Ntv incontra le Banche. Si attende un nuovo ad

Ntv incontra le Banche. Si attende un nuovo ad

6 settembre 2014

Chiuso, quasi, un capitolo, come quello, pesante, di Alitalia, Intesa Sanpaolo mette mano a un’altra operazione in cui si trova coinvolta sia come creditrice  che come azionista delle medesima società. Stiamo parlando di Ntv, la società che ha aperto alla concorrenza i binari italiani ma che ora naviga in cattive acque.

Perciò il cfo Fabio Tomassini e altri manager di vertice di Ntv, hanno incontrato in questi giorni a Roma, per circa quattro ore, i rappresentanti delle principali banche creditrici: Intesa Sanpaolo, appunto, che vanta crediti per 394 milioni, Mps, a 175,7 milioni, Banco Popolare a quota 95,2 e Bnp-Bnl, a 17,8 milioni. All’incontro non erano presenti i banchieri di Lazard, la banca d’affari  incaricata di predisporre il nuovo piano industriale, in arrivo nel prossimo Cda. Dove si parlerebbe anche di un rafforzamento del management con l’arrivo, anche di un nuovo amministratore delegato.

A margine del workshop Ambrosetti il direttore generale di Intesa Sanpaolo, Gaetano Miccichè, ha detto che la sua banca  “resta in attesa nelle prossime settimane del piano industriale di Ntv che verrà presentato a cda, soci e creditori”. Al momento infatti  “non c’è nient’altro che un accordo di congelamento del debito, il tema principale è mantenere la concorrenza leale tra pubblico e privato”, ovvero con il principale concorrente Trenitalia. Che, per bocca del presidente di Fs Marcello Messori, proprio a Cernobbio, dopo tanta guerra guerreggiata, tende la mano al concorrente “malato”: “Auspico che il concorrente delle Ferrovie dello Stato nell’alta velocità possa trovare un equilibrio gestionale adeguato per poter svolgere al meglio il servizio”.

Un futuro in cui si attende che i soci sborsino altri quattrini per consentire la normale attività che dovrebbe puntare ancor più sulla rotta Torino-Roma-Salerno, mentre sarebbero in forse gli investimenti, circa 15 milioni di euro, sulla dorsale Adriatica, per mantenere una quota di mercato del 23% nei volumi e del 22,7% nei valori. Si parla di 80-100 milioni di euro, da trovare tra i soci Montezemolo, Della Valle, Punzo (al 35%), Intesa (20%), Sncf (20%), Generali (15%) e Alberto Bombassei (5)%.

è questo giova sia agli utenti dei servizi sia alle imprese nel medio termine”.

Alitalia, arrivato l’ok di Etihad. Il cda propone aumento di capitale di 300 milioni

Alitalia, arrivato l’ok di Etihad. Il cda propone aumento di capitale di 300 milioni

L’azienda apre procedura di mobilità per 2.171 dipendenti

Roma, 1 agosto 2014 – “E’ arrivata. E’ positiva”, ha affermato l’a.d. di Alitalia Gabriele Del Torchio, alla fine del cda della compagnia, sulla risposta di Etihad. “Sono contento – ha aggiunto – Ora dobbiamo fare degli approfondimenti”. Il cda di Alitalia ha proposto all’assemblea dei soci, fissata per l’8 agosto, un nuovo aumento di capitale, pari a 50 milioni di euro, che si aggiungono ai 250 milioni già varati dall’assemblea di venerdì scorso. La ricapitalizzazione arriva così a 300 milioni di euro. L’accordo Alitalia-Etihad si firma l’otto agosto. ”Ho visto la lettera – ha detto il ministro dei trasporti, Maurizio Lupi – E’ molto positiva. Mancano alcuni dettagli sui quali mettersi d’accordo. Ma è stata fissata la data per la firma: l’8 agosto. In questa settimana si lavorerà per mettere a posto gli ultimi dettagli”.

Intanto Alitalia ha aperto la procedura di mobilità (legge 223 sui licenziamenti collettivi) per 2.171 dipendenti della ex compagnia di bandiera e di Air One, come previsto dall’accordo sui 2.251 esuberi. Gli altri 80 hanno già cessato il rapporto di lavoro. Lo riferiscono fonti sindacali. Per quanto riguarda Alitalia, la procedura riguarda 1.590 addetti di terra, 126 piloti e 420 assistenti di volo. A questi bisogna aggiungere i 35 dipendenti di terra di Air One. Con la comunicazione dell’azienda ai sindacati, si apre ora il confronto in sede aziendale che dovrebbe chiudersi nel giro di pochi giorni con la firma di un verbale di mancato accordo (vista la contrarietà della Filt Cgil agli esuberi). A quel punto partirà la mediazione al ministero del Lavoro che, in base all’accordo quadro sugli esuberi, si chiuderà nel giro di 5 giorni. Dopo di allora, si apriranno due fasi: la prima coinvolgerà i lavoratori che non si opporranno alla mobilità incentivata (incentivo lordo di 10 mila euro) e i pensionabili; questa fase si concluderà il 15 settembre con l’uscita dei lavoratori. La fase successiva riguarderà coloro che non accetteranno l’esodo incentivato.

Il prestito vitalizio ipotecario cambia volto per diventare conveniente ai proprietari

Il prestito vitalizio ipotecario cambia volto per diventare conveniente ai proprietari

di 9 luglio 2014Commenti (6)

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Sino a oggi i costi e le regole di legge hanno reso improponibile sul mercato italiano l'”home equity loan” anglosassone, cioè il “mutuo inverso” grazie al quale chi possiede una casa può darla in garanzia alle banche e ottenerne un prestito. Ora però la Camera sta iniziando a discutere la proposta di legge (firmatari i deputati Marco Causi e Antonio Misiani del PD, relatore in Commissione Finanze l’onorevole Paolo Petrini del PD), costituita da un unico articolo per integrare e modificare la disciplina del prestito vitalizio ipotecario (articolo 11-quaterdecies, comma 12, del decreto – legge n. 203 del 2005). Le nuove norme, se passeranno (ma l’iter è ancora lungo), risolveranno molti dei punti critici che hanno impedito lo sviluppo anche in Italia del mercato di questi contratti. La proposta di legge si basa sulle elaborazioni condotte dai firmatari sulle richieste per superare le criticità su questo fronte presentate dall’Abi e da altre associazioni dei consumatori durante l’audizione del 13 settembre 2013 alle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera.

Cos’è e come funziona il prestito vitalizio ipotecario
È un contratto tra i proprietari di una casa con più di 65 anni e una banca o una finanziaria con il quale il proprietario ottiene un finanziamento che viene garantito dall’ipoteca iscritta sulla casa a favore della banca o finanziaria. Il finanziamento erogato è pari a una parte del valore di mercato della casa, stabilito con una perizia, e può essere speso per le esigenze dei proprietari (consumi o spese rilevanti, integrazione del proprio reddito) senza che i proprietari debbano lasciare l’abitazione. I proprietari possono decidere di chiudere quando vogliono il contratto, pagando alla banca il capitale ricevuto più gli interessi, oppure di lasciare decidere agli eredi: dopo il loro decesso, questi si troverebbero a poter scegliere se cedere la casa al finanziatore, che escuterebbe l’ipoteca, o rimborsare il prestito ottenuto, con gli interessi maturati nel periodo.

In cos’è diverso dalla nuda proprietà
Rispetto alla vendita della nuda proprietà (il proprietario vende a un terzo la proprietà della casa e si riserva l’usufrutto, cioè il diritto di abitarci, sino alla propria morte; dopodiché l’acquirente ne otterrà il possesso), il prestito vitalizio ipotecario offrirebbe al mutuatario (si tratta infatti di un “mutuo inverso”) il vantaggio di non perdere la proprietà dell’immobile e, quindi, di non impedire agli eredi di recuperare l’immobile dato in garanzia, lasciando a questi ultimi la scelta di rimborsare il credito della banca (capitale più interessi) estinguendo l’ipoteca iscritta sull’immobile all’atto della firma del prestito vitalizio.

COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

 

di Checchino Antonini, da Liberazione

 

Era il 5 febbraio del 2000, governava Massimo D’Alema, quando entrò in vigore la liberalizzazione del mercato dell’oro. Da allora i “compro oro” hanno preso a spuntare come i funghi contribuendo a ridisegnare il paesaggio metropolitano al tempo della crisi. Vendere i gioielli di famiglia non è solo la metafora della dismissione del patrimonio pubblico ma la pratica quotidiana di famiglie colpite dalla sindrome della quarta settimana – spesso della terza – di malati cronici ai quali viene negato l’accesso gratuito ai farmaci di fascia C, di malati di gioco d’azzardo, di cittadini strozzati dall’usura o imprenditori cui è negato il credito in banca. Ma è anche il luogo dell’intreccio tra queste disperazioni e il lavoro incessante dell’economia criminale per ricettare o ripulire le quantità di denaro provenienti da altri business delle cosche. Ancora meno del denaro contante, l’oro non puzza e nemmeno è tracciabile quando viene fuso.

«Non ci vuole una professionalità specifica e nemmeno una trafila burocratica complicata. Le direttive dell’Agenzia per le Entrate sono confuse ma basta una licenza ex articolo 127 del Tulps come una rivendita di preziosi usati. Non serve nemmeno la Dia, la dichiarazione al Comune di inizio attività». Una delle guide di Liberazione per questo articolo è Stefano, giovane commercialista romano di 38 anni che, con due amici di sempre, ha appena aperto un “compro oro” in un quartiere della prima periferia est della Capitale, Tor Pignattara. Quartiere popolare e sempre più mescolato di italiani, stranieri e nuovi italiani. Un mese dopo, Stefano mostra la foto sul cellulare del primo lingotto, il primo chilo ricavato dalla fusione in un “banco metalli”, il secondo passaggio della filiera per aprire il quale è necessaria, invece, una concessione governativa. Da lì l’oro viene acquistato dalle banche o prende la strada dei processi industriali. Le Banche centrali del mondo nel 2012 hanno comperato più oro di quanto abbiano fatto negli ultimi 49 anni, spinte dalla necessità di ricoprirsi alla luce della montante crisi del debito sovrano che ha colpito gli USA e l’Europa. La forte domanda ha fatto salire anche il prezzo al grammo, che oggi sfiora i 40 euro.

«L’utile non è molto alto, il 10%, ci sono commissioni fisse da pagare al banco metallo (dai 35 ai 50 cent al grammo), e la concorrenza si fa sempre più alta e agguerrita. Così il guadagno si aggira sui 2 euro e mezzo al grammo. Ma c’è offerta e si movimentano subito discrete quantità di denaro. Metti l’insegna e la gente entra subito, dipende dalla location e dalla pubblicità. Può sembrare assurdo ma ci sono clienti abituali, persone normali. Insomma non entrano fenomeni da baraccone».

Telecamere, casseforti, vetri blindati a norma, la fedina penale pulita e l’insegna ben visibile e riconoscibile. Gli ingredienti per aprire questa attività sono pochi e semplici da miscelare. Serve la padronanza minima per “grattare” l’oro, pesarlo e comprarlo in base ai due fixing quotidiani della Borsa di Londra che stabiliscono un prezzo volato dai 9 euro al grammo del 2001 ai 39,06 del giorno in cui viene scritto questo articolo. «In tempi di crisi salta il valore convenzionale delle cose e delle valute ma tutti si fidano ancora dell’oro che è ai massimi storici sebbene fluttui anch’esso».

