai tossicodipendenti

Latina, hanno sostituito i migranti ai tossicodipendenti. E lo hanno fatto per soldi

Latina, hanno sostituito i migranti ai tossicodipendenti. E lo hanno fatto per soldi

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Criminologo e presidente di Saman
C‘è molto poco da aggiungere in merito all’ennesima indagine sui centri di accoglienza per migranti. Indagine culminata con arresti nella provincia di Latina, che conferma cose risapute. Una prima, investe la corsa all’oro che il non governo, in termini di regole e controlli, dell’accoglienza di queste masse di disperati ha prodotto. Sarebbe bastato esercitare la memoria: ritornare indietro nel tempo (primi anni 90), focalizzando come analogo il fenomeno del boom delle comunità terapeutiche: sostituire ai migranti i tossicodipendenti.

Anche in quel caso, collante l’emergenza, la corsa all’oro avvenne seguendo la logica della economia di scala: se ospito 30 persone io non ci guadagno ma se ne ospito 100 o 200 i guadagni saranno assicurati. Anche in quel caso, i luoghi di accoglienza erano approssimativi e improvvisati, sul presupposto che i tossicodipendenti non avrebbero avuto motivo alcuno di cui lagnarsi posto che anche solo un materasso in terra, rispetto alla strada da cui provenivano, era un lusso. Comune denominatore nell’uno e nell’altro caso era il fregarsene delle azioni rivolte agli uni o agli altri. Allora, fregarsene della presenza di personale qualificato puntando su ex ospiti volontari la gestione della struttura. Oggi, fregarsene di una progettualità tesa ad accompagnare realmente la persona ospitata e limitarsi a dare vitto e alloggio (spesso scadente) abbandonandolo a se stesso. In entrambi i casi forti del fatto che i soggetti ospitati partono da condizioni di oggettivo svantaggio e, quindi, di oggettiva scarsa credibilità nell’eventualità in cui volessero denunciare strutture nate per lucrare.

Infine la geografia dei luoghi, la cui scelta, in entrambe le risposte a fenomeni sociali, è stata lasciata al caso. C’era un casolare in una frazione abitata da 100 persone? Fossero drogati o migranti, quelle persone avrebbero imparato a conviverci. Eppure era scritto nelle modalità con cui le prefetture costruivano le gare, i cui posti letto messi a bando rappresentavano numeri importanti: i numeri, quando si tratta di relazioni umane, aiutano solo parzialmente nella comprensione di un fenomeno tanto è vero che, solitamente, prima si pensa alle azioni da mettere in piedi e poi, sulla base delle azioni, si stabilisce un rapporto in termini di efficacia tra idea e numero di persone a cui si può applicare.

Tale ragionamento di comune esperienza – che vale in qualsiasi contesto relazionale e che si applica in qualsiasi dimensione umana, sia quello formativa sia quello legata a un processo di integrazione, di apprendimento di inserimento in un determinato tessuto sociale – dovrebbe fungere da logica premessa a qualsiasi intervento con finalità di cura e sociali. Ma, a distanza di 30 anni e forti di quella esperienza comunitaria, si è pensato bene di ragionare all’incontrario: stipiamo in un posto 100 persone e poi vediamo cosa possiamo porre in essere al fine di promuovere integrazione.

Si è visto: la percezione, vissuto che nella società dello spettacolo plasma la realtà, ha dettato la linea. Ogni ragionamento o il ricorso alla statistica, nulla possono rispetto al vissuto di chi elabora, partendo da un dato veritiero, un fatto o un fenomeno. Se la paura nei confronti dei drogati era dettata dalla sovrapposizione tra il drogarsi e il delinquere, ai tempi, si aveva un bel dire che tale automatismo era solo una forzatura del pensiero. Il dato di partenza era la lettura del giornale locale che parlava del tossicomane “x”, arrestato nell’intento di rubare una radio. Il dato di arrivo fu (allora) pensare che tutti i tossicomani erano ladri.

Ragionando, in perfetta similitudine, è agevole individuare le origini delle paure attuali nei confronti di un nero e l’inquietudine che accompagna l’annuncio che 100 migranti saranno ospitati nel borgo “y”, in provincia di “z”. Era agevole ipotizzare che, a maggiore ragione, strutture che ne ospitavano in numeri importanti non sarebbero riuscite a costruire percorsi che solo numeri piccoli avrebbero reso possibile. Era tutto ovvio, banale, già visto e vissuto. Ma non per lo Stato, evidentemente, incapace di porre regole e paletti al fine di prevenire ciò che, a partire da Salvatore Buzzi e Mafia Capitale, si scopre con regolare cadenza: bande di sfruttatori che operano nel sociale.

Cinque anni fa alcuni prefetti mi contattarono: chiedevano luoghi in cui ospitare i migranti. Era solo l’inizio. Forte della esperienza di Saman, risposi (e così risposero i rappresentati regionali) che piccoli numeri li avremmo accolti. Li avremmo gestiti all’interno di percorsi che garantivano una conoscenza reciproca e il venire meno, sul territorio, di paure e percezioni alterate anche dal fatto che le nostre strutture raramente sono in realtà urbane e più spesso in realtà sotto i 5 mila abitanti. Rispondemmo elaborando un pensiero rispettoso sia dell’ospite, sia del futuro vicino. Ci fu risposto che ne avremmo dovuti prendere in quantità enormemente superiore. Declinammo, diventando una delle organizzazioni (poche in realtà) accusate di non volere accogliere fratelli più sfortunati.

