ACQUA POTABILE, L’ITALIA È UN COLABRODO

 

ACQUA POTABILE, L’ITALIA È UN COLABRODO

 

di Andrea Ballocchi

 

L’Italia è un colabrodo. O, più precisamente, lo sono le reti comunali di distribuzione dell’acqua potabile da cui si disperde quasi il 40% (37,4%) del contenuto. Lo segnala l’ISTAT attraverso il “Censimento delle acque per uso civile”, appena pubblicato. La ricerca fa riferimento ai dati 2012 e certifica un peggioramento delle cose rispetto a quattro anni prima quando le dispersioni di rete erano del 32,1%.

Ma partiamo dall’inizio, ossia dal volume complessivo di acqua prelevata per uso potabile, che è pari a 9,5 miliardi di metri cubi, (+3,8% rispetto al 2008). Un terzo dell’acqua prelevata esce dai trattamenti di potabilizzazione (totale 2,9 miliardi di metri cubi annui).

L’acqua, a questo punto viene immessa nelle reti comunali di distribuzione: il volume è pari a 8,4 miliardi di metri cubi, 385 litri al giorno per abitante (+2,6% rispetto al 2008), mentre quello che è effettivamente erogato agli utenti è di 5,2 miliardi di metri cubi (241 litri per abitante), 12 litri al giorno in meno rispetto all’ultimo dato censito nel 2008. Ecco le dispersioni: 3,1 miliardi di metri cubi “svaniti”.

Non tutte le regioni “perdono” nello stesso modo: la Valle d’Aosta segnala un 20% circa di perdite, con Emilia Romagna, Trentino Alto Adige e – leggermente di più – Lombardia. Dall’altro lato della lavagna, la Sardegna è quella che fa registrare il primato peggiore con il 50% circa di perdite. Ciò che si evidenzia nel rapporto è però lo scadimento generale rispetto al 2008: «le dispersioni regionali di rete mostrano situazioni di maggiore criticità nelle Isole e nel Centro-Sud, con le eccezioni di Abruzzo e Puglia, che negli ultimi anni hanno sanato alcune situazioni di forte dispersione. Seppur con livelli più bassi, anche nelle regioni del Nord si registra un generale peggioramento della dispersione di rete, ad eccezione della Valle d’Aosta».

In tema di acqua potabile, pochi giorni prima dell’uscita del report ISTAT la Commissione Europea ha pubblicato sul proprio sito web una consultazione pubblica per chiedere ai cittadini europei come si potrebbe migliorare la fornitura di acqua potabile in Europa per garantire che ognuno dei cittadini abbia accesso a un’acqua pulita, sicura e a prezzi contenuti. Alla consultazione si può partecipare fino al 15 settembre 2014.

Il prestito vitalizio ipotecario cambia volto per diventare conveniente ai proprietari

Il prestito vitalizio ipotecario cambia volto per diventare conveniente ai proprietari

di 9 luglio 2014Commenti (6)

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Sino a oggi i costi e le regole di legge hanno reso improponibile sul mercato italiano l'”home equity loan” anglosassone, cioè il “mutuo inverso” grazie al quale chi possiede una casa può darla in garanzia alle banche e ottenerne un prestito. Ora però la Camera sta iniziando a discutere la proposta di legge (firmatari i deputati Marco Causi e Antonio Misiani del PD, relatore in Commissione Finanze l’onorevole Paolo Petrini del PD), costituita da un unico articolo per integrare e modificare la disciplina del prestito vitalizio ipotecario (articolo 11-quaterdecies, comma 12, del decreto – legge n. 203 del 2005). Le nuove norme, se passeranno (ma l’iter è ancora lungo), risolveranno molti dei punti critici che hanno impedito lo sviluppo anche in Italia del mercato di questi contratti. La proposta di legge si basa sulle elaborazioni condotte dai firmatari sulle richieste per superare le criticità su questo fronte presentate dall’Abi e da altre associazioni dei consumatori durante l’audizione del 13 settembre 2013 alle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera.

Cos’è e come funziona il prestito vitalizio ipotecario
È un contratto tra i proprietari di una casa con più di 65 anni e una banca o una finanziaria con il quale il proprietario ottiene un finanziamento che viene garantito dall’ipoteca iscritta sulla casa a favore della banca o finanziaria. Il finanziamento erogato è pari a una parte del valore di mercato della casa, stabilito con una perizia, e può essere speso per le esigenze dei proprietari (consumi o spese rilevanti, integrazione del proprio reddito) senza che i proprietari debbano lasciare l’abitazione. I proprietari possono decidere di chiudere quando vogliono il contratto, pagando alla banca il capitale ricevuto più gli interessi, oppure di lasciare decidere agli eredi: dopo il loro decesso, questi si troverebbero a poter scegliere se cedere la casa al finanziatore, che escuterebbe l’ipoteca, o rimborsare il prestito ottenuto, con gli interessi maturati nel periodo.

In cos’è diverso dalla nuda proprietà
Rispetto alla vendita della nuda proprietà (il proprietario vende a un terzo la proprietà della casa e si riserva l’usufrutto, cioè il diritto di abitarci, sino alla propria morte; dopodiché l’acquirente ne otterrà il possesso), il prestito vitalizio ipotecario offrirebbe al mutuatario (si tratta infatti di un “mutuo inverso”) il vantaggio di non perdere la proprietà dell’immobile e, quindi, di non impedire agli eredi di recuperare l’immobile dato in garanzia, lasciando a questi ultimi la scelta di rimborsare il credito della banca (capitale più interessi) estinguendo l’ipoteca iscritta sull’immobile all’atto della firma del prestito vitalizio.