«Arrivano ogni giorno anche signore disperate. C’è chi prova a vendere la fede del marito morto, proviamo a dissuaderla: “pensaci bene, ripassa domani” – prosegue il racconto di Stefano – la maggior parte è gente di mezz’età, molti indiani, ragazzini appena maggiorenni che vendono le catenine della comunione per comprare il motorino. E poi ci sono i tipi strani. Se qualcuno fa operazioni ricorrenti proviamo prima a fargli un prezzo sempre peggiore, per scoraggiarlo, e poi dobbiamo segnalarlo alla Banca d’Italia». Le regole impongono che il venditore abbia un documento italiano, che vengano fotografati gli oggetti e venduti solo dopo una giacenza di 10 giorni per eventuali controlli. Alcune questure chiedono di conservare le carte per dieci anni, procedura che presenta più di un dubbio rispetto alla privacy. «La prima “sòla”, sembra un luogo comune, ce l’ha data un napoletano con un anello solo placcato. Chissà se è autentico il documento che ci ha dato. Non ci spreco nemmeno il tempo di andare a sporgere denuncia». In tutta Italia i “compro oro” sono più 28.000 (poco più del 10% iscritti all’Albo degli operatori professionali) con picchi a Roma, Napoli e in Sicilia, luoghi ad alta presenza di malavita. Uno ogni 13.000 abitanti con un boom che insegue la crisi, dal 2008. Secondo la polizia, il 14% compie operazioni illegali. Un giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro all’anno per circa 400 tonnellate tra oro e argento. Più pessimista l’avvocato Ranieri Razzante presidente di AIRA, l’Associazione Italiana Responsabili Anti-riciclaggio, e consulente della Commissione Parlamentare Antimafia, «il 60% dei negozi compie azioni illecite o criminali. Ed è una stima per difetto». Un controllo solo 3.000 negozi ha scovato 113 milioni di euro non dichiarati, IVA evasa per 36,5 milioni e 31 evasori totali.

La gran parte dei compro oro lavora onestamente ma la deregulation scava ampie nicchie per il riciclaggio, la movimentazione di merce rubata, e per l’usura. Il turn over delle licenze osservato dalle questure, un terzo delle richieste, potrebbe servire proprio a sottrarsi allo sguardo di chi deve controllare. Basta un prestanome qualsiasi per aprire una “lavanderia”. Il riciclaggio è piuttosto semplice: si fa una prima operazione di compravendita regolare. Vengono trascritti per bene i dati sull’oggetto e il venditore sul registro obbligatorio vidimato dalla questura, poi con lo stesso documento si registrano decine di operazioni fittizie spesso a prezzi fuori mercato. Risulterà che l’ignaro primo venditore (ma può essere anche un morto, un nome inesistente o che non ha mai venduto nulla) ha portato in un mese alcuni chili d’oro. Gioielli mai esistiti ma che saranno contabilizzati dal titolare così da giustificare il denaro liquido in cassa quale frutto della fusione e della rivendita di oggetti mai arrivati e mai venduti. Soldi sporchi che all’improvviso ritornano in mano alle mafie immacolati e regolari, senza puzzare di racket.

Ogni anno in un singolo negozio girano in media 350.000 euro all’anno. Un dato considerato credibile dal “nostro” Stefano. Secondo la polizia dove apre un “compro oro” di solito si verificano aumenti di furti e rapine. A vederla da Bari, l’Osservatorio sulla legalità ha calcolato che, nel 2011, furti, scippi e rapine sono aumentati del 70% nelle zone ad alta concentrazione di “compro oro”. L’associazione SOS Racket e Usura ha filmato la facilità del riciclaggio, in vari negozi e con molta facilità, uno dei suoi attivisti è riuscito a vendere senza esibire la carta d’identità.

Ma i “compro oro” hanno eroso uno spazio tradizionalmente appannaggio del “monte”, come lo chiamano a Roma, il Monte di Pietà. Un impresario del settore è stato scoperto a Roma con 20 chili d’oro e 10 d’argento in cassaforte per un valore di 800.000 euro. Tra gli oggetti sequestrati anche gioielli che riceveva in pegno da persone in difficoltà economica e che rivendeva loro con un incremento del 20% del prezzo. Ce lo dice Italo Santarelli, attivo col CEIRP da 19 anni nella lotta contro l’usura. Racconta di come la stretta creditizia consegni famiglie e piccoli imprenditori nelle fauci del credito illegale, i “cravattari”. Chi ha bisogno di denaro liquido in tempi brevissimi e senza troppe domande si rivolge ai compro oro abusivi. Una funzione, quella tipica dei monti di pietà, vietata per legge ai privati.

 

In Parlamento giacciono da tempo nel cassetto due progetti di legge che vorrebbero far emergere dalla deregulation (ad esempio con l’obbligo di inviare entro 24 ore alla Questura ogni informazione sugli oggetti e un borsino dell’oro usato) un settore dove non tutto quello che luccica, è oro.

Fondi pensione, da inizio 2013 i mercati premiano i previdenti

Fondi pensione, da inizio 2013 i mercati premiano i previdenti

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Argomenti: Previdenza complementare | Milano Assicurazioni | Borsa Valori

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Fondi pensione, da inizio 2013 i mercati premiano i prudenti - Tutto sulla previdenza integrativa

Osservare i rendimenti dei fondi pensione di uno o due trimestri è un po’ come il calcio d’agosto: conta davvero poco ai fini del risultato finale delle grandi competizioni di stagione. Eppure possono fornire indicazioni utili di periodo per, se è il caso, aggiustare il tiro sul percorso di lungo termine. Le prime indicazioni che arrivano sulle performance dei fondi pensione da inizio 2013 registrano un rendimento medio dell’1,6% mentre tra i fondi di categoria si stima una crescita vicina all’1,4%, leggermente sopra le stime sul tasso di rivalutazione del Tfr, vicino all’1,3%. Ma al di là delle media è interessante notare quali comparti sono andati meglio in questo breve periodo.

Il rischio batte la prudenza 
L’andamento dei mercati finanziari ha premiato soprattutto le linee azionarie, cresciute tra gli aperti del 4,9% con punte del 9,5% per Arca, davanti a UniCredit (+9,2%); ci sono anche risultati meno soddisfacenti in questa sezione con i +0,6% di Fondiaria e Milano Assicurazioni. Complessivamente un risultato confortante, quello ottenuto dai gestori dei fondi pensione, visto che include la sensibile frenata del mercato azionario internazionale registrata a fine giugno. I comparti più prudenti dei fondi pensione aperti hanno fatto registrare andamenti molto più piatti, con la maggioranza in territorio negativo: in testa c’è Arca con il +1,3% mentre in coda troviamo Toro con -1,74%. Segno che la “prudenza” ha pagato poco o, per meglio dire, l’andamento del mercato obbligazionario è stato meno positivo almeno rispetto allo scorso anno, quando il rally dei titoli di Stato europei – italiani in particolare – si è tradotto in rialzi a doppia cifra per i fondi pensione che nei BTp, in particolare, investono una porzione considerevole del proprio portafoglio.

 
 

Il medio termine e il “money weighted” 
Più sfaccettati i risultati a medio termine: se a uno e tre anni i fondi pensione aperti registrano rendimenti medi superiori rispettivamente al 7 e all’11%, a partire dal 2007 le performance sono ancor più a macchia di leopardo: l’esplosione della crisi ha messo a dura prova le gestioni, sia quelle a maggior componente azionaria che quelle più esposte ai bond, con un rendimento medio che si attesta in ogni caso vicino a un +11%. Da segnalare tuttavia che queste performance sono analizzate secondo il criterio del “time weighted“, basato cioè sulla differenza nel tempo dei valori quota del fondo. Se invece si utilizza la modalità “money weighted” i risultati sono differenti: confrontando quanto versato periodicamente con quanto ammonta il saldo complessivo di periodo, chi ha destinato Tfr e contributi volontari alla previdenza complementare ottiene un rendimento ben superiore, analogamente a quanto accade in un piano di accumulo di capitale (Pac). Solo nel 2008 il confronto sarebbe stato premiante la rivalutazione del trattamente di fine rapporto rispetto alla performance dei fondi pensione, mentre in ogni altra fase le pensioni di scorta hanno ottenuto risultati superiori di chi ha versato il proprio Tfr allo Stato (se attivo in aziende con almeno 50 addetti) o al proprio datore di lavoro. Da ricordare che se si destina oltre al Tfr un contributo volontario anche minimo, il datore di lavoro versa periodicamente nella sua posizione una quota definita dal contratto nazionale di lavoro, mediamente l’1,5%.

I big dei negoziali 
Il trend positivo di questa prima metà del 2013 è confermato anche dai primi risultati relativi ai fondi pensione di categoria più importanti: per Fonchim (chimici) il comparto bilanciato Stabilità, cui sono iscritti oltre 135mila lavoratori, da inizio anno si registra un +1,33%; il comparto Crescita, con una componente azionaria maggiore, sale del 3,6% mentre il Garantito è invariato. Risultati positivi anche per Cometa (metalmeccanici) il comparto Monetario Plus, cui sono iscritti 180mila “previdenti”, sale dello 0,5% mentre il Reddito – 170mila iscritti – segna un +0,15%; meglio le altre due linee: il comparto garantito Sicurezza sale dell’1,3% mentre il Crescita – dove le azioni possono raggiungere la metà del portafoglio – registra un +2,4%. Da ricordare che azioni e obbligazioni governative europee sono gli ingredienti quasi esclusivi del portafoglio degli strumenti previdenziali di secondo pilastro. Una revisione dei criteri e limiti di investimenti è alle porte: prossimamente i fondi pensione potranno investire entro limiti determinati anche in paesi emergenti, in fondi coperti (hedge) e in strumenti immobiliari. L’obiettivo di rendere più ampio l'”universo investibile” è quello di diversificare meglio i portafogli, riducendo di conseguenza il rischio e rendendo le gestioni più stabili.

Scandalo Ior, rivoluzione-Bergoglio: dimessi direttore generale e vice. Gotti Tedeschi verso l’archiviazione

Scandalo Ior, rivoluzione-Bergoglio: dimessi direttore generale e vice. Gotti Tedeschi verso l’archiviazione