Molte comunità terapeutiche aprirono settori, trasformandosi: tante di queste hanno operato secondo criteri qualitativi alti anche perché avevano alle spalle storie di intervento sociale decennali. Avevano anche l’organizzazione e la logistica adatta a mettere in evidenza un modo di lavorare professionale. Il resto fu raccattato ed equamente diviso tra gruppi no profit in forte difficoltà economica che vedevano in questa insperata opportunità una forma di soluzione ai problemi pecuniari e la cosiddetta società civile composta anche di lestofanti e opportunisti.

Ma a monte ci fu la decisione legata alle economie di scala. All’origine, il non volere prevedere che se poni limiti alla accoglienza in un determinato luogo, se ipotizzi piani economici in cui – quando ben gestita – la struttura chiude in pareggio e non ci guadagna, molti improvvisati gestori non ci sarebbero stati. La corsa all’oronon sarebbe esistita. E soprattutto, la percezione negativa legata all’invasione di masse di stranieri non sarebbe stata alimentata dal perpetuo ciondolare di gruppi e singoli a cui la struttura di accoglienza avrebbe dovuto pensare. Posto che occuparsi di 20 persone – in maniera strutturata e (per loro) proficua – appartiene a una dimensione ipotizzabile e realistica, occuparsi di 100 o più, appartiene a dimensioni in cui il lucro domina il resto.

Link tax nella riforma Ue

Link tax nella riforma Ue, ogni scorciatoia sul diritto d’autore mette a rischio la nostra democrazia

Link tax nella riforma Ue, ogni scorciatoia sul diritto d’autore mette a rischio la nostra democrazia

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Docente, avvocato e giornalista
Le parole del Ministro Di Maio, che all’Internetday si è detto, senza mezzi termini, contrario ad alcune delle previsioni contenute nella proposta di direttiva dell’Unione europea in materia di diritto d’autore nel mercato unico digitale, un risultato lo hanno sortito certamente: hanno, finalmente reso di massa un dibattito sin qui rimasto, almeno nel nostro Paese, nel chiuso dei circoli elitari degli addetti ai lavori.

Le reazioni, infatti, non si sono fatte attendere né da parte dell’industria dei contenuti, né da parte della Commissione europea, né da parte del presidente dell’Unione europea Antonio Tajaniche – per la verità, rompendo il dovere di imparzialità – ha duramente contestato Di Maio, auspicando che la sua non sia la posizione del governo italiano.

Ma proprio perché, per fortuna, il dibattito è diventato pubblico nel senso più alto e nobile del termine val la pena di spiegare di cosa si sta discutendo in maniera accessibile a tutti perché si tratta – è bene dirlo subito – di un tema che riguarda il futuro, la libertà di parola, la cultura e la nostra democrazia.

L’Unione europea ha ritenuto che la vigente disciplina sul diritto d’autore, complice lo straordinario progresso tecnologico degli ultimi anni, meritasse di essere aggiornata per renderla idonea a meglio governare la pubblicazione e la condivisione di contenuti digitali online. Lo ha fatto con una proposta di direttiva che lo scorso 20 giugno è stata approvata dalla Commissione giuridica del Parlamento europeo e che il prossimo 4 luglio sarà votata in aula. Si è trattato di una scelta meritoria, incontestata e incontestabile.

Al centro del dibattito divenuto incandescente nelle ultime ore vi sono, in particolare, due delle disposizioni contenute nella proposta di Direttiva:

1. la prima stabilisce che la pubblicazione di un cosiddetto snippet – un link con una manciata di caratteri di anteprima – di un articolo di un giornale online rappresenta una forma di utilizzo dei diritti d’autore con la conseguenza che necessita di un’autorizzazione e del pagamento di un compenso all’editore.

2. la seconda stabilisce che i cosiddetti intermediari della comunicazione ovvero i soggetti che consentono la pubblicazione online di contenuti prodotti dai propri utenti hanno bisogno di una licenza per svolgere tale attività e devono, comunque, dotarsi di specifici filtri automatici capaci di identificare e bloccare la pubblicazione di ogni contenuto coperto da diritto d’autore in mancanza di un’adeguata licenza.

Valutare la bontà delle due disposizioni – va detto con grande onestà intellettuale – è difficile.

Entrambe le disposizioni si fondano su riflessioni, preoccupazioni e esigenze reali, importanti e di grande rilievo economico e culturale. E’ giusto che ci si interroghi sul futuro dei quotidiani in un sistema nel quale, sempre più di frequente, poche grandi piattaforme online si candidano a divenire il veicolo attraverso il quale miliardi di persone in tutto il mondo leggono il giornale e, probabilmente, è anche giusto riflettere sull’equità di un sistema che consente ai gestori i tali piattaforme di produrre ricchezzaproprio grazie allo straordinario valore che, per fortuna, l’informazione prodotta dagli editori di giornali continua ad avere.

L’internet del tutto gratis per tutti non è un mondo ideale e non rappresenta, prima ancora che un modello di business sostenibile un modello di società sostenibile.

E, egualmente, è sacrosanto che l’industria dei contenuti, tutta – musica, cinema, fotografia e editoria – esiga dagli Stati unadeguato livello di tutela rispetto a chi cannibalizza i propri contenuti culturali è creativi.

Occorre, però, dirsi con altrettanta franchezza che le disposizioni in questione non rappresentano una soluzione né moderna, né democraticamente sostenibile a questi problemi e, soprattutto, peccano sia in termini di concreta attuabilità che di equità. Una manciata di battute per chiarire le basi di un giudizio indubbiamente severo.

