“Tredicenni, più gioco d’azzardo online. E sono ‘nottambuli’ connessi su WhatsApp”

“Tredicenni, più gioco d’azzardo online. E sono ‘nottambuli’ connessi su WhatsApp”

La Società italiana di Pediatria ha svolto un’indagine su oltre duemila studenti della terza classe nella scuola secondaria. In crescita il gambling in rete, anche se vietato ai minori. Usano molto anche Facebook, Ask e Instagram. “Hanno però un tremendo bisogno di comunicare con qualche adulto – spiega Maurizio Tucci, curatore del report – ma non hanno referenti”

“Tredicenni, più gioco d’azzardo online. E sono ‘nottambuli’ connessi su WhatsApp”

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Giocano sempre più d’azzardo online, passano la notte a chattare e sono perennemente in gara per un “like”. Ecco l’identikit dei tredicenni italiani. A tracciare la fotografia della nuova generazione digitale è la Società italiana di Pediatria che ha presentato i dati di un’indagine svolta su un campione rappresentativo di 2.107 studenti della terza classe della scuola secondaria. Numeri che confrontati con il passato rivelano un vero boom dei nuovi social network e dell’utilizzo della rete: nel2008 solo il 42% del campione utilizzava Internet tutti i giorni contro l’attuale 81%. Ma che fanno i nostri ragazzi davanti allo schermo?

Uno dei fenomeni più pericolosi è il cosiddetto “Gambling” ovvero il gioco d’azzardo online, fenomeno in crescita tra i giovani. Il 13% degli intervistati l’ha praticato, anche se vietato aiminori. La sempre maggior offerta di siti, ormai legali, in cui si gioca utilizzando soldi “veri” è una tentazione molto forte che inizia a sedurre anche i giovanissimi. Un mondo, quello dei teenager, che a rigor di legge non potrebbe accedere a questi siti fino al compimento della maggiore età. Almeno sulla carta, perché nella realtà il 45% del campione che ha giocato sostiene di aver vinto, mentre il 36% non ricorda l’esito economico dell’esperienza. E sempre tra i “giocatori” il 32% è orientato a rimettersi davanti al pc, il 45% dichiara di non voler rifare l’esperienza e il 18% è incerto.

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“Siamo di fronte ad un nuovo fenomeno – spiega Maurizio Tucci, curatore dell’indagine –. E’ il primo anno che monitoriamo questo dato perché ci siamo accorti che molti ragazzi passavano il loro tempo a giocare d’azzardo in Rete. In quest’ultimo biennio vi è stato un vero e proprio aumento dei giocatori tredicenni. I meccanismi di accesso al gioco online, vanno dall’offrire gratuitamente fiches di ‘benvenuto’ a sistemi di pagamento tali per cui non è difficile anche per un minorenne accedere, magari grazie ad un amico maggiorenne che ha la possibilità di mettere a disposizione i propri documenti per registrarsi”. Dati che vanno di pari passo con il resto dell’Europa: “Non abbiamo a disposizione numeri per fare dei confronti – spiega Tucci, precisando che su questa fascia d’età sono pochi a puntare gli occhi – ma posso dire con certezza che l’Italia non ha la maglia nera”.

Internet per un tredicenne significa social network. E su questo tema vi è un’importante novità: non è ancora tempo di dire addio a Facebook ma sempre più ragazzi usano WhatsApp(81,1), Ask (33,2%) e Instagram (42%). Pochi ancora quelli che cinguettano su Twitter (23%). A usare il social inventato da Mark Zuckerberg resta comunque il 75% dei giovanissimi del campione. “Facebook resta una vetrina rassicurante per i genitori. Su Ask i ragazzi si esprimono con un linguaggio scurrile dietro l’anonimato che garantisce questo social mentre su Facebookpostano le foto del loro compleanno e del loro cagnolino. Ciò che mi stupisce è che questi adolescenti hanno un tremendo bisogno di comunicare con qualche adulto ma non hanno referenti: con l’associazione, ci siamo iscritti ufficialmente ad Ask e riceviamo centinaia di richieste di informazioni sulla sessualità, sul ciclo mestruale”.

Ragazzi che possiamo definire, secondo la ricerca presentata, baby nottambuli. Rispetto alla precedente indagine cresce l’abitudine a navigare nelle ore serali e notturne. Il 56,6% chatta la sera dopo cena e circa il 40% continua a farlo fino a tardi, prima di addormentarsi in una fascia oraria che interferisce con il sonno, con conseguenze non trascurabili sulla salute. Se nel 2012 era il 2,6% a pensare ad Internet appena sveglio ora è il 12,5%. La connessione sul telefonino è complice di questo incremento. E la Società Italiana di Pediatria mette in guardia genitori e insegnanti: chi frequenta più di tre social ha una vita più a rischio. “I più assidui frequentatori diFacebook o WhatsApp o Ask, risultano più fragili e insicuri”.