Il direttore generale dello Ior Paolo Cipriani e il suo vice Massimo Tulli hanno rassegnato le dimissioni, accettate dalla Commissione dei cardinali e dal board di sovrintendenza. Le funzioni di dg dell’Istituto sono state assunte ‘ad interim’ dal presidente Ernst von Freyberg. Lo rende noto la sala stampa vaticana.”Dopo molti anni di servizio ambedue hanno deciso che questo atto sarebbe stato nel migliore interesse dell’Istituto stesso e della Santa Sede”. Così il comunicato della sala stampa vaticana riferisce delle dimissioni del direttore delle Ior, Cipriani, e del vice direttore Tulli.
Il Consiglio di sovrintendenza e la Commissione dei Cardinali hanno accettato le loro dimissioni e hanno chiesto al Presidente Ernst von Freyberg di assumere ‘ad interim’ le funzioni di Direttore generale con effetto immediato. L’Autorità di Informazione Finanziaria è stata informata. La Commissione speciale sullo Ior, nominata il 26 giugno scorso da papa Francesco, “ha preso atto di questa decisione”.
Ernst von Freyberg sarà coadiuvato da Rolando Marranci in qualità di Vice-Direttore e da Antonio Montaresi nella nuova posizione di Chief Risk Officer con la responsabilità di compliance e progetti speciali. Rolando Marranci è stato Chief Operating Officer presso una nota banca italiana a Londra. Antonio Montaresi ha operato come Chief Risk Officer e Chief Compliance Officer presso varie banche negli Stati Uniti. “A nome del Consiglio di Sovrintendenza ringrazio il Sig. Cipriani e il Sig. Tulli per la dedizione personale manifestata nel corso degli anni”, ha dichiarato il Presidente Ernst von Freyberg.
La soddisfazione del il Presidente Ernst von Freyberg – “Sono lieto della nomina di Rolando Marranci e Antonio Montaresi in quanto eccellenti professionisti”, ha aggiunto. “Dal 2010 lo IOR e la sua Direzione hanno lavorato seriamente per portare le strutture e i procedimenti in linea con gli standard internazionali di lotta al riciclaggio di denaro. Sebbene siamo grati per i risultati conseguiti, oggi è chiaro che abbiamo bisogno di una nuova direzione per accelerare il ritmo di questo processo di trasformazione. I progressi fatti sono in gran parte dovuti al sostegno continuo degli organismi di governo dell’Istituto e del suo personale”.
Il Consiglio di Sovrintendenza ha già avviato un procedimento di selezione al fine di nominare un nuovo Direttore Generale e un Vice Direttore nel prossimo futuro. Nel maggio scorso, il Promontory Financial Group, guidato da Elizabeth McCaul e Raffaele Cosimo, è stato incaricato dal presidente Von Freyberg di “potenziare il programma antiriciclaggio dell’Istituto in sette flussi di lavoro, conducendo una forensic review e il controllo dei rapporti con i clienti”. Von Freyberg ha inoltre chiesto a Elizabeth McCaul e a Raffaele Cosimo di fungere da Senior Advisors “per la gestione dell’Istituto, data la loro grande competenza ed esperienza”.
Verso la richiesta di archiviazione per Gotti Tedeschi – Intanto per la vicenda della movimentazione di 23 milioni di euro dello Ior depositati su un conto aperto presso il Credito Artigiano, operazioni ritenute sospette dalla procura di Roma, si prospetta una richiesta di archiviazione per l’ex presidente Ettore Gotti Tedeschi. A rischio richiesta di rinvio a giudizio sono invece proprio Paolo Cipriani e Massimo Tulli. La procura di Roma, dopo tre anni di indagini, ha concluso l’inchiesta per violazione delle norme antiriciclaggio e, a giorni, notificherà il relativo avviso a Cipriani e Tulli. Si tratta della procedura, prevista dall’articolo 415 bis del codice di procedura penale, che anticipa la richiesta di rinvio a giudizio. A Cipriani e Tulli, in sostanza, si contesta di aver avallato operazioni finanziarie illecite. Per la procura lo Ior avrebbe infatti violato gli obblighi previsti dalle norme antiriciclaggio quando ha chiesto al Credito Artigiano di trasferire i 23 milioni di euro alla tedesca J.P. Morgan Frankfurt (20 milioni) ed alla Banca del Fucino (tre milioni). Non sarebbero invece emerse responsabiità da parte di Gotti Tedeschi, il quale, come figura di vertice dell’istituto di credito, non si sarebbe occupato di conti. Quella dei 23 milioni, sequestrati su iniziativa del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Stefano Rocco Fava nel settembre 2010, è considerata l'”inchiesta madre” delle operazioni sospette che hanno coinvolto lo Ior.

IL BUSINESS DELL’INSOLVENZA E LO SCHIAVISMO PER DEBITI APPLICATI AGLI STUDENTI

IL BUSINESS DELL’INSOLVENZA E LO SCHIAVISMO PER DEBITI APPLICATI AGLI STUDENTI

 

di comidad

 

Una notizia del marzo scorso, mai arrivata in Italia, riguardava la decisione del presidente Obama di tagliare gli incentivi delle compagnie private di recupero crediti incaricate della riscossione presso gli studenti “beneficiari” di prestiti federali per potersi pagare l’istruzione universitaria. In tal modo si spera che le compagnie di recupero crediti siano un po’ meno motivate a dare la caccia agli studenti insolventi, concedendo loro un po’ di respiro.

Forse sarebbe stata una buona occasione per i media nostrani di dimostrarci la “bontà” di Obama, ma, nel darci la notizia, il rischio sarebbe stato anche quello di farci sapere che il business dell’insolvenza studentesca frutta alle compagnie private di recupero crediti circa un miliardo di dollari l’anno, e che intere generazioni di studenti americani non hanno davanti alcuna prospettiva di liberarsi definitivamente della schiavitù dei debiti. Le compagnie di recupero crediti hanno l’alibi di andare a recuperare denaro federale, cioè soldi dei contribuenti, ma in effetti, appaltando il business dell’insolvenza, il governo federale non fa altro che trasferire soldi pubblici ad affaristi privati.

Già dallo scorso anno su organi d’informazione italiani specializzati nel settore universitario, circolava la notizia del dramma dell’insolvenza studentesca negli USA, e ciò costituiva un argomento per invitare a soprassedere alle proposte di “prestito d’onore” per studenti, di cui si era fatto sostenitore Pietro Ichino, allora senatore del PD, ma tuttora lobbista della finanza a tempo pieno.

In realtà è un po’ tardi per soprassedere, dato che ormai in Italia il business dei prestiti agli studenti va a pieno regime, e se ne occupano tutti i maggiori istituti bancari. Unicredit è una delle banche più impegnate nel conferire agli studenti universitari l’onore di indebitarsi a vita, con una vasta gamma di prodotti finanziari per l’istruzione.

Le possibilità per gli studenti di sfuggire all’insolvenza sono scarsissime, perché manca la possibilità di accedere a lavori remunerativi e le famiglie di origine sono sempre più in difficoltà economica, perciò sono state già poste le basi per determinare anche in Italia un dramma dell’insolvenza. Ma non c’è da temere, poiché il gruppo Unicredit ha tra le sue compagnie una specializzata nel recupero crediti, cioè la Credit Management Bank.

Per gli istituti di credito l’insolvenza non è un malaugurato incidente, ma addirittura un auspicio, poiché consente di far lievitare negli anni dei piccoli crediti a cifre astronomiche, vincolando i malcapitati per il resto della loro vita. Il caso della Grecia ha dimostrato che l’insolvenza, vera o presunta, di uno Stato consente alle organizzazioni internazionali di applicare la categoria di schiavismo persino ad intere nazioni.

La schiavitù per debiti ha in lingua inglese un’espressione diventata ormai familiare per milioni di persone: “debt bondage”. Negli Stati Uniti il recupero crediti è infatti uno dei maggiori business, che riguarda anche grandi gruppi bancari.

In California il colosso bancario JP Morgan dal mese scorso sta avendo qualche piccola noia giudiziaria per i suoi metodi criminali nel recupero crediti. Il procuratore generale della California si è deciso a prendere in considerazione le numerose e circostanziate denunce dei consumatori, ma purtroppo l’esperienza passata mostra che gli strumenti giudiziari hanno il fiato corto contro un lobbying finanziario così ramificato e ben attrezzato.

Come già ricordato, il lobbying finanziario è in frenetica attività anche in Italia, dato che l’indebitamento studentesco costituisce uno dei maggiori business in prospettiva. Pietro Ichino si è ispirato al principio che quanto più l’affare è sordido, tanto più devono sembrare altisonanti le motivazioni etiche invocate per giustificarlo; ed ovviamente non poteva mancare lo slogan della “meritocrazia”.

Peccato che a smentire la mitologia meritocratica provveda lo stesso Ichino, il quale si rivela con le sue proposte un pedissequo plagiario della propaganda del Fondo Monetario Internazionale, come dimostra un articolo a firma di Nicholas Barr, dedicato alle mirabolanti virtù dell’indebitamento studentesco, e pubblicato nel 2005 su “Finance e Development”, rivista trimestrale del FMI.

Ma la maggiore agenzia di lobbying è proprio il governo. La recente segnalazione del generale Fabio Mini ha nuovamente posto in evidenza lo storico intreccio d’affari tra il Ministero della Difesa e Finmeccanica, ma questo ruolo di lobbying del governo non si limita affatto alla vendita di armi.

 

A riconferma di un lobbying governativo in ambito finanziario, lo scorso aprile è stato formalizzato l’accordo tra il Ministero dell’Istruzione e BancoPosta per attivare dal prossimo settembre la carta elettronica “IoStudio” per gli studenti della scuola superiore di secondo grado, quindi a partire dai 14 anni di età. Questa carta può diventare un vero e proprio strumento di “servizi” finanziari, anche se per ora è solo una card prepagata; ma un domani chissà. Quel che è certo è che l’arrivo di questa card determinerà una sempre maggiore confidenza dei ragazzi con i servizi finanziari, cioè quel senso di infondata autostima che è alla base di scelte irreparabili come indebitarsi.

L’EURO SOSTITUITO DAL DOLLARO?

L’EURO SOSTITUITO DAL DOLLARO?

 

di comidad

 

L’anno diplomatico 2013 ha visto come primo significativo evento il comunicato congiunto di Washington e Bruxelles del 13 febbraio sul comune proposito di avviare dei negoziati per dar vita al TTIP, cioè ad una partnership per il commercio transatlantico e per gli investimenti. Si tratterebbe di una vera e propria unione finanziaria e commerciale delle due sponde dell’Atlantico.

Il comunicato congiunto però non ha avuto alcuna risonanza sui media ufficiali, anzi sembrerebbe che ci sia stata una vera e propria congiura del silenzio. Ha fatto parzialissima eccezione la testata online Wall Street Italia; ma il fatto davvero strano è che una testata specializzata in notizie economico-finanziarie per procurarsi del materiale a riguardo abbia dovuto far ricorso al rilancio di un articolo di Michel Collon, che era stato tradotto e pubblicato su un sito di opposizione, ComeDonChisciotte. L’articolo di Collon metteva in guardia contro la prospettiva di una “NATO economica” che comporterebbe la nascita di un governo mondiale svincolato da qualsiasi controllo.

L’espressione “NATO economica” per definire questo partenariato commerciale-finanziario a livello transatlantico, non è affatto arbitraria, poiché è la stessa che viene usata nel dibattito interno al Consiglio Atlantico, l’organo supremo della NATO.

Il 12 marzo scorso la Commissione Europea ha deciso di chiedere luce verde agli Stati membri per condurre in porto le trattative con gli USA. In realtà le trattative erano state avviate da tempo, in quanto sul sito della stessa Commissione Europea risulta già una dovizia di studi di fattibilità e di possibili protocolli di intesa. Allo scopo di rassicurare i possibili perplessi, la Commissione fa anche sapere che il contenzioso attuale tra Europa ed USA non riguarda più del 2% del totale degli scambi commerciali.

Sempre dal sito dell’Unione Europea, si viene inoltre a sapere che un Consiglio economico transatlantico, incaricato di porre le condizioni di un vero partenariato, era già stato costituito nel 2007, cioè ben un anno prima dello scoppio della bolla speculativa che ha aperto la strada alla crisi finanziaria ed all’attuale depressione economica. Le firme in calce al documento costitutivo, che porta la data del 30 aprile 2007, sono quelle dell’allora presidente USA, George W. Bush, dell’allora presidente del Consiglio Europeo, Angela Merkel, e del presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso.

Non si può quindi inquadrare la “NATO economica” come una risposta della presidenza Obama all’attuale crisi economico-finanziaria. Visti i tempi lunghi che hanno preparato il TTIP, sembrerebbe infatti che la prospettiva di un’unione commerciale e finanziaria tra le due sponde dell’Atlantico, in realtà sia lo sbocco preordinato di un’emergenza economica artificiosa. Infatti soltanto una gravissima depressione economica potrebbe essere in grado di giustificare un passaggio epocale di questa portata, e di superare le resistenze sociali a quella che si configura sfacciatamente come una totale annessione coloniale dell’Europa ai dettami commerciali e finanziari di Washington.