Gioco d’azzardo, un libro denuncia: lo Stato non conosce i veri proprietari delle concessionarie

Gioco d’azzardo, un libro denuncia: lo Stato non conosce i veri proprietari delle concessionarie

di Giovanni Maria Bellu
Un Paese sempre più povero che affida il suo futuro al caso. Con danni sociali gravissimi. Nel 2013 gli italiani hanno speso tra i vari Gratta e vinci, Lotto, Superenalotto e le slot machine 84,7 miliardi di euro. Di questa gigantesca somma, 67,6 miliardi sono rientrati nelle tasche dei giocatori sotto forma di vincite, ma ciò che resta, cioè oltre 17 miliardi, sono andati perduti.
E’ una delle stime più recenti. A realizzarla è stato Matteo Iori, presidente della Onlus Centro Sociale Papa Giovanni XXIII assieme al Conagga, Coordinamento nazionale gruppo giocatori d’azzardo, attingendo i dati dal Libro blu dell’Agenzia delle entrate e dei monopoli. Nel 2012 la spesa era stata un po’ superiore, 88 miliardi, secondo quanto riportano gli autori di “Vite in gioco, oltre la slot-economia” (Città Nuova, 2014) che è stato presentato nei giorni scorsi alla Camera dei deputati.
L’Italia, secondo l’analisi di Iori, è il secondo Paese del mondo nella diffusione del gioco d’azzardo. Perché se nella classifica assoluta (basata sul totale delle somme perdute da giocatori) è il quarto (dopo Stati Uniti, Cina e Giappone), balza quasi in testa, preceduto dalla sola Australia, se si divide la somma per il numero degli abitanti. Gli italiani perdono col gioco d’azzardo 400 euro a testa ogni anno. Prima di loro, con 795 euro, ci sono solo gli australiani.
Esiste ormai un’enorme quantità di dati che provano la pericolosità del gioco d’azzardo, diventato ormai una patologia sociale. Nel marzo scorso, una ricerca effettuata dal Gruppo Abele in quindici regioni italiane ha dimostrato che un over 65enne su tre è a rischio di dipendenza. Nel 2012 una ricerca promossa da varie associazioni (tra le quali le Acli, Libera e Cgil) ha chiarito che non è vero che lo Stato ci guadagna. Perché a fronte di un incasso di 8 miliardi di euro, si ha un costo sociale e sanitario tra i 6 e i 7 miliardi, a cui va aggiunto un danno difficilmente quantificabile, ma evidente. Quello prodotto dalle infiltrazioni nel business di associazioni mafiose.
“Vite in gioco, oltre la slot-economia” – curato da Carlo Cefaloni – attraverso il contributo di sociologi, giornalisti, economisti, matematici e operatori sociali, dà un quadro completo e aggiornato del fenomeno. Andando a toccare uno degli aspetti più gravi e fino a ora meno trattati del problema: la natura delle concessionarie, la loro trasparenza, i loro legami col mondo politico ed economico.
A spartirsi il business sono tredici società che hanno avuto la concessione dallo Stato. Stiamo parlando di un business da 80 miliardi di euro. “Ma è possibile – domanda Gabriele Mandolesi, uno dei fondatori del movimento “Slot Mob”, nato per allontanare le slot-machine dai bar – che a fronte di una cifra di questo genere lo Stato non sappia nemmeno chi detiene la proprietà di queste società?”. Può apparire incredibile, ma è proprio così. Nel libro si fa l’esempio di una delle più note e importanti tra le concessionarie, la Sisal. La concessionaria del Superpenalotto, di Win for life, slot machine e scommesse sportive attraverso la Sisal Machpoint.
“Sisal Spa – si legge in “Vite in gioco” – opera in Italia attraverso 6 società, ed è controllata dalla Sisal Holding Istituto di Pagamento Spa, controllata a sua volta dalla Gaming Invest Srl, società di diritto lussemburghese i cui soci, secondo quanto riportato sul sito istituzionale, sono 3 fondi di private equity (Apax, Permira e Clessidra), una società di consulenza finanziaria (Global Leisure Partners LLP) e la famigia del socio fondatore Molo. Sapere chi sono le persone fisiche che detengono partecipazioni rilevanti indirette non ci è dato”.
Gli autori fanno notare che il presidente del gruppo Sisal è Augusto Fantozzi, ex comissario straordinario dell’Alitalia, che era ministro dell’Economia tra il 1995 e il 1997, proprio quando la Sisal ottenne la concessione dell’Enaotto che poi, nel 1997, divenne il mitico Superenalotto. “Senza mettere in dubbio la buona fede di Fantozzi e della Sisal – scrivono – sarebbe in ogni caso ragionevole, per evitare commistioni e conflitti di interesse di qualche tipo, prevedere dei meccanismi che vietino (almeno per un periodo di tempo stabilito) a chi ha svolto incarichi politici o da dirigente pubblico direttamente o indirettamente connessi al tema delle concessioni del gioco d’azzardo di lavorare per le concessionarie una volta finito il mandato (e viceversa)”.
Il problema della trasparenza nel rapporto tra Stato e concessionari si dovrebbe porre comunque. In questo caso a renderlo urgente sono anche le vicende giudiziarie. L’amministratore delegato di Sisal Emilio Petrone, per esemio, è stato indagato per corruzione nell’inchiesta sulla Banca Popolare di Milano guidata da Massimo Ponzellini. E l’ex presidente Rodolfo Molo nel 1999, assieme all’allora direttore generale Fabrizio Motterlini, è stato ugualmente indagato, in quel caso per la creazione di fondi neri attraverso sovrafatturazioni con società estere. E’ chiaro che qua non si pone il problema della fondatezza delle accuse. Potrebbero anche essere prive di qualunque fondamento, ma il solo fatto che siano state formulate dimostra l’esigenza di meccanismi trasparenti, proprio per evitare che i delicatissimi meccanismi delle relazioni finanziarie vengano contaminati dal sospetto.
L’esame dettagliato degli assetti societari (per quel che è pubblico) delle concessionarie e delle loro relazioni politiche, individua l’esistenza di legami strettissimi, a volte di dipendenza diretta. O attività di sostegno e di finanziamento. Nel novembre scorso, un servizio de le Iene ha rivelato che nel 2004 Antonio Porsia, amministratore unico e proprietario della Hbg Gaming (venti sale Biongo e migliaia di slot sparse per l’Italia) erogò alla fondazione “Vedrò”, facente capo all’ex premier Enrico Letta un finanziamento di 20mila euro e anche un altro contributo (contestato da Letta) di 15mila euro per la campagna elettorale delle elezioni europee.
Si tratta di somme relativamente piccole. Però la vicenda ha fortemente imbarazzato l’allora premier. Anche perché in quello stesso periodo uno dei temi all’ordine del giorno era il cosiddetto “maxicondono” fiscale alle concessionarie del gioco d’azzardo. Così come suscitò parecchie polemiche l’ingresso di Porsia nel business del Bingo al tempo del governo D’Alema quando tra i ministri ce n’era uno, Tiziano Treu, che in passato aveva avuto lo stesso Porsia tra i collaboratori della sua segreteria. Ma la lista degli incroci tra politica e mondo del gioco d’azzardo è ben più lunga. Idonea a gettare un’ombra su qualunque decisione venga assunta in relazione a questo business. La trasparenza è l’unica, parziale, soluzione.
24 luglio 2014

COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

 

di Checchino Antonini, da Liberazione

 

Era il 5 febbraio del 2000, governava Massimo D’Alema, quando entrò in vigore la liberalizzazione del mercato dell’oro. Da allora i “compro oro” hanno preso a spuntare come i funghi contribuendo a ridisegnare il paesaggio metropolitano al tempo della crisi. Vendere i gioielli di famiglia non è solo la metafora della dismissione del patrimonio pubblico ma la pratica quotidiana di famiglie colpite dalla sindrome della quarta settimana – spesso della terza – di malati cronici ai quali viene negato l’accesso gratuito ai farmaci di fascia C, di malati di gioco d’azzardo, di cittadini strozzati dall’usura o imprenditori cui è negato il credito in banca. Ma è anche il luogo dell’intreccio tra queste disperazioni e il lavoro incessante dell’economia criminale per ricettare o ripulire le quantità di denaro provenienti da altri business delle cosche. Ancora meno del denaro contante, l’oro non puzza e nemmeno è tracciabile quando viene fuso.

«Non ci vuole una professionalità specifica e nemmeno una trafila burocratica complicata. Le direttive dell’Agenzia per le Entrate sono confuse ma basta una licenza ex articolo 127 del Tulps come una rivendita di preziosi usati. Non serve nemmeno la Dia, la dichiarazione al Comune di inizio attività». Una delle guide di Liberazione per questo articolo è Stefano, giovane commercialista romano di 38 anni che, con due amici di sempre, ha appena aperto un “compro oro” in un quartiere della prima periferia est della Capitale, Tor Pignattara. Quartiere popolare e sempre più mescolato di italiani, stranieri e nuovi italiani. Un mese dopo, Stefano mostra la foto sul cellulare del primo lingotto, il primo chilo ricavato dalla fusione in un “banco metalli”, il secondo passaggio della filiera per aprire il quale è necessaria, invece, una concessione governativa. Da lì l’oro viene acquistato dalle banche o prende la strada dei processi industriali. Le Banche centrali del mondo nel 2012 hanno comperato più oro di quanto abbiano fatto negli ultimi 49 anni, spinte dalla necessità di ricoprirsi alla luce della montante crisi del debito sovrano che ha colpito gli USA e l’Europa. La forte domanda ha fatto salire anche il prezzo al grammo, che oggi sfiora i 40 euro.

«L’utile non è molto alto, il 10%, ci sono commissioni fisse da pagare al banco metallo (dai 35 ai 50 cent al grammo), e la concorrenza si fa sempre più alta e agguerrita. Così il guadagno si aggira sui 2 euro e mezzo al grammo. Ma c’è offerta e si movimentano subito discrete quantità di denaro. Metti l’insegna e la gente entra subito, dipende dalla location e dalla pubblicità. Può sembrare assurdo ma ci sono clienti abituali, persone normali. Insomma non entrano fenomeni da baraccone».

Telecamere, casseforti, vetri blindati a norma, la fedina penale pulita e l’insegna ben visibile e riconoscibile. Gli ingredienti per aprire questa attività sono pochi e semplici da miscelare. Serve la padronanza minima per “grattare” l’oro, pesarlo e comprarlo in base ai due fixing quotidiani della Borsa di Londra che stabiliscono un prezzo volato dai 9 euro al grammo del 2001 ai 39,06 del giorno in cui viene scritto questo articolo. «In tempi di crisi salta il valore convenzionale delle cose e delle valute ma tutti si fidano ancora dell’oro che è ai massimi storici sebbene fluttui anch’esso».