Napoli: Bobbio choc, viva carabiniere Rione Traiano, e’ vera vittima

Napoli: Bobbio choc, viva carabiniere Rione Traiano, e’ vera vittima

Adnkronos NewsAdnkronos News – 51 minuti fa

Napoli, 7 set. – (Adnkronos) – “Viva e sempre l’Arma dei Carabinieri e le forze di Polizia, qualunque cosa accada. E viva il carabiniere di Rione Traiano”. Non usa giri di parole Luigi Bobbio, per anni pm della Dda di Napoli ed ex sindaco di Castellammare di Stabia, che dalla sua pagina Facebook interviene nel dibattito sulla morte del 17enne Davide Bifolco. “Sono convinto – scrive Bobbio – che, specialmente nello stato in cui siamo, giustficazionismo, buonismo, perdonismo e pietà non solo non servono a niente ma aggravano il male”.

Secondo Bobbio, la “vera vittima” della vicenda è il carabiniere, “vittima del suo senso del dovere e del fatto di essere chiamato a operare in una realtà schifosa in cui la mentalità delinquenziale e l’inclinazione a vivere violando ogni regola possibile è la normalità. A 17 anni ormai si è uomini fatti, e gli uomini sono responsabili delle loro scelte, delle loro azioni e del loro stile di vita. Un carabiniere è un carabiniere e un teppista è un teppista. E i Carabinieri non devono proteggere i teppisti ma, al contrario, proteggere i ragazzi perbene dai teppisti, dai delinquenti e dagli sbandati”. (segue)

Napoli: Carabiniere spara, ucciso 17enne.

Napoli: Carabiniere spara, ucciso 17enne. Un testimone: “Un’esecuzione” ed e’ rivolta

05 Settembre 2014. Politica

 

Napoli violenta, Napoli città con molti scippi e rapine, vive una giornata drammatica. Un diciassettenne ucciso, un testimone che dice “E’ stata un’esecuzione” ed il quartiere Traiano in rivolta. Due auto della polizia date alle fiamme. E’ il risultato di una tragica notte iniziata con l’inseguimento di tre giovani su uno scooter. I tre non si sono fermati all’alt dei carabinieri, ne e’ nato un inseguimento, conclusosi quando il conducente ha preso un’aiuola del mezzo, urtando la Gazzella e cadendo a terra. Ma c’e’ anche chi dice che il motorino sia stato speronato dai militari. Uno e’ riuscito a fuggire e mentre i carabinieri bloccavano fil altri due, e’ partito un colpo dalla pustola d’ordinanza. Accidentalmente dicono i carabinieri, “un’esecuzione” sostiene un testimone. Così’ e’ morto ad appena 17 anni Davide Bifolco. I carabinieri pensavano che si trattasse di rapinatori, e forse non avevano torto. Infatti quello fuggito a piedi sarebbe un latitante, evaso a febbraio dai domiciliari, a cui era detenuto per rapina. L’altro fermato, Salvatore Tronfio, 18 anni, ha precedetti per furto e danneggiamento. C’era un altro scooter vicino a quello inseguito, con amici dei tre giovani. Uno di questi racconta: “Stavamo percorrendo un viale quando ad un certo punto la macchina dei carabinieri e’ andata contro lo scooter di Davide: E’ iniziato l’inseguimento, e’ stata puntata la pistola e Davide e’ stato ucciso. Poi l’hanno ammanettato come il peggiore dei criminali, nonostante fosse già’ stato colpito”.C’e’ da dire che carabinieri e polizia agiscono su un territorio pericoloso e spesso anche i ragazzi giovani sono armati di pistola. E spesso in solo due uomini devono affrontare più’ persone. Per questo capita che tirino fuori la pistola a scopo precauzionale. Come sia veramente partito il colpo mortale saranno ora gli investigatori a stabilirlo. Comunque troppo spesso giovani rapinatori, come quelli abituali dei rolex, vengono mandati ai domiciliari, dai quali puntualmente evadono per continuare a fare il loro lavoro. E per le forze dell’ordine diventa difficile controllare tutto senza mai perdere la lucidità necessaria.