Alla luce di questo documento del 2007, anche l’ormai proverbiale ottusità della Merkel e di Barroso potrebbe essere riletta come pedissequa obbedienza alle direttive di Washington. Quindi, anche questo trascinare oltre i limiti di ogni buon senso l’ormai irreversibile crisi dell’euro, potrebbe trovare come provvidenziale soluzione tutt’altro che un ritorno alle valute nazionali, bensì un’adozione del dollaro come moneta unica europea. A riconferma del nuovo ruolo imperialistico che svolgono le fondazioni private, sul sito del Consiglio Atlantico si sottolinea il contributo fornito nell’operazione TTIP da una fondazione privata come la Bertelsmann Foundation. Che il Consiglio Atlantico e la Bertelsmann Foundation agiscano in un rapporto pressoché alla pari è una cosa che dovrebbe far riflettere.

Le notizie ufficiali su questa fondazione privata ce la presentano come una creatura dell’editore tedesco Reinhard Mohn; manco a dirlo, uno di quelli entrati varie volte nella lista degli uomini più ricchi del mondo. La fondazione agisce su un piano internazionale, con sedi a Berlino, Bruxelles e Washington. Il Dizionario di Economia e Finanza dell’Enciclopedia Treccani si sofferma sul ruolo della fondazione nei progetti di politica estera.

L’azione svolta dalla Bertelsmann Foundation a favore della conservazione della moneta unica europea, conferma che il calice dell’euro debba essere bevuto sino alla feccia, in modo da consentire un aggravarsi dell’emergenza economica, tale da giustificare soluzioni drastiche che oggi potrebbero apparire del tutto impensabili per l’opinione pubblica. Sul sito della stessa fondazione si trovano le notizie su questa sua opera di “persuasione”.

La Bertelsmann Foundation ci fa sapere anche di aver ottenuto nel 2010 un generoso finanziamento (definito, con incredibile faccia tosta, una “borsa di studio”!) dalla Rockefeller Foundation per attuare i propri progetti di politica internazionale. Questa informazione è utile sia per sapere chi ci sia davvero dietro la Bertelsmann Foundation e dietro il TTIP, sia per capire che fine facciano le grandi quantità di denaro maneggiate da queste fondazioni no profit.

Il “mercato” è soltanto uno slogan, il “capitalismo” è un’astrazione analitica, mentre il crimine affaristico è un dato di fatto. In nome dell’assistenzialismo per ricchi, le fondazioni private infatti si finanziano l’una con l’altra, attuando così riciclaggi finanziari e investimenti che sono del tutto esenti da tasse. Rockefeller ha finanziato la fondazione della famiglia Mohn; ma, dato che chi è generoso viene premiato, un’altra delle fondazioni di Rockefeller, la Philanthropy Advisors, ha ricevuto a sua volta un ricco premio in denaro dalla Bill & Melinda Gates Foundation, come riconoscimento per un suo progetto.

 

Le fondazioni private assorbono così molte delle funzioni affaristiche del sistema bancario, sotto l’ombrello di nuovi privilegi. Un articolo del “Washington Post” dell’aprile del 2005 avvertiva che il no profit stava diventando la nuova frontiera dell’evasione fiscale. L’articolo riferiva di un’allarmata lettera del capo dell’Agenzia delle Entrate statunitense di allora, Mark W. Everson, che invocava dal governo misure per contrastare la gigantesca evasione fiscale che si verificava, già a quei tempi, all’ombra del no profit delle fondazioni private. Non risulta che queste misure invocate da Everson siano mai arrivate; anzi, a distanza di otto anni, non si vede quale funzionario governativo possa essere in grado di alzare la voce contro fondazioni private che gestiscono più potere e denaro di un ministero. Alla fiaba del dittatore pazzo, corrisponde la fiaba del miliardario filantropo, alibi mitologico di un potere sovranazionale del tutto incontrollato. Mentre i dittatori pazzi come Assad, Ahmadinejad e Kim Jong-un minacciano il mondo, i miliardari filantropi alla Rockefeller, alla Soros ed alla Gates lo proteggono, come Batman.

UNA BANCA SARÀ IL CEMENTO DEI BRICS. UN’ALTERNATIVA FINANZIARIA AL DOLLARO E ALL’EURO

UNA BANCA SARÀ IL CEMENTO DEI BRICS. UN’ALTERNATIVA FINANZIARIA AL DOLLARO E ALL’EURO

 

di Roberto Bissio

 

Fonte: www.rebelion.org

Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=164975&titular=un-banco-ser%E1-el-cemento-de-los-brics-

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Diana Garrido

 

La creazione di una banca di sviluppo, con un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari, sarà il tema principale della riunione vertice dei BRICS che avrà luogo a Durban, in Sudafrica, dal 25 al 27 marzo. “BRIC”, che in inglese ha un suono simile a “mattone”, è l’acronimo coniato nel 2001 da Jim O’Neill, analista della Goldman Sachs, per denominare il gruppo di Paesi comprendenti il Brasile, la Russia, l’India e la Cina: quattro grandi potenze non appartenenti al club dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) la cui sede si trova a Parigi.

Inizialmente le riunioni di questi Paesi sono state svolte con la presenza dei ministri e, successivamente, sono stati coinvolti i capi di Stato degli stessi, a partire dalla crisi finanziaria esplosa a Wall Street nel 2008. Il Sudafrica è entrato a far parte dei BRICS durante gli ultimi incontri, dando all’organizzazione il nome di BRICS oppure BRIC-5 lasciando aperta la possibilità di un futuro BRIC-9 al quale si potrebbero aggregare altri paesi emergenti con alto tasso di popolazione come il Messico, l’Indonesia, la Nigeria o la Turchia.

Dal primo vertice, nel 2009, i BRICS hanno richiesto profonde riforme alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale chiedendo un maggior peso nella gestione dell’economia mondiale. I BRICS hanno una popolazione pari a 3 miliardi di abitanti e l’economia complessivamente arriva ad un ammontare di 15.000 miliardi di dollari annui, in pratica l’equivalente del prodotto degli USA; tuttavia, questi ultimi possiedono il 17% dei voti all’interno del FMI e, di conseguenza, hanno il potere di veto, dato che tutte le decisioni importanti richiedono l’85% dei voti, mentre il totale dei voti BRICS non arriva al 12%.

Secondo l’imprenditore Sandile Zungu, segretario del Consiglio Nero degli Affari in Sudafrica, nelle dichiarazioni rese all’agenzia Inter Press Service (IPS), oltre alle prese di posizione, afferma che la nuova banca BRICS “sarà il cemento dello spirito di cooperazione” del gruppo e per questo motivo “avrà una base istituzionale tangibile”.

Questo spirito di cooperazione dovrà manifestarsi al momento di prendere due decisioni di gran valore simbolico: la scelta della sede e la moneta con la quale si realizzeranno le operazioni. Sebbene gli apporti iniziali dei Paesi membri siano uguali, l’economia cinese è la più forte rispetto a quella complessiva degli altri quattro Paesi ed è prevedibile che questo fatto abbia maggiore incidenza in entrambe le decisioni. C’è chi sostiene che con molta probabilità la sede potrebbe stabilirsi a Shanghai e che le operazioni economiche potrebbero essere contabilizzate in moneta cinese (renminbi) e non in dollari. La Cina, in questo modo, avanza delle pretese verso la conversione della sua moneta come strumento di riserva monetaria internazionale, come attualmente lo sono il dollaro, l’euro, lo yen, le sterline e i franchi svizzeri.

Oltre ai 10 miliardi di dollari iniziali in forma di contribuzione da parte di ogni Paese membro, la banca BRICS cercherà di attrarre capitali da altre fonti ed i suoi capitali saranno destinati a finanziare il commercio all’interno dei BRICS nonché a finanziare opere di infrastruttura nei Paesi in via di sviluppo.

“Le esigenze dell’economia globale sono così considerevoli”, afferma Kaushik Basu, capo-assessore del ministero indiano delle Finanze, “che la nuova banca dello sviluppo non toglie nulla alla Banca Mondiale, alle banche regionali di sviluppo o alle singole banche dei Paesi membri del gruppo BRICS, come ad esempio il BNDES del Brasile”.

La Banca Mondiale ha stimato che la differenza tra il finanziamento di cui ha bisogno l’Africa e il denaro attualmente disponibile è pari a 90 miliardi di dollari l’anno. L’economista Hannah Edinger, capo ricercatrice del gruppo di consulenti “Frontier Advisory”, ha stimato che gli stessi BRICS necessiteranno di 15.000 miliardi di dollari per investimenti in infrastrutture nei prossimi vent’anni.

Però Windsor Chan, vicepresidente della China Construction Bank di Johannesburg, si è dimostrato meno cauto nella conferenza stampa in Sudafrica: a suo parere la Banca BRICS costituirà un’alternativa finanziaria ai Paesi non occidentali escludendo le agende politico-economiche che ostacolano il loro sviluppo economico”.

Una delle aree nella quale questa indipendenza dalle fonti finanziarie tradizionali può manifestare un’enorme differenza è l’area dell’energia nucleare. Cinquanta dei sessantasei reattori nucleari in costruzione si trovano nei paesi del gruppo BRICS, sostiene Anthony Butter, professore di scienze politiche dell’Università di Città del Capo.

E dopo gli ultimi disastri avvenuti nelle centrali atomiche, le assicurazioni non ne vogliono sapere di grandi e incontrollabili operazioni di denaro e le banche private non sono disposte a rischiare la pelle in questo tipo di imprese.

La centrale nucleare di Kudankulam in India, spiega Butter, è stata costruita utilizzando la tecnologia russa seguendo un modello di finanziamento diverso. Mosca ha concesso un “prestito in valuta debole” a lunga scadenza e con un tasso d’interesse basso e invariabile; inoltre, ha assunto i rischi del progetto. Conseguentemente il governo indiano non è stato costretto ad offrire garanzie statali. La banca BRICS sarebbe il canale perfetto per sviluppare questo modello di finanziamenti tra governi alla cui base si trovano le aziende statali.

La nuova banca si colloca agli antipodi dall’Accordo dell’Associazione Trans-Pacifico (TPP) proposto dal presidente Barack Obama, in uno dei suoi punti più polemici il TPP vuole limitare, precisamente, le grandi aziende statali del settore energetico (nucleare e petrolifero), le stesse che la banca BRICS intende rafforzare.

BANCHIERI GANGSTER: TROPPO GRANDI PER LA GALERA

BANCHIERI GANGSTER: TROPPO GRANDI PER LA GALERA

 

di Matt Taibbi

 

Fonte: www.rollingstone.com

Link: http:///www.rollingstone.com/politics/news/gangster-bankers-too-big-to-jail-20130214

Traduzione per www.Comedonchisciotte.org a cura di Ale El Tanguero

 

L’accordo è stato annunciato in sordina, appena prima delle vacanze, quasi come se il governo sperasse che la gente fosse troppo impegnata ad attaccare calze sul camino per farci caso. Scioccando politici, avvocati e inquirenti di tutto il mondo, il Dipartimento di Giustizia americano ha concesso mano libera ai dirigenti della banca inglese HSBC per il caso di riciclaggio di denaro di trafficanti di droga e terroristi più grande di sempre. Sì, ha irrogato una multa di 1.9 miliardi di dollari, equivalente ai profitti di circa cinque settimane, eppure non si è riuscito ad strappare nemmeno un dollaro o un giorno di galera ad alcuno, nonostante un decennio di abusi stupefacenti.