Cominciamo dalla cosiddetta link tax, che – va detto chiaramente – non sarebbe una tassa anche se, innegabilmente, a una tassa rassomiglierebbe. I link, le anteprime, gli snippet, l’aggregazione di link sono parte integrante dell’infrastruttura del web e delle autostrade lungo le quali corre l’informazione online. Pensare che chicchessia debba chiedere permesso a chicchessia prima di usare, in questa forma, un estratto di un altrui contenuto è semplicemente insensato. E’ un esperimento già fallito nei Paesi dell’Unione europea che per primi lo hanno tentato: Spagna e Germania.

Ma, soprattutto, espone a un rischio ingiustificato – specie in presenza delle scarse chance di successo – il pluralismo dell’informazione online: se per non pagare il compenso, le grandi piattaforme smettessero di indicizzare e aggregarecontenuti – come già accaduto nell’esperienza spagnola – forse i grandi editori sopravvivrebbero ma i più piccoli diverrebbero di fatto inaccessibili e sarebbero condannati all’estinzione. Il sacrificio in termini di pluralismo dell’informazione sarebbe enorme. Ci ritroveremmo tutti a fare un passo indietro lungo più di un secolo quando fare informazione era appannaggio di pochi.

E veniamo alla seconda disposizione, giustamente, al centro del dibattito. La questione è ormai vecchia più o meno quanto il web e ruota attorno a un paio di domande: chi è responsabile per la pubblicazione di un contenuto in violazione dei diritti d’autore su una piattaforma come YouTube? E a chi tocca accertare se la pubblicazione di un contenuto viola effettivamente i diritti d’autore?

I promotori della proposta di direttiva rispondono YouTube a entrambe le domande. Ma sbagliano e rischiano di far imboccare all’intera Unione europea una strada sbagliata e che potrebbe condurre a trasformare la Rete da quella straordinaria agorà pubblica che oggi, ancora – tra mille difficoltà – potrebbe rappresentare in una grande televisione nella quale pochi decidono la dieta mediatica di miliardi di cittadini del mondo.

E’ chi sceglie di pubblicare un contenuto che deve rispondere dell’eventuale violazione dei diritti d’autore e sono esclusivamente giudici e autorità a dover decidere se la pubblicazione di un contenuto sia lecita o illecita. Ogni scorciatoia rispetto a questa strada maestra rappresenta una minaccia per la libertà di informazione e la democrazia.

Se si stabilisce che il proprietario della piattaforma risponde di quello che pubblicano gli utenti il risultato ovvio è che questi limiterà la libertà di parola degli utenti oltre ogni ragionevole limite in modo da abbattere – così come esigerebbero i suoi azionisti – il rischio di impresa.

E se si stabilisce che tocca sempre al proprietario della piattaforma scongiurare il rischio che vengano pubblicati contenuti pirati, gli si affiderebbe nella sostanza il compito di ergersi a giudice delle violazioni dei diritti d’autore sostituendosi a giudici e autorità.

Il risultato complessivo, nel breve periodo, sarebbe scontato: le piattaforme cosiddetto user generated content, in una manciata di mesi, diventerebbero appannaggio esclusivo di una manciata di grandi editori che le utilizzerebbero per far rimbalzare lontano i contenuti sino a ieri diffusi in Tv mentre i piccoli utenti di queste piattaforme, sarebbero invitati, a colpi di rimozioni giuste ed ingiuste dei propri contenuti, a chiedere asilo in qualche isola lontana dalle grandi rotte dell’informazione.

E’ davvero questo il web che vogliamo? Io mi rispondo di no. Ma, naturalmente, ciascuno, in cuor suo è giusto che risponda secondo coscienza. I problemi sul tavolo vanno affrontati e, probabilmente, si è già perso troppo tempo ma quella indicata da Bruxelles, questa volta, sembra davvero la strada sbagliata.

Vitalizi, alla Camera arriva la delibera Fico

Vitalizi, alla Camera arriva la delibera Fico per il taglio: nuove norme da novembre. Previsti risparmi per 40 milioni di euro

Vitalizi, alla Camera arriva la delibera Fico per il taglio: nuove norme da novembre. Previsti risparmi per 40 milioni di euro

Il provvedimento è stato incardinato in ufficio di presidenza a Montecitorio e il voto è previsto nella settimana tra il 9 e il 13 luglio. Gli emendamenti potranno essere presentati entro il 5 luglio. Il grillino Fraccaro: “L’era dei privilegi è finita”. Il democratico Rosato: “Testo molto fragile”. La forzista Carfagna: “Ok al ricalcolo ma no a rapine alle vedove”

Il taglio dei vitalizi alla Camera ha la sua delibera e, se sarà approvata, una data di entrata in vigore: novembre 2018. Il provvedimento che prevede un risparmio di circa 40 milioni è stato presentato all’ufficio di presidenza di Montecitorio dal presidente Roberto Fico. Il calendario fissato dalla presidenza prevede che il testo venga votato nella settimana tra il 9 ed il 13 luglio, mentre gli emendamenti potranno essere presentati entro il 5. La novità fondamentale è che gli assegni saranno ricalcolati tutti sulla base del metodo contributivo. “In questo modo eliminiamo un’ingiustizia”, ha dichiarato Fico. “Questo è un ulteriore passo per il superamento definitivo dei privilegi”. Nel frattempo, al Senato, la questione è bloccata: la presidente Maria Elisabetta Casellati sarà in missione all’estero per l’intera settimana e anche per una questione di numeri lì il percorso pare più accidentato. Proprio la differenza di tempistiche tra le due Camere ha sollevato perplessità e polemiche nelle opposizioni, tanto da lasciare intendere che potrebbe essere un motivo per affossare la riforma. In realtà, fanno trapelare da ambienti M5s, proprio le reticenze di Palazzo Madama hanno spinto il presidente Fico ad accelerare i tempi. Ora resta da vedere come si muoverà la Casellati.