«Arrivano ogni giorno anche signore disperate. C’è chi prova a vendere la fede del marito morto, proviamo a dissuaderla: “pensaci bene, ripassa domani” – prosegue il racconto di Stefano – la maggior parte è gente di mezz’età, molti indiani, ragazzini appena maggiorenni che vendono le catenine della comunione per comprare il motorino. E poi ci sono i tipi strani. Se qualcuno fa operazioni ricorrenti proviamo prima a fargli un prezzo sempre peggiore, per scoraggiarlo, e poi dobbiamo segnalarlo alla Banca d’Italia». Le regole impongono che il venditore abbia un documento italiano, che vengano fotografati gli oggetti e venduti solo dopo una giacenza di 10 giorni per eventuali controlli. Alcune questure chiedono di conservare le carte per dieci anni, procedura che presenta più di un dubbio rispetto alla privacy. «La prima “sòla”, sembra un luogo comune, ce l’ha data un napoletano con un anello solo placcato. Chissà se è autentico il documento che ci ha dato. Non ci spreco nemmeno il tempo di andare a sporgere denuncia». In tutta Italia i “compro oro” sono più 28.000 (poco più del 10% iscritti all’Albo degli operatori professionali) con picchi a Roma, Napoli e in Sicilia, luoghi ad alta presenza di malavita. Uno ogni 13.000 abitanti con un boom che insegue la crisi, dal 2008. Secondo la polizia, il 14% compie operazioni illegali. Un giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro all’anno per circa 400 tonnellate tra oro e argento. Più pessimista l’avvocato Ranieri Razzante presidente di AIRA, l’Associazione Italiana Responsabili Anti-riciclaggio, e consulente della Commissione Parlamentare Antimafia, «il 60% dei negozi compie azioni illecite o criminali. Ed è una stima per difetto». Un controllo solo 3.000 negozi ha scovato 113 milioni di euro non dichiarati, IVA evasa per 36,5 milioni e 31 evasori totali.

La gran parte dei compro oro lavora onestamente ma la deregulation scava ampie nicchie per il riciclaggio, la movimentazione di merce rubata, e per l’usura. Il turn over delle licenze osservato dalle questure, un terzo delle richieste, potrebbe servire proprio a sottrarsi allo sguardo di chi deve controllare. Basta un prestanome qualsiasi per aprire una “lavanderia”. Il riciclaggio è piuttosto semplice: si fa una prima operazione di compravendita regolare. Vengono trascritti per bene i dati sull’oggetto e il venditore sul registro obbligatorio vidimato dalla questura, poi con lo stesso documento si registrano decine di operazioni fittizie spesso a prezzi fuori mercato. Risulterà che l’ignaro primo venditore (ma può essere anche un morto, un nome inesistente o che non ha mai venduto nulla) ha portato in un mese alcuni chili d’oro. Gioielli mai esistiti ma che saranno contabilizzati dal titolare così da giustificare il denaro liquido in cassa quale frutto della fusione e della rivendita di oggetti mai arrivati e mai venduti. Soldi sporchi che all’improvviso ritornano in mano alle mafie immacolati e regolari, senza puzzare di racket.

Ogni anno in un singolo negozio girano in media 350.000 euro all’anno. Un dato considerato credibile dal “nostro” Stefano. Secondo la polizia dove apre un “compro oro” di solito si verificano aumenti di furti e rapine. A vederla da Bari, l’Osservatorio sulla legalità ha calcolato che, nel 2011, furti, scippi e rapine sono aumentati del 70% nelle zone ad alta concentrazione di “compro oro”. L’associazione SOS Racket e Usura ha filmato la facilità del riciclaggio, in vari negozi e con molta facilità, uno dei suoi attivisti è riuscito a vendere senza esibire la carta d’identità.

Ma i “compro oro” hanno eroso uno spazio tradizionalmente appannaggio del “monte”, come lo chiamano a Roma, il Monte di Pietà. Un impresario del settore è stato scoperto a Roma con 20 chili d’oro e 10 d’argento in cassaforte per un valore di 800.000 euro. Tra gli oggetti sequestrati anche gioielli che riceveva in pegno da persone in difficoltà economica e che rivendeva loro con un incremento del 20% del prezzo. Ce lo dice Italo Santarelli, attivo col CEIRP da 19 anni nella lotta contro l’usura. Racconta di come la stretta creditizia consegni famiglie e piccoli imprenditori nelle fauci del credito illegale, i “cravattari”. Chi ha bisogno di denaro liquido in tempi brevissimi e senza troppe domande si rivolge ai compro oro abusivi. Una funzione, quella tipica dei monti di pietà, vietata per legge ai privati.

 

In Parlamento giacciono da tempo nel cassetto due progetti di legge che vorrebbero far emergere dalla deregulation (ad esempio con l’obbligo di inviare entro 24 ore alla Questura ogni informazione sugli oggetti e un borsino dell’oro usato) un settore dove non tutto quello che luccica, è oro.