Le persone potranno essere sdegnosamente stufe di Wall Street, così come le storie di miliardari rapaci che se la passano liscia con i loro furti spesso smettono di stupire. Ma il caso della HSBC è andato ben oltre il solito genere di crimine da colletto bianco burocrate, normalmente associato a Wall Street. In questo caso, la banca l’ha fatta franca con l’omicidio, nel senso di agevolarlo, ad ogni modo.

Per almeno un lustro, il mitico potere bancario di matrice colonial britannica ha aiutato a riciclare centinaia di milioni di dollari per persone legate al narcotraffico, tra cui il cartello messicano di Sinaloa, sospettato di decine di migliaia di assassini solo nei dieci anni passati, gente talmente cattiva, scherza l’ex avvocato generale di New York Eliot Spitzer, “da far sembrare brava gente quelli che frequentano Wall Street”. La banca ha peraltro movimentato denaro per organizzazioni legate ad Al Qaeda e agli Hezbollah, così come per gangsters russi; ha aiutato Paesi come l’Iran, il Sudan e la Corea del Nord ad evadere le sanzioni; e, oltre a favorire criminali, terroristi e Stati canaglia, ha aiutato una moltitudine di comuni evasori fiscali a tenere nascosto il proprio denaro.

“Hanno violato ogni legge possibile”, dichiara Jack Blum, avvocato ed ex investigatore per il Senato, autore negli anni ‘70 di un’indagine su un considerevole scandalo di corruzione riguardante la Lockheed, in seguito alla quale venne approvato il Foreign Corrupt Practices Act. “Hanno dato vita ad ogni tipo di affare illecito immaginabile”.

Che nessuno della banca sia finito in galera o abbia pagato un dollaro di multa non è una novità in questi tempi di crisi finanziaria. Ciò che è differente in questo accordo è che per la prima volta il Dipartimento di Giustizia ha ammesso i motivi per cui ha deciso la linea morbida con questo particolare tipo di criminale. C’era la preoccupazione che niente più di una bacchettata sulla mano avrebbe potuto mettere a rischio l’economia mondiale. “Ove le autorità americane avessero deciso di incriminare la banca”, ha dichiarato il vice avvocato generale Lanny Breuer in una conferenza stampa per annunciare l’accordo, “la HSBC avrebbe certamente perso l’autorizzazione a svolgere attività bancaria negli Stati Uniti, il futuro dell’istituzione stessa sarebbe stato minacciato e l’intero sistema bancario sarebbe stato destabilizzato”.

Ecco l’alba di una nuova era. Negli anni immediatamente successivi all’11 settembre, anche solo finire sulla bocca di un terrorista sospetto avrebbe potuto costarti una detenzione extralegale per il resto dei tuoi giorni. Ma ora, se sei Troppo Grande per la Galera, puoi confessare di riciclare i soldi di un terrorista e violare il Trading With the Enemy Act, e non solo non sarai processato per questo, anzi il governo farà di tutto per far sì che tu non perda la tua autorizzazione. Qualcuno a Washington mi ha detto: Va bene, fine, niente galera, ma possibile che non possano nemmeno revocare la loro concessione? Stiamo scherzando?

Ma il Dipartimento di Giustizia non aveva finito coi regali di Natale. Più o meno una settimana dopo, Breuer era di nuovo davanti alla stampa, concedendo un comodo accordo a un’altra grande azienda internazionale, la banca svizzera UBS, la quale aveva appunto ammesso di aver svolto un ruolo chiave probabilmente nel più grande caso di antitrust/fissazione dei prezzi della storia, il cosiddetto scandalo del LIBOR, una enorme cospirazione legata alla manipolazione dei tassi di interesse riguardante centinaia di trilioni (centinaia di migliaia di miliardi) di dollari in prodotti finanziari. Mentre due protagonisti minori sono stati incriminati, Breuer e il Dipartimento di Giustizia si mostravano preoccupati per la stabilità globale mentre spiegavano perché nessuna accusa è stata formalizzata nei confronti della società madre.

“Il nostro obiettivo qui” ha detto Breuer “è di non distruggere un’importante istituzione finanziaria”.

Un cronista faceva notare a Breuer che la UBS era già stata coinvolta nel 2009 in un grave caso di evasione fiscale, ponendogli un’acuta domanda: “Questa è una banca che già ha infranto la legge in passato, perché dunque non essere più severi?”.

“Non so cosa significhi essere più severi”, così rispondeva il vice avvocato generale.

Anche nota come la Hong Kong and Shanghai Banking Corporation, HSBC è già stata associata a casi di droga. Fondata nel 1865, HSBC divenne un’importante banca commerciale nella Cina coloniale dopo la conclusione della seconda guerra dell’oppio. Se siete arrugginiti sulla storia delle innumerevoli guerre di stupro imperiale condotte dalla Gran Bretagna, la seconda guerra dell’Oppio fu quella in cui la Gran Bretagna assieme ad altre potenze europee in sostanza massacrarono un sacco di cinesi finché questi non accettarono di legalizzare il commercio dell’oppio (più o meno lo stesso fecero nella prima guerra dell’Oppio, conclusasi nel 1842).

Un secolo e mezzo dopo, pare che le cose non siano cambiate granché. Con la sua massiccia presenza in molti degli ex territori coloniali in Asia e Africa, e la sua ricca storia di flessibilità morale interculturale, HSBC vanta un’impronta internazionale decisamente differente rispetto ad altre banche altrettanto Troppo Grandi per Fallire come Wells Fargo o Bank of America. Mentre i colossi bancari americani si sono abbuffati fino a scoppiare col tossico commercio dei mutui residenziali che portò alla bolla finanziaria del 2008, la HSBC ha percorso un cammino leggermente differente, trasformandosi nella banca di riferimento per mascalzoni provenienti da tutto il mondo.

I tre volte sfigati finiti nelle carceri californiane per reati bagatellari potrebbero rimanere sorpresi nello scoprire che l’accordo antigalera escogitato da Lanny Breuer per la HSBC è stato il terzo colpo che la banca ha portato a segno. In effetti, come chiarito da una mortificante relazione di 334 pagine pubblicata la scorsa estate dalla sottocommissione permanente in materia di investigazioni del Senato, la HSBC ha ignorato una quantità veramente impressionante di avvertimenti ufficiali.

Nell’aprile 2003, con l’11 settembre ancora vivo nelle menti dei legislatori americani, la Federal Reserve inviò presso la sussidiaria della HSBC una lettera ingiuntiva, ordinando di correggere la propria prassi e fare un sforzo in più per evitare che criminali e terroristi aprissero conti presso la banca. Uno dei principali utenti della banca, per esempio, era la banca saudita Al Rajhi, collegata dalla CIA e da altre agenzie governative al terrorismo. Stando a un documento citato in una relazione del Senato, uno dei fondatori della banca, Sulaiman bin Abdul Aziz Al Rajhi, era tra i primi venti finanziatori di Al Qaeda, membro di quella che lo stesso Osama bin Laden pare abbia chiamato la “Catena d’Oro.” Nel 2003, la CIA redasse un rapporto coperto da segreto sulla banca, descrivendo Al Rajhi come un “canale per la finanza estrema.” Nel rapporto, alcuni dettagli del quale sono trapelati al pubblico intorno al 2007, l’agenzia osservava come Sulaiman Al Rajhi lavorava consapevolmente per aiutare le “fondazioni di beneficenza” islamiche a nascondere la loro natura, imponendo al consiglio d’amministrazione della banca di “escogitare degli strumenti finanziari in grado di sottrarre le donazioni di carattere caritatevole della banca al controllo saudita” (la banca ha negato qualsiasi coinvolgimento nel finanziamento degli estremisti).

Nel gennaio del 2005, ancora avvolta nella nuvola del suo primo accordo di libertà vigilata con gli Stati Uniti, la HSBC decise di troncare parzialmente i legami con Al Rajhi. Notare la parola “parzialmente”: la decisione sarebbe stata applicata soltanto al settore bancario di Al Rajhi e non alla sua società commerciale, una distinzione che spinse la dirigenza dentro la banca. Nel marzo 2005, Alan Ketley, un funzionario di controllo interno in forza presso la sussidiaria americana della HSBC, HBUS, disse allegramente a Paul Plesser, capo del Global Foreign Exchange Department per la sua banca, che era un piacere fare affari con Al Rajhi. “Sembra che sei a tuo agio a continuare a trattare con Al Rajhi” scrisse. “sarà meglio che ci fai una montagna di soldi!”.

Ma quest’accordo occulto con la sospetta “Catena d’oro” bancaria di bin Laden non era abbastanza, molti dirigenti della HSBC avrebbero voluto ripristinare la situazione precedente. In una notevole e-mail inviata nel maggio 2005, Christopher Lok, capo del Dipartimento Globale Banconote di HSBC, domandava ad un collega se non potessero tornare a fare integralmente affari con Al Rajhi non appena uno dei principali regolatori americani, l’Ufficio per il controllo della valuta (OCC), avesse tolto efficacia al decreto ingiuntivo risalente al 2003: “dopo la liquidazione dell’OCC e ora che il capitolo è probabilmente chiuso, non possiamo tornare a far visita ad Al Rajhi? La vigilanza di Londra ha allentato la presa”.

Dopo essere stata punita con l’ingiunzione del 2003, la HSBC continuò ad abbassare i propri requisiti alla lettera così come nello spirito, e su grande scala, pure. Tuttavia, invece di punire la banca, la risposta governativa è stata di inviare ulteriori lettere dal tono sdegnato. Tipicamente scritte nella cosiddetta forma di lettere “MRA” (Matters Requiring Attention) inviate dall’Ufficio per il controllo sulla valuta (OCC). La maggior parte delle quali toccavano sempre lo stesso tema, ossia, l’incapacità della HSBC di assicurare la debita diligenza sugli oscuri personaggi che depositavano denaro nei suoi conti o usavano le sue filiali per trasferire denaro. La HSBC accumulava in quantità ordini del tipo “Vi State Incasinando E Noi Lo Sappiamo”, e nel breve tempo intercorrente tra il 2005 e il 2006, ricevette 30 diversi avvisi formali.

Nonostante ciò, nel febbraio 2006 l’OCC sotto l’amministrazione di George Bush decise improvvisamente di revocare l’ingiunzione del 2003 dalla HSBC. In altri termini, la HSBC violò sostanzialmente la sua libertà condizionata per 30 volte in poco più di un anno eppure riuscì a cavarsela comunque. La banca era, come si dice nel gergo di strada, “off paper” (lett., a posto, ndt), e libera di consentire agli Al Rajhi del mondo di tornare alla carica.

Dopo che la HSBC ha ripreso a pieni giri i rapporti in Arabia Saudita con la Al Rajhi Bank apparentemente legata al terrorismo, l’ha rimpinguata con circa un miliardo di dollari americani. Alla domanda rivolta dalla HSBC circa l’uso che avrebbe fatto di tanto denaro, la Al Rajhi motivò la richiesta col fatto che la gente in Arabia Saudita ha bisogno di dollari per le più svariate ragioni. “Durante la stagione estiva”, scriveva la banca, “dobbiamo far fronte ad una domanda massiccia da parte dei turisti in vacanza”.