Certificati medici e sport amatoriale, anche quest’anno si rischia il caos

Certificati medici e sport amatoriale, anche quest’anno si rischia il caos

Certificati medici e sport amatoriale, anche quest’anno si rischia il caos. Il Dl Fare del 2013 ha cancellato l’obbligo del certificato medico per svolgere attività ludico-motoria amatoriale (per esempio nuoto libero o palestra) ma nonostante ciò nell’ultimo anno le strutture hanno continuato a richiederlo ai fini dell’iscrizione. E il rischio è che anche quest’anno nonostante la legge i cittadini siano costretti a pagare dai 30 ai 50 euro per un certificato che non serve.
Le palestre non si sentono tutelate – Nonostante i chiarimenti del Ministero i dubbi ancora permangono. Dubbi che dovrebbero essere quasi sciolti per quanto riguarda invece i certificati per le attività sportive non agonistiche (quelle organizzate dalle scuole, nell’ambito di attività parascolastiche e quelle dei giochi studenteschi a livello provinciale o regionale) su cui sono in arrivo nuove linee guida. Il certificato sarà obbligatorio e avrà validità annuale. L’elettrocardiogramma, invece, dovrà essere effettuato almeno una volta nella vita (dai 60 anni una volta l’anno).
Ma come scegliere lo sport giusto per i bambini? – Prima, fino a 4 o 5 anni di vita, imparare a percepire il proprio corpo nello spazio, quindi aprirsi ad attività di squadra e ad attività specialistiche. Questo il percorso sportivo ideale per i più piccoli, secondo gli esperti dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma che, in occasione della ripresa dell’anno scolastico, prevengono le domande di molti genitori con una serie di consigli pensati per aiutarli a scegliere l’attività migliore per i propri figli.
Il nuoto resta lo sport ideale per i più piccoli – Anche in età prescolare il nuoto resta lo sport ideale per i più piccoli. Oltre a questo, fino ai 7-8 anni sarebbe bene far loro praticare attività come l’atletica leggera o la ginnastica, in cui il piccolo impara ad utilizzare il proprio corpo nello spazio e a migliorare la coordinazione neuromotoria. Impegno atletico, aspetto ludico e spirito di squadra sono le virtù delle discipline sportive collettive, come calcio, pallavolo, basket. In genere, però, spiegano gli esperti, i bimbi sono pronti ad apprezzarle solo dopo i 7 anni. Oltre i 9-10 anni ci si può accostare anche a discipline più specializzate, che richiedono ad esempio il contemporaneo utilizzo di un attrezzo, come avviene nella scherma, nel tennis e nel tiro con l’arco, che favoriscono, in particolare, la capacità di concentrazione.
Nel caso di malattie croniche, niente paura – L’80% dei piccoli pazienti, purché con le precauzioni basilari, può non deve astenersi dal praticare sport. Anzi, “l’attività sportiva può essere anche parte del piano terapeutico”, spiega Attilio Turchetta, responsabile di Medicina dello Sport del Bambino Gesù, dove è attiva, da tempo, una specifica Unità Operativa dedicata alla valutazione funzionale e alla certificazione medico-sportiva di bimbi affetti da patologie come cardiopatie congenite, malattie oncologiche, renali, polmonari o neuromuscolari. “Praticare sport – aggiunge – produce un incremento dell’autostima tale da superare molte delle difficoltà che una malattia crea”.

Napoli, carabiniere uccide diciassettenne. Scoppia la rivolta, distrutte auto della polizia

Napoli, carabiniere uccide diciassettenne. Scoppia la rivolta, distrutte auto della polizia

Era in scooter insieme ad altri due nel quartiere Traiano e non si è fermato all’alt. I carabinieri: “Colpo accidentale”. Il fratello: “E’ stato un omicidio”

VIDEO La madre in lacrime: “So solo che mio figlio è morto”

Napoli, 5 settembre 2014 – Uno scooter, tre ragazzini. L’alt dei carabinieri, il mezzo che non si ferma; poi l’inseguimento e il colpo che parte. La notte balorda di Napoli si è portata via Davide Bifolco, 17enne del Rione Traiano.

SCOPPIA LA RIVOLTA – Dopo la tragedia in strada è scoppiata la rivolta: la gente si è sfogata distruggendo un’auto della polizia e danneggiandone altre. Ressa anche all’ospedale San Paolo, dove è stata trasportata la salma del giovane a disposizione dell’autorità giudiziaria per l’autopsia. In tanti si sono stretti attorno al dolore di parenti e amici sotto casa del 17enne ucciso. (FOTO – LO STRAZIO DEI PARENTI)

LA DINAMICA – Tutto in pochi minuti. Nella ricostruzione fornita dai carabinieri, la morte di Davide è il frutto di un colpo di pistola partito per errore durante le concitate fasi per arrivare a bloccare due delle tre persone che erano fuggite all’alt della pattuglia. Sono circa le 2.40 quando una gazzella del Nucleo radiomobile di Napoli, nota i tre senza casco che viaggiano in sella a uno scooter. Il conducente non si ferma all’alt, e inizia l’inseguimento. 
il guidatore del mezzo in corsa impatta contro una aiuola e perde il controllo, urta la gazzella, e scooter e passeggeri cadono a terra. Subito dopo la caduta, il latitante, Arturo Equabile, 23 anni, fugge a piedi facendo perdere le tracce pur inseguito da uno dei due componenti della pattuglia. A questo punto dalla sua pistola parte un proiettile in maniera accidentale e raggiunge, all’emitorace sinistro il diciassettenne. Il carabiniere è ora indagato per omicidio colposo.

FERMATO UN 18ENNE, FUGGITO UN LATITANTE – In caserma, fermato dai militari, un altro ragazzo che era a bordo dello scooter, il 18enne Salvatore Triunfo, con precedenti per reati contro il patrimonio e danneggiamento. I carabinieri invece hanno identificato e ricercano il terzo occupante dello scooter, un latitante, secondo quanto si è appreso, con precedenti per reati contro il patrimonio, evaso dai domiciliari a febbraio scorso. Davide invece non aveva nessun precedente penale.