No allo stop, ai partiti 92 milioni di euro. Grillo: “Si tengono il malloppo”

No allo stop, ai partiti 92 milioni di euro. Grillo: “Si tengono il malloppo”

 

 

 

La Camera ha detto no allo stop della rata di luglio del finanziamento pubblico ai partiti (92 milioni di euro). Lo aveva proposto il Movimento 5 Stelle ma la risposta di tutti gruppi politici, compresa Sel, è stata negativa. La proposta è stata bocciata a stragrande maggioranza e quindi i partiti incasseranno i soldi (in gran parte già scontati dalle banche) previsti dalla vecchia legge. Andrà in vigore infatti solo nel 2017 la riforma del finanziamento pubblico secondo il provvedimento varato recentemente dal governo (finanziamento indiretto ai partiti con contributo volontario dei cittadini). La mozione dell’esecutivo in tal senso è passata con il voto di Pd, Pdl e Scelta Civica. Ma c’è stata bagarre in aula, anche prima del voto. I deputati grillini parlando si “furto” ai danni degli italiani hanno abbandonato gli scranni sciamando verso l’uscita e lasciando sui banchi del governo decine d false banconote da 500 euro. La protesta dei deputati 5 Stelle è proseguita anche all’esterno di Montecitoro con un flash-mob. “Noi abbiamo restituito 42 miloni di euro, loro, tutti gli altri, si sono tenuti il malloppo di 92 milioni” ha detto Beppe Grillo.

Fondi pensione, da inizio 2013 i mercati premiano i previdenti

Fondi pensione, da inizio 2013 i mercati premiano i previdenti

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Argomenti: Previdenza complementare | Milano Assicurazioni | Borsa Valori

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Fondi pensione, da inizio 2013 i mercati premiano i prudenti - Tutto sulla previdenza integrativa

Osservare i rendimenti dei fondi pensione di uno o due trimestri è un po’ come il calcio d’agosto: conta davvero poco ai fini del risultato finale delle grandi competizioni di stagione. Eppure possono fornire indicazioni utili di periodo per, se è il caso, aggiustare il tiro sul percorso di lungo termine. Le prime indicazioni che arrivano sulle performance dei fondi pensione da inizio 2013 registrano un rendimento medio dell’1,6% mentre tra i fondi di categoria si stima una crescita vicina all’1,4%, leggermente sopra le stime sul tasso di rivalutazione del Tfr, vicino all’1,3%. Ma al di là delle media è interessante notare quali comparti sono andati meglio in questo breve periodo.

Il rischio batte la prudenza 
L’andamento dei mercati finanziari ha premiato soprattutto le linee azionarie, cresciute tra gli aperti del 4,9% con punte del 9,5% per Arca, davanti a UniCredit (+9,2%); ci sono anche risultati meno soddisfacenti in questa sezione con i +0,6% di Fondiaria e Milano Assicurazioni. Complessivamente un risultato confortante, quello ottenuto dai gestori dei fondi pensione, visto che include la sensibile frenata del mercato azionario internazionale registrata a fine giugno. I comparti più prudenti dei fondi pensione aperti hanno fatto registrare andamenti molto più piatti, con la maggioranza in territorio negativo: in testa c’è Arca con il +1,3% mentre in coda troviamo Toro con -1,74%. Segno che la “prudenza” ha pagato poco o, per meglio dire, l’andamento del mercato obbligazionario è stato meno positivo almeno rispetto allo scorso anno, quando il rally dei titoli di Stato europei – italiani in particolare – si è tradotto in rialzi a doppia cifra per i fondi pensione che nei BTp, in particolare, investono una porzione considerevole del proprio portafoglio.

 
 

Il medio termine e il “money weighted” 
Più sfaccettati i risultati a medio termine: se a uno e tre anni i fondi pensione aperti registrano rendimenti medi superiori rispettivamente al 7 e all’11%, a partire dal 2007 le performance sono ancor più a macchia di leopardo: l’esplosione della crisi ha messo a dura prova le gestioni, sia quelle a maggior componente azionaria che quelle più esposte ai bond, con un rendimento medio che si attesta in ogni caso vicino a un +11%. Da segnalare tuttavia che queste performance sono analizzate secondo il criterio del “time weighted“, basato cioè sulla differenza nel tempo dei valori quota del fondo. Se invece si utilizza la modalità “money weighted” i risultati sono differenti: confrontando quanto versato periodicamente con quanto ammonta il saldo complessivo di periodo, chi ha destinato Tfr e contributi volontari alla previdenza complementare ottiene un rendimento ben superiore, analogamente a quanto accade in un piano di accumulo di capitale (Pac). Solo nel 2008 il confronto sarebbe stato premiante la rivalutazione del trattamente di fine rapporto rispetto alla performance dei fondi pensione, mentre in ogni altra fase le pensioni di scorta hanno ottenuto risultati superiori di chi ha versato il proprio Tfr allo Stato (se attivo in aziende con almeno 50 addetti) o al proprio datore di lavoro. Da ricordare che se si destina oltre al Tfr un contributo volontario anche minimo, il datore di lavoro versa periodicamente nella sua posizione una quota definita dal contratto nazionale di lavoro, mediamente l’1,5%.