Vitalizi, Fico: “Con delibera risparmio enorme”

Il risparmio previsto alla Camera è di circa 40 milioni di euro all’anno: il “vitalizio minimo” sarà di 980 euro al mese, e andrà a chi ha fatto una sola legislatura. Il minimo per chi subirà una decurtazione superiore al 50 per cento del vitalizio sarà di 1.470 euro. I vitalizi erogati ad ex deputati dalla Camera sono in tutto 1.405; di questi, 1.338 saranno ricalcolati e dunque abbassati, mentre gli altri 67 non verranno ritoccati: in base alla delibera, quelli percepiti da ex deputati che hanno sulle spalle almeno 4 legislature si fermeranno al valore del 31 ottobre prossimo, alla vigilia dell’applicazione della delibera ove venga approvata. Nel lavoro che ha portato alla stesura della delibera, viene sottolineato, c’è stata una “collaborazione istituzionale con Inps e anche con Istat. A percepire il vitalizio sono oggi circa circa 2.600 ex parlamentari tra Camera e Senato, per una cifra che nel 2016 ha raggiunto i 193 milioni di euro. Superiore l’importo totale negli anni successivi: nel 2017 ha toccando quota 206,28 milioni di euro. Secondo la stima fatta dall’Inps, nel 2018 i vitalizi dovrebbero dovrebbe crescere ancora raggiungendo i 206,94 milioni.

Per i 5 stelle è una “giornata storica”. Il primo a commentare è stato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, uno degli autori della battaglia contro i vitalizi nella scorsa legislatura. “L’abolizione sarà presentata in ufficio di presidenza, dove sono stati introdotti”, ha detto su Radio Capital. “In una stanza chiusa, li aboliremo con lo stesso metodo con cui sono stati introdotti. Sarà un simbolo per far capire che l’era dei privilegi è finalmente finita”.

Al termine dell’ufficio di presidenza sono intervenute anche le opposizioni. Intanto la vicepresidente della Camera di Forza ItaliaMara Carfagna: “Sì al ricalcolo dei vecchi vitalizi per eliminare un privilegio”, ha scritto in un Tweet, “no alla rapina di Statocontro le vecchiette rimaste vedove. I totem si possono abbattere, ma con intelligenza, senza pretendere lo scalpo del (presunto, incolpevole) nemico. Forza Italia è a favore del ricalcolo ed esaminerà con spirito costruttivo la proposta presentata dal presidente Fico, ma ritiene che si possa migliorare anche per evitare che finisca per incappare in rilievi della Corte Costituzionale e si debba poi ricominciare tutto daccapo”. Il vicepresidente della Camera dem Ettore Rosato ha replicato: “Mi pare una delibera molto, molto fragile. Noi siamo sempre stati favorevoli al superamento del sistema dei vitalizi, ma questa delibera è così fragile che sono preoccupato possa resistere davanti al fatto che la vara solo la Camera e non anche il Senato. Noi comunque siamo favorevoli all’obiettivo e ci comporteremo di conseguenza”.

Assegno divorzio

Assegno divorzio, quella della Cassazione è una sentenza moderna e che protegge le donne

Assegno divorzio, quella della Cassazione è una sentenza moderna e che protegge le donne

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Giornalista
Era poco più di un anno fa quando la Cassazionepronunciandosi sul caso del divorzio tra un ex ministro e sua moglie, aveva completamente rivoluzionato il diritto di famiglia a sfavore delle donne, stabilendo non solo che il criterio del tenore di vita non avesse più ragion d’essere, ma che d’ora in poi sarebbe bastata alla parte più debole anche una minima autosufficienzaeconomica per non avere diritto a nulla. Neanche nel caso l’altra parte, quasi sempre lui, guadagnasse 10 volte tanto. Dopo quella sentenza erano arrivate sulla mia posta elettronica decine di lettere di donne letteralmente disperate. Ad esempio L., un marito iper benestante, lei con semplice stipendio di insegnante, che in base alla nuova sentenza si aspettava di perdere quel minimo assegno di poche centinaia di euro (suo marito infatti poteva chiedere la revisione dell’assegno dopo la nuova decisione della Corte) che le consentiva una vita meno misera. Oppure A., 64 anni, una pensione minuscola, che secondo il marito tuttavia in base alla nuova normativa era sufficiente per toglierle qualsiasi sostegno.

Quelle storie facevano male, perché purtroppo sia i giudici dei diversi Tribunali sia gli avvocati, trovandosi improvvisamente di fronte a una sentenza che rovesciava completamente quanto stabilito per decenni in fatto di divorzio, per uscire dal caos si sono appellati in questi mesi (con poche eccezioni) alla nuova norma, con danno estremo per le donne, soprattutto quelle che per seguire i figli avevano rinunciato a una carriera più importante o addirittura a lavorare del tutto. Il risultato amaro, scrivevo sempre su questo blog, era che sposarsi non conveniva più, così come non conveniva più fare figli, perché in un Paese dove le donne hanno lavori drasticamente più precari e sottopagati degli uomini – parlano i numeri – e spesso sono spinte dagli uomini stessi (quanti ne conosco) a scegliere un penalizzante part time oppure a stare a casa, il rischio altissimo era quello di trovarsi poverissime a 50 o 60 anni. O persino più. La cosa umiliante di quella sentenza, inoltre, era che la donna doveva dimostrare di non essere indipendente, concetto tra l’altro abbastanza fumoso e quindi legato dalla discrezionalità dei vari giudici (il Tribunale di Milano aveva parlato di mille euro al mese).