LA MADRE – “Oggi sono morta anch’io”. Sono le parole pronunciate con la voce rotta dal pianto da Flora Mussorofo, mamma di Davide. “Aveva solo 17 anni – aggiunge – non poteva fare male a nessuno. Il suo unico svago era giocare a pallone”. Spiega poi di non ricordare se al suo arrivo il figlio fosse ammanettato o meno, perché “ero in preda al panico”.”Niente, Davide non ha fatto niente. Ma che ha fatto che l’hanno ucciso? Voglio giustizia”, prosegue la donna. E racconta: “Era a casa, ha preso un giubbino e un cappellino e mi ha detto ‘vado a fare un giro e vengo’. Cinque minuti, e mi ha chiamato una ragazza e ha detto ‘signora scendete che i carabinieri hanno fermato Davide, servono i documenti”. “Era morto a terra – prosegue Flora Mussoforo – lo chiamavo e gli dicevo ‘alzati, andiamo’. E poi ho detto ‘che avete fatto’, ma nessuno mi rispondeva”. La madre di Davide si rivolge nuovamente al carabiniere: “Venga qui e uccida anche me”. Prova ancora a ricostruire quanto accaduto ieri sera, quando Davide le ha chiesto un cappellino perché “voleva fare ancora un giro in motorino, ma aveva freddo”. Più tardi “sono venuti a chiamarmi – spiega – sono arrivata sul posto e ho visto mio figlio a terra, ho cercato di scuoterlo ma era morto”. (VIDEO – LA MADRE IN LACRIME)

IL FRATELLO – “E’ stato un omicidio, non s’inventino scuse. E’ stato un omicidio”, dice, anche lui tra le lacrime nel rione Traiano, il fratello di Davide, Tommaso Bifolco. “Non è caduto durante l’inseguimento – aggiunge – è stato speronato e ucciso”.

GLI AMICI – Enrico ha ancora lo sguardo spaventato. Ripete, quasi a memoria, quel che ha vissuto stanotte. Era a bordo di uno scooter insieme ad un amico, accanto a Davide. “Stavamo percorrendo un viale quando ad un certo punto una macchina dei carabinieri è andata contro lo scooter di Davide. E’ iniziato l’inseguimento, è stata puntata la pistola e Davide è stato ucciso – dice ancora – l’hanno ammanettato come il peggior dei criminali, nonostante fosse già stato colpito”. “Davide era un bravissimo ragazzo – aggiunge Enrico – per me era un fratello. Giocavamo a calcio, scherzavamo tra di noi. Non eravamo delinquenti, stavamo soltanto facendo un ultimo giro prima di tornare a casa”.

“Lo hanno investito, gli hanno sparato e lo hanno ammanettato. Lo hanno ucciso tre volte“. Sono le parole di un altro amico di Davide. “Si tratta di omicidio volontario – aggiunge un altro ragazzo ancora – è morto sul colpo ed è arrivato all’ospedale già morto”. Gli amici riuniti davanti alla casa del giovane, al Rione Traiano, chiedono “giustizia. Chi ha sparato deve pagare”. Un ragazzo che abita in una casa vicina a quella del 17enne ucciso sottolinea ai cronisti: “La camorra ci protegge, lo Stato ci uccide”. Poi si allontana velocemente. Rione Traiano è una delle zone di Napoli in cui è forte la presenza della criminalità, organizzata e non.

Ancora mistero sui rapitori di Vanessa e Greta, Giro: “Non sono in mano all’Isis”

Ancora mistero sui rapitori di Vanessa e Greta, Giro: “Non sono in mano all’Isis”