I big dei negoziali 
Il trend positivo di questa prima metà del 2013 è confermato anche dai primi risultati relativi ai fondi pensione di categoria più importanti: per Fonchim (chimici) il comparto bilanciato Stabilità, cui sono iscritti oltre 135mila lavoratori, da inizio anno si registra un +1,33%; il comparto Crescita, con una componente azionaria maggiore, sale del 3,6% mentre il Garantito è invariato. Risultati positivi anche per Cometa (metalmeccanici) il comparto Monetario Plus, cui sono iscritti 180mila “previdenti”, sale dello 0,5% mentre il Reddito – 170mila iscritti – segna un +0,15%; meglio le altre due linee: il comparto garantito Sicurezza sale dell’1,3% mentre il Crescita – dove le azioni possono raggiungere la metà del portafoglio – registra un +2,4%. Da ricordare che azioni e obbligazioni governative europee sono gli ingredienti quasi esclusivi del portafoglio degli strumenti previdenziali di secondo pilastro. Una revisione dei criteri e limiti di investimenti è alle porte: prossimamente i fondi pensione potranno investire entro limiti determinati anche in paesi emergenti, in fondi coperti (hedge) e in strumenti immobiliari. L’obiettivo di rendere più ampio l'”universo investibile” è quello di diversificare meglio i portafogli, riducendo di conseguenza il rischio e rendendo le gestioni più stabili.

Equitalia molla i Comuni: le multe si pagano?

Equitalia molla i Comuni: le multe si pagano?

17 maggio 2013 | Pubblicato da:  | Commenti: 10 | In: Blog

Equitalia molla i Comuni: le multe si pagano?

Dal 1° luglio Equitalia, la società pubblica incaricata alla riscossione dei tributi, cesserà la sua attività per i Comuni Italiani. L’obiettivo è quello di riportare l’autonomia fiscale, ma non tutte le amministrazioni sono pronte. Circa 6 mila sindaci, sugli ottomila che avevano esternalizzato la riscossione dei tributi, non hanno ancora trovato un soluzione o scelto un’alternativa.

Equitalia avrebbe dovuto “abbandonare” i Comuni italiani già alla fine del 2011, in base al decreto sviluppo di quell’anno, ma dopo due proroghe sta per arrivare la data dei (potenziali) saluti finali. Il 30 giugno 2013 è il termine ultimo per quei 6 mila Comuni per i quali Equitalia effettua ancora la riscossione, spontanea o coattiva, dei tributi. Dal giorno seguente, le amministrazioni potranno inglobare il servizio all’interno delle gestione comunale, operazione che richiederebbe un investimento di capitali e assunzione di personale, oppure servirsi di un soggetto esterno selezionabile tramite una gara pubblica.

A questo buco normativo se ne aggiunge un altro ancora più preoccupante, ovvero lo stop previsto per le riscossioni inferiori ai 2 mila euro. Un’azione volta a smorzare le tensioni sociali, venutesi a creare a causa delle innumerevoli cartelle esattoriali ricevute dai cittadini, ma che va a creare una voragine nelle casse comunali che rischiano di vedere ancora meno soldi in entrate. Risulterà ancora più difficile riscuotere i crediti relativi alle multe non pagate, visto che mediamente un verbale generico compreso di more e interessi non arriverebbe mai sopra i duemila euro. Il caos normativo premia sempre i più furbi, ovvero coloro i quali non pagheranno più le multe perché non soggette a cartelle esattoriali.

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Gli automobilisti cestinano le multe perché Equitalia abbandona i Comuni italiani. http://bit.ly/YMeCmR via @6sicuro

Molti sono gli automobilisti che, venuti a conoscenza della “falla” nel sistema, hanno deciso di cestinare le contravvenzioni ricevute. Un gesto dettato non solo dalla mancanza di senso civico, ma anche dalla comunicazione di Equitalia che ha chiesto alle Amministrazioni di fermare l’inoltro di ruoli a partire dal 20 maggio. Una situazione complessa in cui ci sono realtà amministrative che riescono a gestire autonomamente la riscossione dei crediti, altre che non hanno fondi per la formazione di nuovo personale. Un giochetto che potrebbe costare il 20% degli 1,5 miliardi di euro notificati tramite contravvenzioni, che mediamente non vengono pagati nell’arco di un anno.

Non pagare una multa oggi potrebbe sembrare la scelta più ovvia per i furbi, ma apporterebbe ben più gravi conseguenze una volta appianato il caos normativo.
Infine, non si esclude una nuova proroga per l’operato di Equitalia che continuerebbe a riscuotere i tributi fino a nuove disposizioni.

Addio Equitalia, per le multe vecchie c’è il rischio prescrizione Quelle nuove vanno pagate

Addio Equitalia, per le multe vecchie c’è il rischio prescrizione Quelle nuove vanno pagate

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Argomenti: Polizia Stradale | Vigili Urbani | Polizie

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Chi potrà “beneficiare” del blocco della riscossione delle multe stradali che scatterà lunedì prossimo, 20 maggio? E come dovrà comportarsi? Ma poi converrà davvero non pagare oppure si rischia di essere “beccati” comunque, magari tra qualche anno, dovendo quindi aggiungere all’importo della multa gli interessi e le spese di riscossione? Le risposte sono piuttosto articolate. vediamole una per una.

Per chi si blocca la riscossione

 
 

Il blocco della riscossione riguarda solo Comuni e Province, per cui si fermeranno le procedure relative alle infrazioni accertate dagli agenti di polizia locale (cioè vigili urbani e personale delle Polizie provinciali); quelle rilevate dagli altri organi di polizia stradale sono di competenza statale.

Ma non basta sapere da chi si è stati multati: è necessario considerare anche quando è stata commessa l’infrazione. Infatti, quando parliamo di riscossione di multe stradali, parliamo dell’ultima fase di un procedimento che spesso dura anche anni: l’agente della riscossione è l’anello terminale di una catena che comincia dall’agente di polizia che rileva l’infrazione.