Il Dipartimento del Tesoro tiene una lista compilata dall’Office of Foreign Assets Control, o OFAC, tanto che le banche americane non devono essere in affari con alcun soggetto segnalato nella lista dell’OFAC. Tuttavia la banca ha scientemente aiutato gli individui banditi su detta lista ad eludere il procedimento riguardante le sanzioni. Uno di questi soggetti era il potente uomo d’affari di origine siriana Rami Makhlouf, amico fidato della famiglia Assad. Una volta che Makhlouf è finito nella lista dell’OFAC nel 2008, la risposta della HSBC non fu di tagliare qualsiasi legame con lui ma piuttosto di cercare una soluzione riguardo ai conti detenuti dal broker siriano nelle filiali di Ginevra e delle Isole Cayman. “Abbiamo stabilito che i conti tenuti nelle Caymans non sono nella giurisdizione statunitense”, scrisse un addetto al controllo interno. “Pertanto, non riferiremo questa corrispondenza all’OFAC”.

Traduzione: sappiamo che il tipo risulta su una lista di terroristi, ma i suoi conti sono in un posto nel quale gli americani non possono cercare, allora che si freghino.

Ricordate, correva l’anno 2008, cinque anni dopo che la HSBC è stata beccata con le mani nel sacco per la prima volta. E pure dopo altri quattro anni, all’epoca in cui la società è stata torchiata dal senatore del Michigan Carl Levin nel luglio 2012, un dirigente della HSBC si è rifiutato decisamente di dire se la banca avrebbe informato il governo nel caso in cui un Makhlouf o qualsiasi atro nome comparso nella lista dell’OFAC fosse saltato fuori nel proprio sistema, limitandosi solo a dire che “avrebbero fatto quanto possibile”.

Il caso del Senato ha messo in luce la dinamica estremamente frustrante che gli ispettori del governo sono stati costretti a fronteggiare con le megabanche Troppo Grandi per la Galera: la stessa ragione che le rende tanto appetibili a loschi clienti – la loro abilità nello spostare rapidamente denaro in luoghi come le Cayman o la Svizzera – le agevola nel far finta di niente con i poteri pubblici grazie alla pratica di nascondersi dietro le leggi sul segreto bancario.

Quando non era alle prese con le attività bancarie a favore di oscuri personaggi del Terzo Mondo, la HSBC metteva alla prova la propria potenza di fuoco mentale su come trovare soluzioni creative che le consentissero di fare affari con Paesi sanzionati dagli Stati Uniti, in particolare l’Iran. In un rapporto pubblicato dalla sussidiaria della HSBC per il Medio Oriente, HBME, la banca fa notare quanti soldi potrebbe ricavare dall’Iran, ammesso che si potessero superare quelle che venivano chiamate “difficoltà”, per intenderci, quelle fastidiose leggi.

“C’è da aspettarsi che l’Iran diventi una fonte di crescente guadagno per le floride prospettive del gruppo”, dice il rapporto, “e se dobbiamo raggiungere un tale obiettivo bisogna adottare un atteggiamento positivo una volta che ci si imbatte in criticità”.

L’”atteggiamento positivo” includeva una tecnica chiamata “stripping”, secondo cui sussidiarie straniere come la HSBC del Medio Oriente o la HSBC Europa rimuovevano ogni riferimento all’Iran in transazioni verso e dagli Stati Uniti, mettendosi spesso al posto del vero cliente per evitare di mettere in moto il meccanismo di allarme dell’OFAC (in altre parole, la transazione faceva figurare la stessa HBME, invece di un cliente iraniano).

Per più di un quinquennio, una cifra colossale come 19 miliardi di dollari di transazioni con l’Iran ha attraversato il sistema finanziario americano, con il collegamento iraniano tenuto nascosto in una percentuale tra il 75 e il 90% di tali transazioni. La HSBC ha avuto il suo quartiere generale in Inghilterra per più di vent’anni – in effetti, parliamo della banca più grande d’Europa – ma intrattiene gestioni sussidiarie importanti in ogni angolo del pianeta. Ciò che è emerso da quest’indagine è che il gruppo dirigente della società madre spesso era informato sulle losche transazioni, mentre le sussidiarie regionali non lo erano. Nel caso delle transazioni proibite con l’Iran, ad esempio, risultano diverse e-mail inviate dal capo controlli interni della HSBC, David Bagley, in cui egli ammette che la sussidiaria americana della HSBC probabilmente non ha idea di quanto la HSBC Europa sta facendo con l’invio di quantità di denaro iraniano coperto da divieto.

“Non sono sicuro che la HBUS sia al corrente del fatto che la HBEU stia fornendo servizi di compensazione per quattro banche iraniane”, scriveva nel 2003. L’anno seguente, avrebbe fatto le stesse osservazioni. “Sospetto che la HBUS non sappia che i pagamenti [di origine iraniana] stiano transitando attraverso di essa”, scriveva.

Qual è il vantaggio per una banca come la HSBC nel fare affari con soggetti messi al bando, truffatori e così via? La risposta è semplice: “se hai clienti interessati a ‘servizi speciali’ – un eufemismo per la roba cattiva – puoi addebitargli ciò che vuoi”, afferma l’ex investigatore del Senato Blum. “Il margine di profitto sul denaro riciclato è stato per anni all’incirca del 20%”.

Simili guadagni possono essere realizzati in varie forme, dalle commissioni iniziali alla promessa di tenere depositi presso la banca per un certo periodo. Qualsiasi sia la formula, le possibilità di profitto sono enormi, ammesso che si sia disposti ad accettare denaro da qualsiasi parte. La HSBC, con le sue radici che affondano nel capitalismo da battaglia delle colonie britanniche di lunga data e la sua presenza in Asia, Africa e nel Medio Oriente, aveva più accesso ad un tipo di clientela bisognosa dei “servizi speciali” di forse qualsiasi altra banca.

E ha lavorato duro per soddisfare quella clientela. Forse in cima alla vetta dell’innovazione per quanto riguarda la storia in fatto di sordide pratiche bancarie, la HSBC ha portato avanti una grottesca attività offshore in Messico che consentiva a chiunque di accedere ad una qualsiasi filiale messicana della HSBC per aprire un conto in dollari americani (i conti messicani della HSBC dovevano essere in pesos) tramite una cosiddetta “succursale delle Isole Cayman” della HSBC del Messico. I fatti suggeriscono che a malapena i clienti dovevano dichiarare nome e indirizzo reali, figuriamoci se erano tenuti a documentare l’origine lecita dei propri depositi.

Se riuscite a immaginare una clinica per trapianti di cuore stile drive in o una compagnia aerea che tiene un minibar ben fornito nella cabina di pilotaggio di ogni aereo, allora è probabile che comprendiate l’assurdità giuridica della “filiale Isole Cayman” della HSBC Mexico. Si trattava semplicemente di una pura scatola vuota, diretta da messicani presso succursali messicane della banca.

Ad un certo punto, questo prodotto dell’immaginazione aziendale della banca aveva 50.000 clienti, detenendo un totale di 2,1 miliardi di dollari di patrimonio. Nel 2002, da un controllo interno risultò che il 41% dei conti esaminati erano in fallo quanto a dati sul cliente. Sei anni più tardi, una e-mail proveniente da un funzionario altolocato della HSBC faceva notare che il 15% della clientela nemmeno disponeva di una scheda personale. “Come si fa ad individuare i clienti senza un dossier?”, si lamentava il dirigente.

La HSBC decise di prendere un’iniziativa solo dopo che fu scoperto che questi conti erano stati usati per finanziare una società americana che avrebbe fornito aerei a trafficanti di droga messicani, ed anche in quella circostanza chiuse soltanto alcuni dei conti facenti parte del ramo “Isole Cayman”. In tempi più recenti, nel 2012, quando i dirigenti della HSBC sono stati trascinati davanti al Senato americano, la banca ancora disponeva di 20.000 conti del genere per un valore di circa 670 milioni di dollari, e sotto giuramento avrebbero solamente detto che la chiusura di detti conti da parte della banca “in via di soluzione”.

Nel frattempo, per tutto questo tempo, il legislatore americano ha continuato a monitorare la HSBC. Secondo un assurdo modello perpetuato per tutti gli anni 2000, i controllori dell’OCC eseguivano revisioni annuali, trovavano la stessa fastidiosa merda di sempre, e poi scrivevano dei problemi della banca come se fossero stati scoperti per la prima volta. Dalla revisione annuale svolta dall’OCC nel 2006: “Durante l’anno, abbiamo identificato un numero di aree in difetto di conformità rispetto alle politiche BSA/AML… il management ha risposto positivamente dando inizio ad alcuni passi per correggere le carenze ed incrementare il rispetto delle norme bancarie. Approveremo le azioni correttive nel prossimo ciclo di valutazione”.

Traduzione: Questi tipi sono degli stronzi, ma lo ammettono, quindi va bene e non faremo nulla.

Un anno dopo, il 24 luglio 2007, l’OCC ebbe a dire questo: “durante l’anno passato, gli esaminatori hanno individuato un numero di temi comuni, in quei settori carenti in fatto di stringente adesione alle norme BSA/AML. Le politiche in materia bancaria sono accettabili… il management continua a rispondere positivamente e ha iniziato passi per migliorare la conformità alla normativa bancaria”.

Traduzione: sono tuttora degli stronzi, ma gli abbiamo segnalato il problema e tutto si sistemerà. Per allora, aver trascurato i controlli sulla HSBC in tema di riciclaggio di denaro aveva virtualmente contagiato l’intera società. Dei russi che si spacciavano per venditori di auto usate erano arrivati a depositare nella HSBC 500.000 dollari al giorno, principalmente attraverso una sporca operazione di traveller’s-checks condotta in Giappone. Il programma bancario della società dedicato alle ambasciate straniere era talmente andato che aveva accumulato migliaia di avvisi riguardanti attività sospette. È anche documentato che la banca consentiva a clienti dal Sudan, Cuba, Birmania e Corea del Nord di eludere le sanzioni.

Quando uno dei funzionari del controllo interno aziendale, Carolyn Wind, sollevò preoccupazioni circa la carenza di personale per effettuare controlli sulle attività sospette ad una riunione del consiglio d’amministrazione del 2007, fu licenziata. Ciò che la banca ha dovuto fare pur di ignorare i propri dirigenti addetti alla vigilanza e continuare a rastrellare denaro da così tante e poco trasparenti fonti mentre vi erano presumibilmente soggetti che gironzolavano intorno ad ogni suo movimento è incredibile. “Non si può escogitare un riciclaggio tanto vasto da permeare un’intera istituzione”, afferma Spitzer.

Alla fine degli anni 2000, altre agenzie iniziavano a sentire odore di HSBC. Il Department of Homeland Security (il nostro Ministero della Difesa, ndt) iniziò un’indagine HSBC per riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di droga, mentre l’ufficio dell’avvocato generale della Virginia dell’Ovest metteva il naso nel coinvolgimento della HSBC in un caso di truffa ai danni del servizio sanitario nazionale. Nel settembre 2009 è avvenuto a Washington un incontro tra agenzie governative, nel corso del quale si stabilì che la HSBC era fuori controllo e necessitava di ulteriori indagini.

Alla banca stessa fu notificato che l’usuale revisione dell’OCC sarebbe stata “estesa”. Più personale dell’OCC fu assegnato a studiare attentamente i libri contabili della HSBC, e, tra le cose scoperte, vi era un arretrato di 17.000 avvisi di attività sospette che non erano stati considerati. Si vide peraltro che la banca vantava una quantità simile di mandati di comparizione per casi di riciclaggio di denaro.

Infine sembrava che il governo fosse sul punto di incazzarsi veramente. Nel marzo 2010, a seguito degli innumerevoli ultimatum manifestamente ignorati, ne fu emesso un altro che concedeva alla HSBC tre mesi di tempo per ripulire quell’arretrato di 17.000 avvisi altrimenti vi sarebbero state serie conseguenze. La HSBC rispettò quel termine, ma mesi più tardi di nuovo l’OCC trovava che le misure anti-riciclaggio della banca lasciavano seriamente a desiderare, costringendo il governo a prendere, bene… drastici provvedimenti, giusto?