Vanessa Marzullo e Greta Ravelli “non sono in mano ai tagliagole e sono in una situazione diversa da quella dei ‘decapitabili'”. Dunque ci sono “ragionevoli motivi” per pensare che possano essere riportate a casa sane e salve. Lo 007 non si sbilancia oltre ma le sue parole confermano quanto affermato ufficialmente dal governo con il sottosegretario agli Esteri Francesco Giro: “al momento non risulta” che le due giovani rapite lo scorso 31 luglio alla periferia di Aleppo, in Siria, siano nelle mani dei jihadisti dell’Isis. “Stiamo facendo tutto il possibile affinché si possa arrivare alla loro liberazione” ha aggiunto Giro ribadendo l’invito già rivolto sulle colonne del quotidiano cattolico ‘L’Avvenire’ a mantenere in questo momento il “massimo riserbo” sull’intera vicenda.
Sequestro alle battute finali – La buona notizia non vuol dire però che il sequestro sia alle battute finali. E, soprattutto, che le due giovani cooperanti non possano finire nelle mani dei fondamentalisti che hanno giustiziato il giornalista americano James Foley. Chi le ha attualmente in mano, molto probabilmente un gruppo diverso da quello che le ha rapite e appartenente alla galassia dei gruppi ribelli che combattono il regime di Assad, potrebbe infatti puntare a ‘gestire’ il sequestro, facendo il doppio gioco, e decidere poi di passare di mano Vanessa e Greta, incassando così dagli uomini dell’Isis un riconoscimento importante sia dal punto di vista politico che economico.
Muoversi con cautela – Ecco perché si sta cercando di accelerare, anche se in queste situazioni la prima cosa da fare è muoversi con assoluta cautela per non mettere a rischio la vita degli ostaggi e per individuare il ‘canale’ giusto con cui trattare. “Siamo in uno scenario assolutamente fluido – conferma lo 007 – e non possiamo escludere il rischio che la situazione possa precipitare”. Al di là delle normali preoccupazioni, un contatto con chi ha ben chiara la situazione sarebbe stato stabilito e una trattativa sarebbe già in corso. Ecco perché ci sono “ragionevoli motivi” per pensare che le due ragazze possano essere riportate a casa. Due giorni fa, tra l’altro, il quotidiano panarabo ‘Al Quds al Arabi’, che si pubblica a Londra, scriveva che le ragazze stanno bene, riportando una fonte dei ribelli di Ahran ash Sham, uno dei gruppo di opposizione ad Assad.
Il governo lavora sottotraccia – Il governo continua dunque a lavorare sottotraccia in stretto contatto con le intelligence di altri paesi, in particolare con quelle che hanno già avuto a che fare con i sequestri dell’Isis e quelle dei paesi confinanti, come Turchia e Giordania. Ma le preoccupazioni dell’esecutivo riguardano anche la situazione interna. La visita del premier Matteo Renzi a Baghdad ed Erbil e la decisione di inviare le armi ai peshmerga curdi, hanno inevitabilmente esposto l’Italia a rischi maggiori. Rischi che hanno spinto il Dipartimento della pubblica sicurezza ad inviare nei giorni scorsi una circolare a prefetti e questori con cui si chiede di innalzare la vigilanza sugli obiettivi sensibili, di attivare tutte le fonti sul territorio e di monitorare con particolare attenzione i circuiti dell’estremismo islamico.
I “lupi solitari” jihadisti  – A preoccupare sono in particolare i cosiddetti ‘foreign fighters’, vale a dire gli europei che dopo aver combattuto in Siria e in Iraq tornano nei loro paesi d’appartenenza, e quelli che il ministro dell’interno Angelino Alfano ha definito ‘lupi solitari’, jihadisti individuali radicalizzatisi soprattutto sul web che potrebbero dar vita a eventuali iniziative estemporanee. Stando alle ultime informazioni dell’antiterrorismo e dell’intelligence, sarebbero una trentina i combattenti partiti dall’Italia per andare in Siria. Tra loro ‘vecchi arnesi’, veterani delle guerre dei Balcani, e giovanissimi pronti a sacrificarsi per la jihad.
Reti di reclutamento – Qualcuno, fanno notare fonti qualificate, potrebbe rientrare a breve per costituire reti di reclutamento, pianificare attentati terroristici grazie all’esperienza operativa acquisita, portare su posizioni radicali i soggetti più deboli. Ed è su questi soggetti che si concentra l’attenzione. “Rientri significativi al momento non ce ne sono – dice un investigatore – ma stiamo seguendo con attenzione la situazione per evitare sorprese”. Anche su questo fronte gli scambi di informazioni con gli omologhi degli altri paesi, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Germania che hanno numeri molto più alti con cui confrontarsi, sono continui e costanti. L’obiettivo dell’Italia, su questo fronte, è promuovere a livello europeo delle squadre multinazionali di investigatori dedicate esclusivamente al fenomeno.

Usa, una bimba di nove anni uccide con una mitraglietta Uzi l’istruttore di armi

Usa, una bimba di nove anni uccide con una mitraglietta Uzi l’istruttore di armi

Una bimba di 9 anni ha sparato con una mitraglietta, uccidendo per sbaglio il suo istruttore di armi mentre le stava mostrando l’utilizzo dell’Uzi automatica. La tragedia è accaduta in località Lake Havasu City, in Arizona.

Al poligono di tiro con i genitori – La vittima, Charles Vacca, 35 anni, era in piedi vicino alla bambina nel poligono di tiro a White Hills, quando la piccola ha premuto il grilletto e per il rinculo lo ha colpito alla testa. L’uomo è stato trasportato con l’eliambulanza a Las Vegas, ma è morto poco tempo dopo l’arrivo. La bambina, la cui identità non è stata rivelata, era al poligono di tiro con i suoi genitori.

Che disastro se le generazioni si ignorano

Che disastro se le generazioni si ignorano

di Marco Lodoli

Dopo decenni di piazze virtuali, talk show debordanti, dibattiti infiniti nei salottini televisivi, forse è il caso di ritornare a parlare e ad ascoltare veramente. Uno dei problemi più vistosi del nostro paese sta proprio nell’incomunicabilità tra generazioni diverse.
Era bello e giusto ascoltare da bambini i racconti dei più vecchi e poi, giunti all’adolescenza, litigare con i padri su questioni decisive, su quella che una volta si chiamava visione della vita. C’era un confronto acceso, spesso uno scontro: i figli portavano una nuova concezione del mondo, la difendevano a oltranza, cercando gli argomenti più forti, e i padri ribadivano le loro idee, e così circolava una bella elettricità che inevitabilmente accendeva luci impreviste. Stridevano tra loro, le generazioni, si opponevano su trincee invisibili, provavano in ogni modo a far valere le proprie ragioni.
Del resto è sempre stato così: chi arriva dopo manifesta tutta la sua insoddisfazione per lo stato delle cose, e una cena in famiglia diventava una tenzone dialettica, uno scambio intenso di parole e sentimenti. Se non avessi discusso a lungo con mio padre, sempre su temi generali, assoluti direi, forse non sarei riuscito a chiarirmi i pensieri. Oggi mi sembra che questa fisiologica dialettica tra le età sia svanita, oggi le generazioni vivono dentro le loro riserve indiane, ignorandosi totalmente. Non si litiga più, si è indifferenti.
Ogni gruppo ha i suoi riti, i suoi miti, i suoi abiti da indossare, le sue abitudini e i suoi prodotti da consumare, i ventenni se ne sbattono dei cinquantenni, i cinquantenni non provano nemmeno a capire i ventenni e il silenzio dilaga. Ogni generazione è autosufficiente, procede velocemente facendo clan e dimenticando gli altri. I più vecchi parlano tra loro ricordando gli anni Settanta, De André, il mondiale di Paolo Rossi, i più giovani ascoltano i rapper e navigano sui loro siti Internet. I valichi si sono chiusi, nonni, padri, figli, nipoti si chiudono nelle loro stanze senza più uscire allo scoperto, senza più fare piazza.
Ogni comunità ha bisogno di conservare una memoria del passato e di aprirsi fiduciosa al futuro, di mescolare il mazzo di carte e distribuirle continuamente, ma ormai il fastidio prevale sulla curiosità, il mutismo sulla parola da dare e ricevere. Il tramonto e l’alba dovrebbero intrecciare le loro luci, perché il giorno sia vivo e sempre inclinato verso il giorno seguente. Se non ricominciamo a confrontarci con passione, tutto inaridirà nella logica della separazione distratta.
Non dobbiamo rimanere con i soliti quattro amici a rimbalzarci le solite opinioni, a scambiarci i soliti giochetti, le stesse preoccupazioni: dobbiamo immaginarci come una comunità viva, in cui il prima e il poi, come vene e arterie, fanno girare il sangue dell’esistenza. Ignorarsi significa solo impaludarsi nella melma delle sicurezze immobili.