Di fatto, la palla passa all’agente della riscossione quando c’è la ragionevole sicurezza che la multa non sarà pagata. Non c’è una tempistica assolutamente precisa: il Codice della strada (articolo 206) si limita a dire che, quando trascorrono i termini per il pagamento, la somma va messa a ruolo (cioè nell’elenco degli importi da incassare) e che il ruolo poi passa all’agente della riscossione.

Già i termini per il pagamento sono variabili: se non si presenta ricorso, ci sono 60 giorni a partire dalla notifica del verbale, che quando si viene fermati subito coincide con la data dell’infrazione, altrimenti è il giorno nel quale si riceve materialmente in mano l’atto dal postino o dal messo notificatore (se ciò non accade, il conteggio parte da quanto trascorrono 10 giorni di giacenza del plico nell’ufficio postale); in caso di ricorso perso, ci sono 150 giorni dalla sentenza per notificarla e da quest’ultima notifica ci sono 30 giorni per pagare.

A tutto questo va aggiunto che il ruolo non viene compilato immediatamente dopo la scadenza del termine di pagamento: si attende sempre un certo periodo (a discrezione dell’ente che procede) per vedere se il trasgressore paga spontaneamente, sia pure in ritardo (cosa che di fatto comportsa il raddoppio della sanzione). Ulteriore tempo (sempre a discrezione dell’ente) passa dalla compilazione del ruolo al suo affidamento all’agente della riscossione. L’unico vincolo alla discrezionalità dell’ente sui tempi di compilazione e affidamento del ruolo è la prescrizione: passati cinque anni dalla data dell’infrazione (salvo casi particolari), la multa diventa inesigibile. Occorre quindi organizzare la riscossione per tempo.

Il blocco che scatta lunedì colpisce proprio questa fase, quindi tutti i verbali che gli agenti della riscossione “hanno in pancia”. Alla luce di tempi e procedure citati sopra, si può dire che siano grossomodo verbali non pagati al massimo negli ultimi cinque anni, più quelli che devono essere ancora notificati all’interessato.

Come comportarsi

In teoria, il blocco della riscossione comporta il mancato avvio delle attività del riscossore. In sostanza, non vengono spedite le cartelle di pagamento. Quindi, il cittadino deve solo “stare fermo”.

Conviene non pagare il verbale?

Questo non significa che basti non pagare per farla definitivamente franca. Infatti, tutto dipende da quando Comuni e Province (o lo Stato, prendendo in mano la situazione e magari emanando nuove norme) colmeranno il buco che si apre da lunedì incaricando nuovi agenti della riscossione o trovando altre soluzioni. Bisognerà poi vedere quando i nuovi soggetti incaricati diventeranno operativi e, soprattutto, se riusciranno a ricostruire completamente i ruoli arretrati (operazione difficile). Chi non vuole pagare deve sperare che fino a quel momento trascorrano i cinque anni che fanno scattare la prescrizione oppure che, nel passaggio da un riscossore all’altro, la sua posizione si perda.

Questo significa che, se si è stati multati in questi giorni e la sanzione è fondata, conviene pagare subito, senza attendere che si arrivi alla fase della cartella di pagamento: difficilmente il caos della riscossione durerà di qui a cinque anni.

Addio Equitalia, per le multe vecchie c’è il rischio prescrizione Quelle nuove vanno pagate

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Argomenti: Polizia Stradale | Vigili Urbani | Polizie

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Chi potrà “beneficiare” del blocco della riscossione delle multe stradali che scatterà lunedì prossimo, 20 maggio? E come dovrà comportarsi? Ma poi converrà davvero non pagare oppure si rischia di essere “beccati” comunque, magari tra qualche anno, dovendo quindi aggiungere all’importo della multa gli interessi e le spese di riscossione? Le risposte sono piuttosto articolate. vediamole una per una.

Per chi si blocca la riscossione

 
 

Il blocco della riscossione riguarda solo Comuni e Province, per cui si fermeranno le procedure relative alle infrazioni accertate dagli agenti di polizia locale (cioè vigili urbani e personale delle Polizie provinciali); quelle rilevate dagli altri organi di polizia stradale sono di competenza statale.

Ma non basta sapere da chi si è stati multati: è necessario considerare anche quando è stata commessa l’infrazione. Infatti, quando parliamo di riscossione di multe stradali, parliamo dell’ultima fase di un procedimento che spesso dura anche anni: l’agente della riscossione è l’anello terminale di una catena che comincia dall’agente di polizia che rileva l’infrazione.

Di fatto, la palla passa all’agente della riscossione quando c’è la ragionevole sicurezza che la multa non sarà pagata. Non c’è una tempistica assolutamente precisa: il Codice della strada (articolo 206) si limita a dire che, quando trascorrono i termini per il pagamento, la somma va messa a ruolo (cioè nell’elenco degli importi da incassare) e che il ruolo poi passa all’agente della riscossione.

Già i termini per il pagamento sono variabili: se non si presenta ricorso, ci sono 60 giorni a partire dalla notifica del verbale, che quando si viene fermati subito coincide con la data dell’infrazione, altrimenti è il giorno nel quale si riceve materialmente in mano l’atto dal postino o dal messo notificatore (se ciò non accade, il conteggio parte da quanto trascorrono 10 giorni di giacenza del plico nell’ufficio postale); in caso di ricorso perso, ci sono 150 giorni dalla sentenza per notificarla e da quest’ultima notifica ci sono 30 giorni per pagare.