Ora, finalmente, arriva la sentenza delle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, volta a risolvere appunto le contraddizioni sul caso Grilli-Lownstein. Ed è una sentenza al tempo stesso moderna e protettiva verso le donne. Cambia la natura dell’assegno, che diventa soprattutto compensativo e perequativo, oltre che assistenziale: si dà finalmente il rilievo che spetta al contributo del coniuge che richiede l’assegno “alla formazione del patrimonio comune e personale” e questo “in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future e all’età dell’avente diritto”. Resta insomma l’obbligo di solidarietà anche dopo lo scioglimento del vincolo e resta soprattutto in quei matrimoni di lunga data e dove magari ci sono dei figli, mentre giustamente i giudici sottolineano la necessità di valutare caso per caso, distinguendo un’unione trentennale da una durata una o due anni. Tutto questo, ripeto, è sacrosanto, perché il lavoro delle donne nella cura della casa (ancora nettamente maggiore secondo le statistiche degli uomini) e in quello dei figli (se si conteggiassero le ore spese a seguire due bimbi si arriverebbe a cifre stratosferiche, peccato che si tratta di lavoro non retribuito) non può essere ignorato nel momento in cui due persone decidono di prendere strade diverse.

Il tema del divorzio, come più volte ho scritto, è un tema drammatico e spesso devastante. Non ci sono vincitori, solo ferite e molto dolore e soldi che si riducono drasticamente per entrambi, così come non ci sono cattivi e buoni. Ciascuno, evidentemente, ha i propri interessi anche legittimi, come quello a chiudere definitivamente con un passato infelice. Ma compito delle leggi, almeno quelle giuste, è arginare scelte di vita che se favorevoli a uno dei due coniugi potrebbero causare povertà e angoscia nell’altro. Certo, lo sappiamo benissimo, ci sono padri finiti a mangiare alla Caritas, ma ci sono anche decine di migliaia di madri che non ricevono un assegno a cui avrebbero diritto e non sanno cosa dar da mangiare ai figli perché il famoso fondo che lo Stato aveva istituito per aiutare proprio le donne a cui l’ex marito non versa soldi come al solito in Italia non funziona e le persone devono “arrangiarsi”, parola che indica solo fatica, paura e disperazione.

Ma Veronica Lario riavrà il suo assegno in base a questa sentenza? Onestamente non lo so e non credo importi. Nel caso dei ricchissimi, i problemi non ci sono e anzi, come ho scritto, ritengo che se una donna ha un immenso patrimonio non dovrebbe aver bisogno di un assegno, anche se suo marito è dieci volte più ricco di lei. Ma, ripeto, sono questioni che non riguardano il 99,9% della popolazione. Sulla quale, invece, questa sentenza incide. E per fortuna, a mio parere, felicemente.

Assenze per malattia, cos’è il periodo di comporto

Assenze per malattia, cos’è il periodo di comporto e come funziona

Assenze per malattia, cos’è il periodo di comporto e come funziona

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Giuristi per il lavoro
di Andrea Ottolini*

Si sente spesso parlare, in relazione alle assenze per malattia, di “periodo di comporto”. Si tratta di un tema su cui la giurisprudenza è intervenuta a più riprese: ancora recentemente, ad esempio, la Corte di Cassazione ha deciso che il datore di lavoro, una volta indicati i giorni di assenza per malattia, è a quelli vincolato nel calcolo del periodo di comporto; o ancora ha affermato che il licenziamento intimato al lavoratore prima della scadenza del periodo di comporto è nullo.

Ma che cosa significa? Cos’è il “periodo di comporto”? Facciamo un passo indietro: come noto il lavoratore durante lo stato di malattia ha diritto alla conservazione del posto di lavoro. Questo diritto non è però illimitato, ma è riconosciuto per un periodo di tempo individuato dai contratti collettivi (e in realtà, per quanto riguarda gli impiegati, anche dalla legge), per l’appunto il “periodo di comporto”.

Durante questo periodo il datore di lavoro può licenziare il lavoratore assente per malattia solo – in linea di massima – per giusta causa (cioè per un comportamento del lavoratore che abbia un notevole rilievo disciplinare), per totale cessazione dell’attività dell’impresa oppure in caso di malattia irreversibile(cioè quella malattia tale da rendere certo che il dipendente non potrà riprendere la normale attività lavorativa).

Questo significa che – salvo i casi di cui sopra – se il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo applicato a un lavoratore è di 180 giorni, questi potrà essere licenziato soltanto al 181° giorno consecutivo di assenza per malattia (in caso di comporto “secco”, cioè previsto per un’unica malattia ininterrotta) o al 181° giorno di malattia in un certo arco temporale (e in questo caso si parla di comporto “per sommatoria”, per cui si vanno a sommare tutti giorni di assenza per malattia – anche se non consecutivi e relativi a diverse malattie – in un certo periodo di tempo, di solito l’anno solare).

Una volta scaduto il periodo di comporto invece, se il lavoratore non rientra al lavoro, il datore di lavoro può procedere al licenziamento, senza necessità di alcuna motivazione ulteriore rispetto al superamento del comporto. Si tratta ovviamente di una facoltà per il datore di lavoro e non di un obbligo. Tuttavia se il datore di lavoro decide di procedere con il licenziamento, dovrà farlo tempestivamente; al contrario l’inerzia del datore di lavoro potrebbe essere intesa come una rinuncia a risolvere il rapporto.