Articolo 18, ma che pena il livello culturale dei nostri imprenditori

Articolo 18, ma che pena il livello culturale dei nostri imprenditori

Un giornalista avveduto come Massimiliano Gallo mi racconta d’aver letto sul Mattino un’intervista a tutta pagina con Antonio D’Amato, imprenditore ed ex presidente di Confindustria. I temi, quelli soliti: la crisi economica, la fatica improba di fare impresa, le tasse che ti strozzano.  Naturalmente, la massima disponibilità, da parte degli imprenditori, “a fare la nostra parte”, dice D’Amato, a patto che. A patto che ci diano libertà di licenziare. Di tutto il gran discorso, questo era il punto fondamentale. Considerazione di Gallo: possibile che invece che trasmettere le proprie sensazioni rispetto all’innovazione, allo sviluppo sociale, insomma con lo sguardo proiettato nel futuro, un uomo che fa impresa ponga al centro della sua esistenza professionale la libertà di licenziare, quasi fosse una soddisfazione personale, una resa dei conti attesa da anni, quasi una ripicca sociale?

Oggi sul Corriere, intervista a Matteo Zoppas, industriale, presidente di Confindustria Venezia e consigliere delegato delle acque minerali San Benedetto, l’azienda di famiglia. L’argomento di partenza è ovviamente l’articolo 18. “Lo si abolisca senza se e senza ma – dice Zoppas – perché è ora di flessibilizzare in uscita, in modo da liberalizzare in entrata”. Sin qui nulla di particolarmente nuovo, nè tanto meno di così scandaloso. Ma poi ci prende gusto, il nostro Zoppas, e alla domanda se non sia  paradossale poter licenziare liberamente per rimettere in carreggiata il Paese, comincia a farsi prudere le mani: “No, si tratta soltanto di concedere alle imprese efficaci riorganizzazioni aziendali seguendo gli spostamenti della domanda, dando la possibilità all’imprenditore di chiudere rami non più remunerativi per scommettere in altri che ritiene più redditizi. E ciò – conclude – lo si fa senza articolo 18″.

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Traduzione simultanea; io imprenditore scommetto sullo sviluppo di un prodotto, investo e dunque assumo alla bisogna. Ma il mercato mi dà una risposta amara, mi certifica che ho scommesso avventatamente, perché il prodotto non sfonda. Quindi si dà “all’imprenditore la possibilità di chiudere rami non più remunerativi…” In buona sostanza silicenziano tutti quelli, o buona parte di quelli che erano stati assunti in quel contesto. Ma andiamo avanti, perché le sorprese non sono finite. Il giornalista del Corriere pone giudiziosamente un’altra domanda e cioè se per far questo non fosse già sufficiente la legge Fornero e qui Zoppas, rappresentante di Confindustria Venezia, dà il meglio: “I costi di contenzioso sono ancora alti, come gli indennizzi riconosciuti ai lavoratori”.

Altra traduzione simultanea: la legge Fornero, che era un buon punto di sintesi tra le varie esigenze (questione esodati a parte), prevedeva appunto indenizzi sensibili in modo da scoraggiare la vena liquidatoria dei nostri bravissimi imprenditori quando le cose non filano. Ma adesso Zoppas ci certifica che quelle soglie sono troppo alte, per cui vanno riviste, se non abbattute.

Traduzione delle traduzioni: l’imprenditore così lo so fare anch’io.