Più o meno! Nell’ottobre 2010, l’OCC prendeva un profondo respiro, fletteva i muscoli e… emetteva un secondo decreto ingiuntivo!

In altre parole, ancora “Non Farlo Ancora”. La punizione per cotanto ignobile atteggiamento di sfida è stata di ripristinare la libertà vigilata del 2003.

Manco a dirlo che la HSBC non ha apportato alcun cambiamento dopo il secondo ordine che ingiungeva di Non Farlo Ancora. Lo ha fatto, ha assunto certe persone.

Nell’estate 2010, il venticinquenne Everett Stern era appena uscito dalla business school, in cerca di un lavoro ma anche di avventura. Il suo sogno era di essere un agente della CIA, dando battaglia ai cattivi e acciuffando terroristi dal Medio Oriente. Si candidò per il servizio clandestino dell’agenzia, fece pure un colloquio, ma proprio prima della laurea l’occhialuto ed esuberante Stern fu respinto.

Era abbacchiato, ma poi trovò su un sito un annuncio di lavoro che catturò la sua attenzione. La HSBC, un’importante banca internazionale, era a caccia di persone in grado di darle una mano sul programma antiriciclaggio. “Pensavo che ciò fosse quello che veramente volevo fare”, dice. “Sembrava così eccitante”.

Stern si recò presso gli uffici della HSBC a New Castle, nel Delaware, per un colloquio di lavoro, e in quell’ottobre, proprio alcuni giorni dopo che l’OCC aveva emesso la seconda lettera della serie Non Farlo Ancora, iniziò a lavorare in qualità di membro del programma antiriciclaggio della HSBC “rivisto”.

Sin dal principio, Stern si accorse che c’era qualcosa di strano a proposito del suo lavoro. “Dovevo andare in biblioteca per prendere libri in materia di riciclaggio”, dice Stern ridendo. “Cioè, quanto fosse malvagia come pratica”. Non ci furono né corsi di formazione né seminari sul riciclaggio, che cos’era, come scoprirlo. Il suo lavoro consisteva nel cercare in Internet nomi di spregevoli personaggi per poi inserirli all’interno dei sistemi interni della banca per vedere se i loro nomi saltavano fuori dai suoi conti.

Ancora più strano, nessuno sembrava prestare attenzione al fatto se ci fosse qualcuno concretamente all’opera. L’ufficio del Delaware rimaneva per lo più vuoto per un pezzo, solo una stanza gigantesca, peraltro nemmeno tinteggiata, con qualche cubicolo arredato in fretta e con solo una dozzina di persone dentro, e nessuno che davvero monitorasse il lavoro degli altri. Stern assieme al suo collega finivano di lavorare di consueto per le 10:30 al mattino, dopo di che passavano qualche ora a gettar sassi in una cava sita dietro gli uffici della banca. Poi, tornavano alla loro postazione per passare il tempo fino alle 3 del pomeriggio all’incirca, o fino a che fosse almeno plausibile che avevano trascorso una giornata di lavoro reale. “Se chiedevi di fare altro”, dice Stern, “si infuriavano”.

Stern guadagnava uno stipendio iniziale di 54.900 dollari. Presto, tuttavia, un po’ per noia e forse anche un po’ per patriottismo, Stern iniziò a setacciare alcuni di quegli avvisi accumulatisi per cercare di farsene un’idea. Quasi sin da subito scoprì una serie di transazioni seriamente dubbie. C’era una società di intermediazione finanziaria che trasferiva ingenti quantità di denaro verso destinazioni mediorientali irreperibili. Con una semplice ricerca su Internet Stern scoprì che una società di frutta saudita stava inviando milioni ad una figura altolocata facente parte dell’ala yemenita della Fratellanza Musulmana. Stern pure apprese che la HSBC stava consentendo la movimentazione di milioni di dollari dalla catena di supermercati Karaiba in Africa ad uno studio chiamato Tajco, diretto dai fratelli Tajideen, oggetto di speciale attenzione da parte del Dipartimento del Tesoro come cospicui finanziatori degli Hezbollah.

Ogni volta che Stern riportava una delle sue scoperte ai suoi capi, gli manifestavano la loro seccatura, se non di peggio. Quando mise in guardia il proprio capo che una società di navigazione con legami con l’Iran aveva parecchi affari con la banca, esplose. “Mi hai chiamato per dirmi questo?”, tagliò corto il capo.

Subito dopo, l’ufficio da vuoto cominciò a riempirsi. Ciò che fece la HSBC in procinto di assumere nuovo personale era davvero molto intelligente. Liquidò la sua unità di raccolta carte di credito e spostò il grosso degli impiegati al dipartimento antiriciclaggio. Ancora, senza aver affatto formato nessuno, collocò centinaia di lavoratori chiassosi e incolti, occasionalmente addetti a un call center, su un nuovo lavoretto, trasformandoli in investigatori antiriciclaggio. Stern rivela che i suoi colleghi non solo fregavano sul lavoro, essi nemmeno sapevano in cosa consisteva. “Puoi recarti in quel palazzo oggi stesso”, dice, “e chiedere a chiunque cosa sia il riciclaggio di denaro, e ti garantisco, nessuno ne saprà nulla”.

Quando qualcosa di ambiguo appare in rapporto con un conto bancario, la banca genera un segnale di allarme. Un segnale simile può scaturire da quasi qualsiasi cosa, da uno che trasferisce 9.999 dollari (per tenersi sotto il livello di guardia dei 10.000 dollari) ad uno che trasferisce ingenti somme in numeri arrotondati ad un altro che apre un conto con un nome o un indirizzo ambiguo. Quando viene generato un avviso, si suppone che la banca indaghi prontamente sul caso. Se la banca non archivia l’avviso, crea un “Rapporto di attività sospetta” che viene passato a fini investigativi al Dipartimento del Tesoro. A un certo punto Stern si trovò coinvolto nel mezzo di un meccanismo perverso finalizzato ad aggirare i controlli interni. La HSBC aveva “attuato” l’ordine ricevuto dal governo di Non Farlo Ancora, Ancora assoldando centinaia di soggetti trasformati in un esercito per le transazioni sospette di riciclaggio. Si ricordi che ciò che si rimproverava alla HSBC era non tanto di aver fatto entrare nel sistema il denaro proveniente dal terrorismo o dal narcotraffico, quanto di aver aperto una montagna di conti bancari senza alcun controllo. Presso l’ufficio del Delaware dove lavorava Stern, il capo dettò i suoi nuovi obiettivi: ognuno doveva cercare di pulire 72 avvisi alla settimana. Per quelli che riuscivano nel compito, era una media di due avvisi indagati e puliti all’ora. Secondo Stern, quasi ogni tipo di informazione era abbastanza per pulire un avviso. “Basicamente, se una società aveva un sito, la potevi considerare a posto”, egli dice.

Presto gli addetti ai controlli interni della HSBC iniziarono a far circolare e-mail entusiastiche. “Grande lavoro da parte di alcuni professionisti del Delaware nella prima parte della settimana”, scrisse il capo di Stern il 30 giugno 2011. L’oggetto della mail era “Quelli del 60 e più”, che stava a significare l’elogio di quegli impiegati che avevano pulito più di 60 transazioni sospette quella settimana. Dopo aver tentato invano di convincere i propri capi a lasciarlo svolgere il suo lavoro di ricerca del denaro riciclato, Stern decide di denunciare ciò che accadeva presso la banca alla FBI e ad altre agenzie. Lasciò il lavoro alla HSBC nel 2011, aspettandosi che il governo avrebbe calato la scure sui suoi ex colleghi datori di lavoro.

A quel tempo, numerose agenzie, tra cui il Dipartimento della Difesa, erano già sui passi della HSBC, esaminandola tra le altre cose come parte di una complessa indagine in materia di traffico internazionale di stupefacenti. In un periodo di circa 4 anni tra il 2006 e il 2009, una incredibile somma di 200 trilioni di dollari in trasferimenti bancari (tra cui quelli provenienti da Paesi ad alto rischio come il Messico) era stata fatta passare senza alcun controllo. La banca aveva anche omesso di esercitare la dovuta vigilanza sull’acquisto di una inaudita somma di 9 miliardi di contante americano dal Messico svolgendo peraltro un ruolo chiave nel cosiddetto mercato nero del peso, che consentiva ai cartelli della droga messicano e colombiano di convertire dollari americani ottenuti dalla vendita della droga in pesos da usare nel mercato interno. Agenti antidroga hanno scoperto che i trafficanti messicani stavano costruendo casseforti speciali esattamente adatte alle dimensioni degli sportelli di banca della HSBC.

Neil Barofsky, ex ispettore nei casi di bailout (“salvataggi di aziende in difficoltà”) e procuratore federale, il quale ha disposto diversi rinvii a giudizio per riciclaggio di denaro all’estero, osserva che la gente della HSBC era in affari con “le peggiori organizzazioni di narcotrafficanti immaginabili”, come il cartello colombiano di Norte del Valle e quello messicano di Sinaloa, gruppi famosi non solo per gli omicidi su vasta scala ma per le decapitazioni, video di torture (“la novità del momento”, afferma) ed altre atrocità, nessuna delle quali avviene senza l’apporto di chi ricicla denaro. Per questa ragione, dice Barofsky, i magistrati antidroga non si fanno scrupoli nel chiedere pesanti condanne al carcere quando si tratta di riciclatori di denaro sporco. “Onestamente, il nostro punto di vista sul riciclaggio era che fosse alla stessa stregua, e altrettanto significativo, dei trafficanti stessi”, afferma il magistrato.

Barofsky fu coinvolto nella prima estradizione di una persona di nazionalità colombiana (Pablo Trujillo, un membro dello stesso cartello per il quale la HSBC movimentava denaro) sulla base di accuse di riciclaggio di denaro. “Quel tipo si beccò 10 anni”, dice Barofsky. “La HSBC stava facendo la stessa cosa, solo che su una scala molto più grande di quanto stesse facendo il mio fesso”.

Chiaramente, la HSBC aveva violato l’ordine del 2010 Non Farlo Ancora, Di Nuovo. Everett Stern lo vide coi propri occhi; e così anche l’OCC e il Senato americano, la cui Sottocommissione Permanente sulle Indagini decise di prendere di mira la società per una indagine della durata di un anno sul fenomeno globale del riciclaggio di denaro. La banca stessa, in risposta all’indagine del Senato, riconobbe di aver “omesso qualche volta di rispettare gli standard che i regolatori e gli utenti si aspettano”. Sarebbe andata avanti dicendo che era addirittura “profondamente spiacente”.

Qualche giorno dopo la festa del Ringraziamento del 2012, a Stern giunse la notizia che il Dipartimento di Giustizia era sul punto di annunciare un accordo. Visto che l’anno precedente aveva lasciato il lavoro alla HSBC, era reduce da un brutto periodo. Era uscito emotivamente e finanziariamente devastato dal fatto che le sue accuse erano state rese pubbliche. Non era riuscito a trovare un lavoro e a un certo punto fece perfino domanda per ottenere l’indennità di disoccupazione. Ma ora che finalmente i federali stavano per piombare sulla HSBC, immaginava che avrebbe avuto la soddisfazione di sapere che il suo sacrificio non era avvenuto invano.