A tutto questo va aggiunto che il ruolo non viene compilato immediatamente dopo la scadenza del termine di pagamento: si attende sempre un certo periodo (a discrezione dell’ente che procede) per vedere se il trasgressore paga spontaneamente, sia pure in ritardo (cosa che di fatto comportsa il raddoppio della sanzione). Ulteriore tempo (sempre a discrezione dell’ente) passa dalla compilazione del ruolo al suo affidamento all’agente della riscossione. L’unico vincolo alla discrezionalità dell’ente sui tempi di compilazione e affidamento del ruolo è la prescrizione: passati cinque anni dalla data dell’infrazione (salvo casi particolari), la multa diventa inesigibile. Occorre quindi organizzare la riscossione per tempo.

Il blocco che scatta lunedì colpisce proprio questa fase, quindi tutti i verbali che gli agenti della riscossione “hanno in pancia”. Alla luce di tempi e procedure citati sopra, si può dire che siano grossomodo verbali non pagati al massimo negli ultimi cinque anni, più quelli che devono essere ancora notificati all’interessato.

Come comportarsi

In teoria, il blocco della riscossione comporta il mancato avvio delle attività del riscossore. In sostanza, non vengono spedite le cartelle di pagamento. Quindi, il cittadino deve solo “stare fermo”.

Conviene non pagare il verbale?

Questo non significa che basti non pagare per farla definitivamente franca. Infatti, tutto dipende da quando Comuni e Province (o lo Stato, prendendo in mano la situazione e magari emanando nuove norme) colmeranno il buco che si apre da lunedì incaricando nuovi agenti della riscossione o trovando altre soluzioni. Bisognerà poi vedere quando i nuovi soggetti incaricati diventeranno operativi e, soprattutto, se riusciranno a ricostruire completamente i ruoli arretrati (operazione difficile). Chi non vuole pagare deve sperare che fino a quel momento trascorrano i cinque anni che fanno scattare la prescrizione oppure che, nel passaggio da un riscossore all’altro, la sua posizione si perda.

Questo significa che, se si è stati multati in questi giorni e la sanzione è fondata, conviene pagare subito, senza attendere che si arrivi alla fase della cartella di pagamento: difficilmente il caos della riscossione durerà di qui a cinque anni.

Troppi problemi economici, coniugi si tolgono la vita Dopo la notizia suicida anche il fratello della donna

Troppi problemi economici, coniugi si tolgono la vita Dopo la notizia suicida anche il fratello della donna

Il biglietto: “Scusaci per quello che abbiamo fatto”

Romeo Dionisi e Anna Maria Sopranzi, disoccupato di 63 anni lui e pensionata di 68 lei, si sono impiccati. A trovare i corpi i vicini di casa. Gli amici: “Non si erano mai rivolti ai servizi sociali , lui si vergognava anche di chiedere un euro”. Il fratello della donna, Giuseppe Sopranzi, si è gettato al porto

 

di Lorena Cellini

 
Civitanova: crisi, coniugi si tolgono la vita. Suicida anche il fratello della donna
Al porto (Foto Vives)

Civitanova Marche (Macerata), 5 aprile 2013 – Marito e moglie si sono tolti la vita a Civitanova Marche a causa di problemi economici. I coniugi, Romeo Dionisi 63 anni e Anna Maria Sopranzi di 68 anni, si sono impiccati. Appresa la notizia si è tolto la vita gettandosi al porto anche il fratello della donna, Giuseppe Sopranzi, 73 anni.

A trovare i corpi dei due coniugi nel garage del loro appartamento in via Calatafimi, sono stati i vicini di casa, che hanno subito avvisato i carabinieri. “Scusaci per quello che abbiamo fatto”, queste le parole scritte su un biglietto lasciato sull’auto di una vicina di casa amica di Anna Maria. In fondo al messaggio, il cellulare della sorella della donna.

Romeo Dionisi, muratore artigiano, era al momento disoccupato: aveva lavorato fino a settembre in una ditta edile di Napoli; dopo la chiusura dell’azienda, non aveva più percepito lo stipendio. La moglie, ex artigiana, aveva una modestissima pensione: 400-500 euro. Questa la cifra con cui riuscivano ad andare avanti. La coppia, senza figli, aveva due mutui sulle spalle più i contributi che l’uomo, lavorando con la partita Iva, doveva pagare. Sembra non avessero neppure i soldi per pagare l’affitto. Abitavano nello stesso palazzo del presidente del consiglio comunale di Civitanova, Ivo Costamagna, che di recente aveva parlato con loro e li aveva invitati in Comune per parlare con i servizi sociali, ma i coniugi gli avevano riposto che non lo avrebbero fatto perché si vergognavano. A confermarlo le parole degli amici: “Non si erano mai rivolti ai servizi sociali, lui si vergognava anche di chiedere un euro”. Aiuti finanziari arrivavano però sia dai vicini di casa che dagli amici.

Secondo gli investigatori non vi sono dubbi che si sia trattato di un doppio suicidio, e che la cause vanno ricercate nelle precarie condizioni economiche della coppia. I sanitari del 118, intervenuti sul posto, non hanno potuto far altro che constatare il decesso.

I funerali di Romeo Dionisi, Anna Maria e Giuseppe Sopranzi si svolgeranno sabato alle 16:30. Il corteo funebre partira’ dall’obitorio cittadino, dove le tre salme sono state ricomposte, diretto alla Chiesa di San Pietro, affacciata su piazza XX Settembre, la parrocchia che Anna Maria e Romeo frequentavano. Sarà presente il presidente della Camera Laura Boldrini.