Per tamponare la ciclopica depressione in cui sono caduto, dopo aver verificato il livello culturale dei nostri “migliori” uomini d’impresa, mi sono letto un’intervista di Repubblica a Pietro Ichino, fatta tra l’altro da Griseri, giornalista che sa di lavoro. Qui le cose si sono fatte molto più decenti, sia sotto il profilo del rispetto umano – si parla di lavoratori e non di pacchi da spedire – sia sotto l’aspetto della competenza. E il professor Ichino, certo un uomo non troppo amato a sinistra, analizza le due strade possibili. Quella “che va sotto il nome di Tito Boeri e Pietro Garibaldi prevede che dall’inizio del quarto anno torni ad applicarsi integralmente l’articolo 18. Se si sceglie questa soluzione – analizza Ichino – il rischio è che la parte più debole della forza-lavoro non riesca mai a superare lo “scalone” fra il terzo e il quarto anno. A me dunque sembra preferibile la soluzione che vede crescere gradualmente il costo del licenziamento a carico dell’azienda (capito Zoppas, ndr), e al tempo stesso il sostegno economico e professionale di cui gode il lavoratore licenziato, con il ‘contratto di ricollocazione’”.

Lunga sarà la strada prima di trovare un dignitoso punto di sintesi, soprattutto se il livello degli imprenditori è questo.

Che cosa penso dell’articolo 18

Che cosa penso dell’articolo 18 (e non solo). L’analisi di Alessandra Servidori

16 – 08 – 2014Fernando Pineda

Che cosa penso dell'articolo 18 (e non solo). L'analisi di Alessandra Servidori

Ecco la conversazione con Alessandra Servidori, docente di politiche del welfare pubblico e privato, su articolo 18 e non solo.

Che ne pensa del dibattito sull’articolo 18? È davvero una priorità? È ormai solo un totem come dice Renzi che intende modificare l’intero impianto dello Statuto dei lavoratori?

Sicuramente tutta la materia del lavoro è una priorità ma andiamo per ordine: non sia usata la clessidra agosiana come si fece per il famoso art. 8 del decreto 138/2011 poi nella manovra economica convertito dalla Legge 14 settembre 2011, n. 148 che scatenò reazioni feroci e ci fece perdere tempo prezioso per una riforma equilibrata del lavoro.

Che successe all’epoca?

Le opposizioni in quell’agosto caldissimo gridarono al sovvertimento dell’ordine delle fonti del diritto, attentato ai diritti dei lavoratori, proposero il referendum contro il famigerato l’art. 8, appelli contro tale norma etc., ma  la stessa lettera di Trichet e Draghi al Primo Ministro Italiano di quell’estate ancora oggi dopo tre anni attualissima, era chiara nel chiedere tale cambiamenti come necessari.

Di quali cambiamenti parla?

Ricordo testualmente in tale lettera:

a) “È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena
liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione.
L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si
muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

E allora?

Bene, l’art. 8 del D.L. n. 138/2011 ha dato una svolta fondamentale al sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità, ha riconosciuto un maggior potere alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale statuisce che i contratti collettivi di lavoro, aziendali o territoriali, sottoscritti da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda possono realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario. Sono inoltre espressamente disciplinabili dalla contrattazione aziendale e territoriale le materie inerenti: “a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio.
Il comma 3 dello stesso art. 8 ha stabilito che le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.
Inoltre in data 21 settembre 2011, Confindustria e sindacati firmarono, in via definitiva, l’Accordo Interconfederale di quel giugno su contratti e rappresentanza, diventando così lo stesso pienamente operativo.

Ma perché allora ripensare a tutto di nuovo?

Andiamo avanti, altroché! E sicuramente con equilibrio affrontiamo così anche lo Statuto dei lavori – attenzione, non lo Statuto dei lavoratori – che si porta dietro necessariamente anche la modifica dell’innominabile 18: sbagliato cercare soluzioni triennali già superate dai contratti e apprendistato. Il problema non si pone in relazione alla prima fase lavorativa ma per l’intero arco di vita nel quale può sempre prodursi la rottura del necessario rapporto di fiducia Sono sicura che in Commissione Lavoro del Senato con Sacconi si troverà la soluzione condivisa e magari in settembre quando si riprendono i lavori

Il prof Tiraboschi a Formiche.net ha detto che la situazione economica e politica è cambiata rispetto al 2001 quando c’era le basi per poter intervenire con incisività, e comunque ora Renzi ha già vinto la partita con i sindacati anche su articolo 18. Che ne pensa?

Renzi purtroppo per ora non ha vinto ancora la partita con i sindacati e nemmeno con la Confindustria filo/sindacale. Con la sua irruenza ha però messo in pista la questione che è assolutamente diversa però al 2001. Voglio ricordare che in quell’anno l’Unione europea registrò nel 2000 una crescita economica del 3,5% circa e sono stati creati 2,5 milioni di posti di lavoro, oltre due terzi dei quali occupati da donne. La disoccupazione è scesa al livello minimo dal 1991. Gli sforzi di riforma nell’Unione stavano dando risultati e l’allargamento poteva creare nuove opportunità di crescita e occupazione tanto nei paesi candidati quanto negli Stati membri. Da noi con Marco Biagi che lavorò all’applicazione del “Libro bianco” in un momento assai delicato per la situazione politica ed economica per il nostro Paese, per l’Europa e per il mondo intero. Il quadro di riferimento era caratterizzato, da un lato dagli obbiettivi individuati con il vertice di Lisbona che avevano fissato al 70% il tasso di occupazione per i paesi UE al 2010, dall’altro dai problemi strutturali del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da un ridotto tasso di occupazione, da un divario di genere in termini occupazionali e da squilibri territoriali. Già dall’estate del 2001, il Governo ha tentato di individuare una strategia efficace per riallineare un tasso di occupazione che, nel 2000, in Italia era ancora al 53,3% rispetto ad una media europea del 63,3%, che ancora oggi, si colloca fra le ultime posizioni.