Il lavoratore, una volta scaduto il periodo comporto, non ha quindi modo di salvarsi da un licenziamento? Non è proprio così: da un lato, infatti, alcuni contratti collettivi prevedono che – una volta superato il periodo di comporto – il lavoratore possa chiedere un’aspettativa non retribuita e solo al termine di questa, in caso di mancato rientro, il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento.

Dall’altro il lavoratore, esaurito il comporto o l’aspettativa, può chiedere al datore di lavoro di godere delle eventuali ferie che ha maturato: il datore di lavoro non è obbligato a concederle, ma un eventuale rifiuto dovrà essere adeguatamente motivato, dal momento che il datore di lavoro deve tenere in considerazione l’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro.

Infine, è opportuno ricordare che se lo stato di malattia è stato causato dal comportamento del datore di lavoro (ad esempio mobbing), i giorni di assenza non dovrebbero essere conteggiati nel periodo di comporto e un licenziamento intimato per superamento del comporto potrebbe essere dichiarato illegittimo; è il lavoratore a dover provare il comportamento illecito del datore di lavoro (nell’esempio il mobbing) e il nesso causale tra il comportamento illecito e l’assenza per malattia.

E le due sentenze della Corte di Cassazione citate in apertura di questo post?

1. Con la prima (Cass. 15095/18) la Corte ha stabilito che seppur il datore di lavoro non sia tenuto a specificare i giorni di assenza di malattia (salva esplicita richiesta del lavoratore), una volta indicati i giorni di assenza nella lettera di licenziamento, essi non possono più essere modificati: la verifica sulla legittimità del licenziamento andrà quindi valutata in relazione a quei giorni, e non potranno essere utilizzati giorni diversi di assenza. In caso di modifica dei giorni il licenziamento è quindi illegittimo, anche se il lavoratore aveva in effetti usufruito dell’intero periodo di comporto.

2. Nella seconda sentenza (Cass. 12568/18) le Sezioni unite si sono pronunciate mettendo fine a un contrasto (forse più apparente che reale, leggendo la motivazione resa) interno alla stessa Corte, affermando che il licenziamento per superamento del periodo di comporto è legittimo solo se intimato dopo la scadenza del periodo di comporto, mentre il licenziamento intimato prima della scadenza è nullo, anche se in seguito il lavoratore ha effettivamente superato il periodo di comporto: la valutazione va fatta al momento dell’intimazione del licenziamento, e non può tenere conto di quanto accaduto successivamente.

Mafie, la Dia: “Dopo morte Riina rischio atti di forza”.

Mafie, la Dia: “Dopo morte Riina rischio atti di forza. A Roma gruppi criminali come in Sicilia, Calabria e Campania”

Mafie, la Dia: “Dopo morte Riina rischio atti di forza. A Roma gruppi criminali come in Sicilia, Calabria e Campania”

Nell’ultimo rapporto semestrale della Direzione Investigativa Antimafia si legge che in alcune aree della Capitale ci sono formazioni criminali che, “basate su stretti vincoli di parentela, evidenziano sempre di più modus operandi assimilabili alla fattispecie prevista dall’articolo 416 bis”. Il successore del capo dei capi? “Improbabile che sia Matteo Messina Denaro. Le famiglie tenderanno a una gestione collegiale”

Il blitz contro il clan dei Casamonica risale solo ai ieri. E non si fatica a credere che “nella Capitale, tra i gruppi criminali, si evidenziano sempre di più organizzazioni assimilabili al modus operandi di associazioni mafiose, come quelle in Sicilia, Calabria e Campania“. Nell’ultimo rapporto semestrale della Direzione Investigativa Antimafia si legge che in alcune aree della Capitale ci sono formazioni criminali che, “basate su stretti vincoli di parentela, evidenziano sempre di più modus operandi assimilabili alla fattispecie prevista dall’articolo 416 bis”.

“Realtà romana particolarmente complessa per le infiltrazioni”
“Gli esiti investigativi e giudiziari degli ultimi anni – si legge ancora nel documento della Direzione investigativa antimafia – continuano, infatti, a dar conto di una realtà, quella romana, particolarmente complessa sotto il profilo delle infiltrazioni criminali, che vedono all’opera qualificate proiezioni delle organizzazioni di tipo mafioso italiane (siciliane, calabresi e campane in primis), che sono riuscite agevolmente ad adattarsi alle caratteristiche socio-economiche del territorio di elezione. All’occorrenza, queste compagini criminali sanno perfettamente intersecare i propri interessi non solo con i sodalizi di matrice straniera, ma, anche, con le formazioni delinquenziali autoctone che, pur diverse tra loro, in termini di modello strutturale e di azione connessa all’esercizio del potere criminale, hanno adottato il modello, organizzativo ed operativo, di tipo mafioso, per acquisire sempre più spazi nell’ambiente territoriale di riferimento”.

“Dopo la morte di Riina rischio atti di forza”
Dal Lazio alla Sicilia. Dopo la morte di Totò Riina si è “protratta la fase di riorganizzazione degli equilibri interni alla criminalità organizzata siciliana, nell’ambito della quale si registrano una latente conflittualità e tentativi di alleanze tra le consorterie. La scomparsa di Salvatore Riina costituisce, in tale contesto, un elemento da tenere in debita considerazione, perché foriero di sviluppi ancora non ben delineabili”. Una situazione, scrive la Dia, “caratterizzata dal rischio di forti tensioni che potrebbero sfociare in atti di forza, con pericolose ripercussioninell’immediato”. Improbabile, si legge ancora nel rapporto, che a succedere a Riina sia Matteo Messina Denaro, – su cui è incessante il pressing delle forze dell’ordine – “pure essendo egli l’esponente di maggior caratura tra quelli non detenuti, ed in grado di costituire un potenziale riferimento, anche in termini di consenso, a livello provinciale”, in quanto, secondo la Dia, “i boss dei sodalizi mafiosi palermitani, storicamente ai vertici dell’intera organizzazione, non accetterebbero di buon grado un capo proveniente da un’altra provincia“. Inoltre, negli ultimi anni Messina Denaro “si sarebbe disinteressato delle questioni più generali attinenti cosa nostra, per poter meglio gestire la latitanza e, semmai, gli interessi relativi al proprio mandamento ed alla correlata provincia”.