È così che a New York, seduto in una stanza di albergo, aspettava che i giornalisti venissero a chiedergli un’intervista. Quando apprese la notizia che la “punizione” che Breuer aveva annunciato consisteva in un accordo che rinviava il processo – un accordo stile Non Farlo Ancora, Ancora, Ancora – rimase di sasso. “Pensavo, ‘Tutto questo, per niente?'”, afferma. “Non potevo crederci”.

Lo scrittore Ambrose Bierce disse una volta che c’è solo una cosa nel mondo peggiore di un clarinetto: due clarinetti. Allo stesso modo, c’è solo una cosa peggiore di una banca totalmente corrotta: diverse banche corrotte.

Se l’accordo con la HSBC mostrava quante schifezze era disposto a tollerare lo Stato da una banca, Breuer era tornato una settimana dopo per fornire la prova che il governo avrebbe usato i guanti bianchi pure con quelle banche che si mettono in combutta con altre banche per dar luogo a scandali ancora più grandi. Il 19 dicembre 2012, annunciava che il Dipartimento di Giustizia stava fondamentalmente togliendo d’impaccio il colosso svizzero UBS per la sua parte in quella che è probabilmente passerà alla storia come la più grande truffa finanziaria di sempre.

Il cosiddetto scandalo del LIBOR, alla base dell’accordo raggiunto con la UBS, fa sembrare il caso Enron una semplice violazione per parcheggio in sosta vietata. Molte banche tra le più grandi del mondo, tra cui la svizzera UBS, l’inglese Barclays e la Banca Reale di Scozia, si misero insieme a manipolare il LIBOR (ossia, London Interbank Offered Rate), il quale misura il tasso a cui le banche si prestano denaro tra di loro. Molti, se non la maggior parte, dei tassi d’interesse sono agganciati al LIBOR. I prezzi di centinaia di trilioni di dollari di prodotti finanziari sono legati al LIBOR, ogni cosa, dai crediti alle imprese alle carte di credito ai mutui alle obbligazioni dei comuni agli swaps e alle valute. Se riuscite a immaginare i manager di Ford, GM, Mitsubishi, BMW e Mercedes cospirare ogni mattina per fissare i prezzi di alluminio e acciaio inossidabile, allora avrete una vaga idea di ciò che lo scandalo del LIBOR rappresenta, premesso che nell’analogia con le case produttrici di auto, i numeri in gioco sono assurdamente insignificanti. Queste sono le banche più potenti del mondo che ogni giorno si mettono d’accordo sul prezzo del denaro. Bassi tassi del LIBOR sono un indice che le banche sono forti e in salute. Queste banche stavano truccando gli esiti dei loro quotidiani esami medici. In termini bancari, stavano compiendo una operazione di juicing (spremitura, n.d.t.).

Due diversi tipi di manipolazione avvennero. Nel 2008, all’apice del crollo globale, le banche presentarono artificialmente tassi bassi per offrire un’immagine di correttezza finanziaria ai mercati. Ma in altri tempi nel corso degli anni, operatori finanziari individuali complottavano per muovere in su o in giù i tassi per trarre profitto su singole negoziazioni.

Non c’è nessuno nel mondo che abbia coltivato erbe tanto potenti da consentire alla mente umana di afferrare l’enormità di un simile crimine. Si tratta di una cospirazione così grande che gli avvocati in procinto di citare in giudizio le banche hanno problemi enormi nel calcolo dei danni.

Ecco come funziona: ogni mattina, 16 tra le più grandi banche del mondo presentano dei numeri ad un comitato con base a Londra che indicano a quale tasso d’interesse faranno pagare alle altre banche il prestito di denaro e cosa esse stesse devono pagare. A quel punto il comitato del LIBOR prende quei 16 differenti tassi d’interesse, getta via i 4 più alti e i 4 più bassi, e fa una media dei restanti 8 per creare i tassi LIBOR del giorno – la base per i tassi d’interesse quasi ovunque nel mondo.

Il fatto che il comitato LIBOR scarti i quattro numeri più alti e più bassi ogni giorno è un dettaglio importante, perché ciò significa che è difficile manomettere artificialmente il tasso finale a meno che una pluralità di banche non siano congiurate tra di loro. Una sola banca che mente riportando che le banche si stanno prestando denaro quasi gratuitamente non influisce più di tanto. Per essere sicuro di poter dar vita ad un tasso d’interesse artificialmente basso o alto, devi avere un gruppo di banche a bordo, e difatti risulta che così era.

Per un tempo equivalente a 20 anni, le banche hanno presentato numeri falsi, spesso di concerto con altre banche. E lo hanno fatto per varie ragioni, ma quella grande, di norma, è che una banca ha qualche investimento legato all’indice LIBOR – pacchi di valute, bond dei comuni, mutui, qualsiasi cosa – che frutterebbe di più se il tasso d’interesse fosse più basso. Pertanto immaginate cosa succederebbe se qualche stupido operatore finanziario nella Banca X chiamasse l’addetto alla presentazione del LIBOR e gli offrisse denaro, droga, un pompino o solo una pacca sulle spalle per convincerlo a presentare un numero falso quel giorno.

Lo scandalo scoppiò per la prima volta l’anno scorso quando la megabanca inglese Barclays ammise la sua parte nella manomissione dei tassi LIBOR. I regolatori inglesi pubblicarono una quantità di e-mail disgustose che mostravano operatori di diverse banche cazzeggiando allegramente con i conti della vostra carta di credito, i tassi del vostro mutuo, il conto delle vostre tasse, il vostro fondo pensione, etc., per poterci guadagnare su qualche sordido affare in ballo quel giorno. In un caso, un operatore di una banca senza nome mandò una e-mail ad un operatore della Barclays ringraziandolo per il suo contributo nella fissazione dei tassi d’interesse e promettendogli una fottuta bottiglia di champagne per i suoi sforzi: “Bello. Ti devo molto! Un giorno usciamo insieme dopo il lavoro, e aprirò una bottiglia di Bollinger”.

UBS è stata la banca successiva a confessare, e il suo accordo –1,5 miliardi in multe – era grosso modo lo stesso, solo le e-mail rese note erano, semmai, più ignobili schiaccianti. La British Financial Services Authority – equivalente alla nostra SEC – ha scoperto migliaia di richieste dirette a truccare i tassi su un periodo di anni che implicavano dozzine di soggetti diversi e una moltitudine di banche. In molti casi, i misfatti furono commessi più o meno apertamente, per iscritto, con operatori e broker che malevolmente offrivano mazzette in messaggi ed e-mail con palese noncuranza per la pena che in seguito si sarebbe tristemente rivelata giustificata.

“Farò un gigantesco affare con te”, supplicava un operatore della UBS che pressava un broker per fissare il tasso. “Pagherò, diciamo, 50.000, 100.000 dollari”.

I regolatori inglesi non nascondono la dimensione dello scandalo. L’accordo della UBS ha dimostrato, senza ombra di dubbio, che lo scandalo LIBOR coinvolgeva più di una o due banche solamente, e probabilmente interessava centinaia di persone in molte istituzioni finanziarie tra le più grandi e prestigiose – in altre parole, un caso letteralmente epico di collusione anticoncorrenziale che insinuava il dubbio se le più grandi banche del mondo non stessero innovando una nuova forma di alta finanza, non interamente capitalista. “Abbiamo detto che ci sono altre cinque istituzioni sotto inchiesta”, dice Christopher Hamilton della FSA. “E vi sono coinvolti anche un enorme numero di individui” (al momento di andare in stampa, anche un’altra banca, la Banca Reale di Scozia, ha patteggiato per violazioni legate al LIBOR).

Ciò combaciava con ciò che Bob Diamond, l’ex capo della Barclays, dichiarò al Parlamento inglese il giorno dopo le sue dimissioni consegnate lo scorso anno. “C’è un problema di dimensioni industriali che sta venendo alla luce”, disse. Michael Hausfeld, un avvocato noto per le sue class action in procinto di citare le banche per lo scandalo LIBOR per conto di città come Baltimora i cui investimenti hanno perso denaro a seguito dell’abbassamento dei tassi d’interesse, dice che l’opinione pubblica ancora non ha compreso l’importanza di commenti come quello di Diamond. “Diamond disse in sostanza, ‘Questo è un problema di dimensioni industriali'”, dice Hausfeld. “Ma nessuno ha ancora definito ciò che è questo fenomeno”.

L’osservazione di Hausfeld – che “il problema di dimensioni industriali” di cui parla Diamond potrebbe essere più di qualche individuo che fa casino con i tassi; potrebbe trattarsi di uno sforzo sistemico per sovvertire il capitalismo stesso – sottolinea l’errore di calcolo dietro a entrambi gli accordi di non rinvio a giudizio. Alla HSBC, la banca si spinse oltre l’aver chiuso gli occhi su alcune losche transazioni. Ha ripetutamente sfidato gli ordini del governo come per sforzarsi coscientemente e per più anni di porre fine al discrimine tra denaro lecito e quello illecito. E quando ha in qualche modo persuaso il governo americano nel confezionare un accordo per sanare tali illeciti con il fine assurdo di mantenere l’autorizzazione a esercitare l’attività bancaria, alla fine è riuscita a rendere il crimine una prassi ricorrente.

La UBS, nel frattempo, rappresentava un caso analogo, nel quale le violazioni non solo sovvertivano la lettera della legge, mettevano a repentaglio l’integrità del sistema basato sulla concorrenza. Se consenti a una massa di banchieri alcolizzati di trascorrere ogni mattina inviandosi stupide e-mail, e dandosi soprannomi da supereroe mentre alteravano il costo del denaro (sgrammaticati operatori della UBS si soprannominavano, tra le altre cose, “capitan caos”, i “tre moschettieri” e “Superman”), si può anche fare interamente a meno del capitalismo e chiamare le 16 banche più grandi del mondo l’Ufficio Internazionale dei Prezzi.

Pertanto, nel giro di qualche settimana, i regolatori inglesi ed americani si sono coalizzati per dichiarare una resa quasi integrale tanto al crimine quanto al monopolio. Ciò era più di un paio di casi di ricchi ragazzi in libertà. Si tratta di decisioni politiche di vasta risonanza che si rifletteranno sulle prossime generazioni.

Ancora peggio degli accordi in questione, la loro spiegazione data da Breuer. “Nel mondo delle grandi istituzioni di oggi, in cui la maggior parte del mondo finanziario si basa sulla fiducia”, ha detto, “una soluzione saggia è assicurare che le controparti non fuggano da un’istituzione, che non si perdano posti di lavoro, che non accadano eventi di portata mondiale tali da essere sproporzionati rispetto alla soluzione che proponiamo”.

In altre parole, Breuer sta dicendo che le banche ci tengono per le palle, che il costo di sbattere i loro dirigenti in galera finisce per eccedere quello di lasciargli fare praticamente qualsiasi cosa.

Queste sono cazzate, ed esattamente l’opposto della verità, ma è ciò che il nostro attuale governo ritiene sia vero. Da Jon Benet a O.J. a Robert Blake, i cittadini americani hanno da tempo compreso che i ricchi prendono buoni avvocati e la fanno franca, mentre i poveri se la bevono e finiscono in galera. Ma questa è un’altra questione. Si tratta della paura del governo di perseguire i veri potenti, qualcosa che non ha mai fatto nemmeno ai tempi di gloria di Al Capone o Pablo Escobar, qualcosa che non ha fatto nemmeno con Richard Nixon. E quando riconosci che ci sono persone troppo importanti per poter essere perseguite, si è ad un passo da un ovvio corollario, che chiunque altro è irrilevante abbastanza da finire in galera.

Una classe arrestabile ed una classe inarrestabile. Lo abbiamo sempre sospettato, ma ora è conclamato. Allora che facciamo?