Veniamo al dunque. Qual è la sua conclusione?

È apparso subito evidente, quanto sarebbe stato difficile sviluppare fra le parti un confronto di merito e non soltanto ideologico sulle riforme. Ciò nonostante, seppure a fatica e sacrificando alcuni non trascurabili parti del progetto originario, un primo significativo passo è stato fatto perché Biagi assassinato dalle Br il 19 maggio 2002 ci lasciò una traccia della Sua legge che fu poi promulgata nel 2003 che disegnava una prima strategia d’interventi coerenti, volti soprattutto allo sviluppo di una società attiva e di un lavoro di migliore qualità, ove le regole che presiedono all’organizzazione dei rapporti e del mercato del lavoro possono dare maggiori opportunità di occupazione e risultano più moderne e adatte alle esigenze dei lavoratori e delle imprese. Si trattava, ovviamente di un insieme di deleghe, che enunciavano i principi ispiratori dell’azione del Governo nella predisposizione dei decreti attuativi dai quali doveva risultare il quadro completo delle riforme e delle nuove regole. Il nuovo mercato del lavoro prevedeva di essere costruito premiando i soggetti che più efficacemente realizzano l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Un mercato del lavoro dinamico cioè, per cui la flessibilità non sia vissuta come la generalizzazione del precariato, ordinando con aspetti di maggiore rilevanza della normativa il collocamento e le nuove forme di rapporto di lavoro. Ecco appunto ne parliamo dal 2001: possibile balbettare ancora oggi? Troviamo l’accordo anche con le parti sociali ragionevoli e andiamo avanti anche magari uniformando il nostro diritto del lavoro alle norme comunitarie che hanno prodotto maggiore efficienza e produttività del mercato, costituiti da un mercato del lavoro flessibile, uno schema generoso di un’ampia diffusione delle politiche attive, con relazioni industriali vigorose e lavoratrici e lavoratori che accedono ai sistemi di disoccupazione e successivamente rientrano nell’attività o in un lasso di tempo molto breve o, nel più lungo periodo, dopo essere passati attraverso schemi di attivazione che ne incrementino skills e occupabilità.

Pensa davvero che abolendo l’articolo 18 aumenti l’occupazione? E le modifiche introdotte da Fornero non hanno avuto gli effetti sperati con prevedendo l’intervento del giudice per stabilire il risarcimento?

Allora, le aziende “interessate” dall’articolo 18 sono solo il 2,4% del totale, a essere tutelati da questo provvedimento sono il 57,6% dei lavoratori dipendenti occupati nel settore privato dell’industria e dei servizi. Su poco meno di 4.426.000 imprese presenti in Italia, solo 105.500 circa hanno più di 15 addetti. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, invece, su oltre 11 milioni di operai e impiegati presenti in Italia, quasi 6.507.000 lavorano alle dipendenze di aziende con più di 15 dipendenti: soglia oltre la quale si applica l’articolo 18. Ecco di cosa stiamo parlando, ma sicuramente una riforma non può non prendere in considerazione anche la maggiore possibilità delle aziende a recedere dal rapporto di lavoro con una persona che non soddisfa e risponde in termini di reciprocità.peraltro rimangono comunque ferme le tutele antidiscriminatorie .Io sono convinta che l’aumento dei posti di lavoro si ottenga privilegiando le politiche legate alla domanda, dunque rilanciamo gli investimenti, mettiamo in atto il JOBS ACT di Poletti, diamo vita ad un vero e proprio Piano di dismissione e privatizzazione statali per essere in grado di creare le condizioni per rilanciare l’occupazione e riprendere il sentiero di crescita. La Ministra Fornero ha fatto molto e in condizioni disperate ma il ricorso al giudice per il risarcimento non poteva essere la soluzione poiché il giudice risolve prima il problema reintegrando. Questa è la “delirante verità della giustizia italiana”.

Perché si invocano sempre nuove norme quando invece queste materie possono essere appannaggio delle parti sociali e delle relazioni industriali?

Il nostro Paese è conservatore e le parti sociali non studiano i processi e l’evoluzione economica e sociale e le varie soluzioni da adottare: prima di tutto dovremmo essere più attenti all’impatto di una norma su altri profili oltre a quello strettamente giuridico. Ci aiuterebbe sicuramente a contestualizzare le norme valutandone l’impatto sociale ed economico. Non è semplicemente la riforma legislativa che cambia il mondo del lavoro, ma che è necessario un cambio di mentalità, delle persone. Per questo è utile valutare anche complessi organizzativi ed economia di un paese per fare le norme e dunque le prassi informali che poi conducono a buone relazioni industriali tra le parti sociali . Ma questo balzo culturale l’Italia delle ”OOSS” ancora nostalgica della concertazione e dei rituali dei tavoloni e tavolini non è pronta economicamente e socialmente a farlo e a cambiare. Ci sono bravi maestri e maestre pronte comunque a dare una mano a settembre e anche dopo a fare da nave scuola ai giovani esploratori. La presunzione della completezza non è mai stata una buona strategia d’azione.