“In Cosa nostra struttura di tipo collegiale”
Chi comanda dunque oggi la piovra? Il rappordo della Dia conferma quanto raccontato dal fattoquotidiano.it dopo la morte del capo dei capi. “Cosa nostra – spiegano gli analisti dell’intelligence antimafia – tenderà ad una gestione operativa di tipo collegiale, in linea di continuità con la strategia perseguita negli ultimi anni. A tale scopo, potrebbe continuare ad avvalersi di un organismo provvisorio, costituito dai capi dei mandamenti palermitani più forti e rappresentativi, con funzioni di consultazione e raccordo strategico, in grado di esprimere – anche con riflessi sulle consorterie mafiose delle altre province siciliane – in via d’urgenza ed immediata, una linea-guida per finalizzare utilità economiche nell’interesse comune dell’organizzazione, della quale preservare comunque la struttura unitaria e verticistica”. Per la Dia, però, questa è solo una situazione momentanea perché “in prospettiva, è veritiero attendersi la creazione di un nuovo vertice. Le famiglie avvertono, infatti, la mancanza di una vera e propria struttura di raccordo sovra-familiare, nonché il bisogno di ricostituire gli organigrammi e la rete di potere che un tempo le caratterizzava. La capacità di imporre il rispetto di regole condivise è l’elemento
su cui si decide la futura sopravvivenza a lungo termine dell’organizzazione”.

“Mafie stranieri puntano a traffico migranti”
Per le organizzazioni criminali straniere in Italia “il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con tutta la sua scia di reati ‘satellite’, per le proporzioni raggiunte, e grazie ad uno scacchiere geo-politico in continua evoluzione, è oggi uno dei principali e più remunerativi business criminali, che troppe volte si coniuga tragicamente con la morte in mare di migranti, anche di tenera età”. Sono coinvolti “maghrebini, soprattutto libici e marocchini, nel trasporto di migranti dalle coste nordafricane verso le coste siciliane”.

Sergio Marchionne, 1952-2018

Sergio Marchionne, 1952-2018

Sergio Marchionne, manager, 1952-2018 (AFP)
Sergio Marchionne, manager, 1952-2018 (AFP)

È morto Sergio Marchionne. Lo ha annunciato in una nota Exor, controllante di Fca. «È accaduto purtroppo quello che temevamo. Sergio, l’uomo e l’amico, se n’è andato», ha detto John Elkann. Nel giorno dell’addio al manager italo-canadese e dopo che Fca ha pubblicato i conti del secondo trimestre, l’ulteriore taglio delle stime per il 2018 e un calo significativo dei profitti (-35%) hanno fatto crollare i titoli della galassia Agnelli, con Fiat Chrysler Automobiles che ha chiuso in calo del 15,5%, bruciando in una sola seduta 3,87 miliardi di euro di capitalizzazione.

Il neo ceo, Mike Manley, parlando agli analisti nella sua prima uscita da capo azienda, ha confermato gli obiettivi del piano 2022, ha detto che «faremo meglio in Cina» che «resteremo indipendenti» ma che sarà «un anno duro» (senza più Sergio).

Con gli incendi dovremo convivere?

Con gli incendi dovremo convivere o stiamo sbagliando strategia?

Con gli incendi dovremo convivere o stiamo sbagliando strategia?

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Quest’anno, grazie a una primavera piovosa, l’Italia è stata finora risparmiata dagli incendi che hanno devastato in modo raccapricciante Paesi non troppo lontani (sperando che non vi siano colpi di coda d’agosto). Se la tragedia di Mati, in Grecia, ci ha sorpreso per l’enormità – purtroppo non per la localizzazione: ricordiamo i devastanti incendi nel Peloponneso nel 2007 e 2017 – quest’anno sono stati gravemente colpiti per la prima volta Paesi come SveziaDanimarcaNorvegia e Finlandia. Lo scorso anno, sono stati segnalati per la prima volta incendi persino in Groenlandia.

Ormai nessuno può aver dubbi sui cambiamenti climatici in atto e il mondo accademico comincia ad andare oltre dichiarazioni prudenti. Dalla semplice constatazione che un aumento degli incendi è una prevista conseguenza del cambiamento climatico, siamo ormai arrivati a dichiarazioni su nessi causali assai più espliciti. Con gli incendi quindi dovremo convivere, ma come?

È l’interrogativo che si sono posti Marc Castellnou Ribau e Alejandro García Hernández, due ingegneri forestali che in un articolo su El Pais hanno sciorinato una serie di dati impressionanti e alcune imbarazzanti conclusioni.

Il calore emesso dagli incendi che nel giugno e ottobre 2017 hanno devastato il Portogallo era, rispettivamente, 68 e 142 volte quello dell’atomica di Hiroshima. Nel 2017 gli incendi hanno inoltre disperso in atmosfera un quantitativo di ceneri superiori a quello che usualmente viene disperso dai vulcani del Pianeta in dieci anni.

Siamo ormai di fronte a “super incendi” (che i due autori chiamano “di sesta generazione”) che, alimentati dal caldo, dallo stress idrico e dall’accumulo di materiale combustibile in boschi sempre meno curati, generano colonne convettive che raggiungono altezze fenomenali. Nell’incendio del giugno 2017 in Portogallo la colonna raggiunse un’altezza di 15 chilometri. Fin quando le condizioni meteo furono favorevoli, il fuoco alimentò questa colonna d’aria calda. Ma quando le condizioni cambiarono – rendendo la combustione più difficile – la colonna collassò, generando venti che sono arrivati fino a 100 km/h e che hanno diffuso l’incendio in tutte le direzioni: il fronte del fuoco si è esteso bruciando 4.800 ettari in soli 21 minuti, uccidendo 64 persone.

La tesi dei due ingegneri forestali è che, nella lotta agli incendi,stiamo sbagliando strategia. Con mostri come questi, è inutile insistere investendo soldi solo nel loro contrasto. Gli autori sostengono che siamo diventati più bravi a estinguere gli incendi di piccole e medie dimensioni ma che il problema è altrove: in Spagna, Francia e Portogallo, il 98 per cento degli incendi ha interessato meno del 5 per cento delle aree incendiate. È il restante 2 per cento che ha devastato oltre il 95 per cento delle aree bruciate: i soldi pubblici sarebbero spesi meglio nella prevenzione.

I cambiamenti climatici quindi ci pongono di fronte a scenari inattesi. Quando un super incendio diventa meno violento, vuol dire che si è davanti al momento più pericoloso. La cura del territorio, evitando accumuli di materiali combustibili e minimizzando gli stress idrici, è il miglior investimento e gli incendi devono essere trattati come problema di “ordine pubblico”, con un approccio che piuttosto che “salvare tutto” decida strategicamente cosa è possibile salvare e cosa no (gli autori propongono l’analogia con la procedura di triage del Pronto Soccorso). Infine, i nuovi scenari ci suggeriscono che queste lezioni devono essere condivise da chi è chiamato a gestire (spesso rischiando) queste nuove, ma purtroppo non inattese, bombe climatiche.

Festa per un Nobel

Festa per un Nobel tra Consob e Tap

Alessio Figalli, uno dei vincitori della Fields medal, il Nobel per la matematica
Alessio Figalli, uno dei vincitori della Fields medal, il Nobel per la matematica

Racconto di due Italie. La chiacchiera politica così incalzante di questi tempi monopolizza i titoli di siti e giornali. Le storie di aziende e lavoratori ma anche un episodio di ordinaria indignazione e uno di straordinaria miopia connotano i sette giorni e l’Italia più di quanto faccia la diatriba sulle nomine Rai. È storia di miopia italiana quella del medico-inventore che progetta un robot chirurgo ma è costretto a emigrare in Israele. È storia di consueta indignazione il caso di malasanità in Calabria poi ridimensionato se non derubricato a falsa notizia.

La startup premiata dal Colle ora è in Israele

La bufala del cartone all’ospedale di Reggio Calabria

In mezzo a questi due potremmo dire soliti estremi, si gioisce per l’insolito il Nobel della matematica che va a un italiano,Alessio Figalli, giovane professore con cattedra in Svizzera. Si nota come stia passando inosservato l’addio di Foodora al nostro paese, la stessa azienda il cui business – le consegne di cibo a domicilio – sono state oggetto di feroce battaglia per le condizioni di lavoro dei rider. Si ha la conferma che i movimenti del commercio globale portano a imprevedibili a volte virtuosi esiti, come l’acciaieria ex Lucchini di Piombino felice di lasciarsi alle spalle la gestione algerina e con «cauto ottimismo» saluta l’arrivo dei proprietari indiani.

Alessio Figalli, Nobel e magia dei numeri

Foodora in vendita in Italia: «Mercato difficile»

Acciaio, Piombino pronta alla cura indiana

Storie più piccole di un paese in continua trasformazione che una settimana fa ha assistito alla triste fine del leader di questo inizio secolo a capo di un pezzo di storia d’Italia: a pochi giorni dalla scomparsa di Sergio Marchionne, l’analisi dell’inviato Paolo Bricco che ha dedicato tre anni a un libro sulla nascita di Fca e su chi l’ha resa possibile.

Bologna, nube di fuoco in autostrada

ESPLOSIONE SULLA A14

Bologna, nube di fuoco in autostrada

L’incendio che si è sviluppato in zona Borgo Panigale, alla periferia di Bologna (ANSA)
L’incendio che si è sviluppato in zona Borgo Panigale, alla periferia di Bologna (ANSA)

Un’autocisterna carica di Gpl ha tamponato a Bologna un camion bisarca sull’autostrada di collegamento tra l’A14 e l’A1. L’incidente ha causato una fortissima esplosione che ha fatto crollare parte del cavalcavia, devastato case e negozi nel circondario e incendiato decine di auto di un concessionario. Il bilancio registra un morto e una sessantina di feriti di cui 14 in gravi condizioni. Pesanti conseguenze sulla circolazione stradale. I tratti interessati resteranno chiusi per verifiche.

Bologna, inferno sul raccordo autostradale. In fiamme centinaia di auto

Bologna è un nodo nevralgico per la mobilità del paese. Ecco perchè lo schianto di ieri potrebbe causare ripercussioni gravissime sul sistema nazionale dei trasporti e relativa consegna delle merci. Secondo una stima de Il Sole 24 Ore, lungo le arterie interessate dall’incidente circolano, in media,63mila tir al giorno.