Pil, la Germania frena: -0,2%. E la Francia si ferma. Bce: “Riforme”

Pil, la Germania frena: -0,2%. E la Francia si ferma. Bce: “Riforme”

L’economia francese ferma per il secondo trimestre consecutivo, quella tedesca arretra per la prima volta dal 2012. Appello di Parigi all’Ue: “Ora più flessibilità”

Roma, 14 agosto 2014 – Non solo per l’Italia, va male anche per Francia e Germania. I dati del Pil nel secondo trimestre 2014 in Francia, diffusi questa mattina dall’istituto di statistica francese Insee, segnano che l’economia francese è ferma per il secondo trimestre consecutivo, a fronte di un atteso +0,1%. Il dato invariato rispetto al trimestre precedente segue la crescita zero già registrata nel primo trimestre dell’anno rispetto all’ultimo trimestre del 2013.

GERMANIA – I dati sono ancora più funesti per la Germania, dove il Pil scende dello 0,2% nel secondo trimestre 2014 rispetto al trimestre precedente. Il dato è peggiore delle attese che indicavano una possibile flessione del -0,1%. La crescita del primo trimestre rispetto all’ultimo del 2013 è stata rivista dal +0,8 al +0,7%. Con il dato di oggi l’economia tedesca arretra per la prima volta dal 2012.

APPELLO ALL’UE – Sulla scia dei dati che mostrano un’economia stagnante, il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, taglia le previsioni di crescita di fine anno, portandole “intorno allo 0,50%” dall’iniziale +1%, e sollecita risposte dall’Europa, dal rafforzamento dell’azione della Bce ad un adattamento delle regole di budget alla situazione economica, quindi maggiore flessibilità rispetto ai vincoli che gravano sui conti pubblici. “La crescita è caduta in Europa e in Francia”, scrive Sapin a Le Monde. “Con una crescita zero nel secondo trimestre – aggiunge il ministro – che estende la stagnazione dei primi tre mesi, il paese rallenta e non raggiungeremo l’obiettivo dell’1% previsto tre mesi fa”. “Quest’anno la crescita della Francia – dice ancora – sarà intorno allo 0,50% e niente ci autorizza a prevedere, al momento, una crescita di molto superiore all’1% nel 2015”. Sapin inoltre rialza al 4% le previsioni del deficit di quest’anno. In precedenza Parigi aveva stimato un deficit al 3,8% e si era impegnata ad abbassarlo al 3%.

Il governo francese chiede quindi che l’Europa agisca “con fermezza e chiarezza adattando le sue decisioni alle circostanze profondamente particolari ed eccezionali”. E in particolare chiede di “adattare il ritmo di riduzione del disavanzo pubblico all’attuale situazione economica”. Alla Bce, che comunque “ha preso buone decisioni”, la Francia chiede oggi un intervento più deciso per far fronte al rischio deflazione e per riportare il cambio dell’euro a “un livello più favorevole”, Sul fronte interno, il ministro delle Finanze francese indica che il Governo andrà avanti con le riforme, che taglierà ancora la spesa pubblica per 50 miliardi, e che non ricorrerà a un aumento delle tasse per riequilibrare i conti pubblici.

EUROZONA – Secondo quanto rivelano le stime di Eurostat, l’economia dell’Eurozona a 18 paesi resta ferma nel secondo trimestre rispetto ai precedenti tre mesi e sale dello 0,76% su base annua. Le previsioni degli analisti erano di una crescita trimestrale dello 0,1%. Nell’Unione europea a 28 paesi il Pil cresce dello 0,2% trimestrale e dell’1,2% annuale. Cala ancora a il tasso d’inflazione annuale nell’Ue-18: 0,4% a luglio, contro lo 0,5% di giugno. Si tratta del tasso più basso dall’ottobre 2009. A luglio 2013 era a 1,6%. Il tasso di inflazione mensile a luglio è stato di -0,7%, il tasso annuale era a 0,6%, contro lo 0,7% di giugno. L’anno precedente era a 1,7%, mentre il tasso di inflazione mensile è stato del -0,5% a luglio. Italia invariata. “Ci troviamo davanti ad un quadro misto e come abbiamo sempre sottolineato che la natura della ripresa è fragile. I dati devono essere considerati in un quadro economico di medio termine ed è importante attuare le riforme”, sottolinea l’Ue. “L’attuale aggiustamento nell’Eurozona è una storia di profondo cambiamento strutturale. Ci sono fondamenta sane perché la ripresa vada avanti. Sviluppi di situazioni all’estero possono accrescere l’incertezza, ma le nostra fondamenta restano intatte”, aggiunge un portavoce della Commissione sui risultati del Pil dell’Eurozona.

LA RICETTA BCE – La ricetta della Bce per l’Eurozona è quella di dare più slancio alle riforme strutturali per promuovere gli investimenti privati e creare posti di lavoro, procedendo però in linea con il Patto di Stabilità e di crescita e senza vanificare i progressi conseguiti nei conti pubblici. “Per quanto riguarda le finanze pubbliche – si legge nell’ultimo bollettino dell’Eurotower – in anni recenti un complessivo risanamento ha contribuito alla riduzione degli squilibri di bilancio. Importanti riforme strutturali hanno potenziato la competitività e la capacità di aggiustamento dei mercati nazionali del lavoro e dei beni e servizi. E’ ora necessario che questi sforzi acquisiscano slancio per incrementare il potenziale di crescita dell’area dell’euro. Le riforme strutturali dovrebbero mirare innanzitutto a promuovere gli investimenti privati e la creazione di posti di lavoro”.

“Al fine di ripristinare finanze pubbliche sane – prosegue il bollettino della Bce – i paesi dell’area dell’euro dovrebbero procedere in linea con il Patto di stabilità e crescita senza vanificare i progressi conseguiti nel riequilibrio dei conti pubblici. Il risanamento di bilancio va impostato in modo da favorire l’espansione economica. La piena e coerente applicazione dell’attuale quadro di sorveglianza macroeconomica e dei conti pubblici dell’area dell’euro è indispensabile per ridurre gli elevati rapporti debito/PIL, aumentare la crescita potenziale e rafforzare la capacità di tenuta dell’area agli choc”.

E Renzi in tour al Sud ha commentato: “Ho visto in questi giorni scenari inquietanti sull’Italia per aver fatto -0,2% di Pil. Stamattina vedo che anche la Germania fa -0,2. Io farei a cambio volentieri in termini di dimensioni economiche, ma non è la percentuale dello ‘zero virgola’ che fa la differenza, ma è il clima di rassegnazione nell’opinione pubblica, di chi pensa, a cominciare dalle classe dirigenti, che tanto non cambierà mai”.

Articolo 18, ma che pena il livello culturale dei nostri imprenditori

Articolo 18, ma che pena il livello culturale dei nostri imprenditori

Un giornalista avveduto come Massimiliano Gallo mi racconta d’aver letto sul Mattino un’intervista a tutta pagina con Antonio D’Amato, imprenditore ed ex presidente di Confindustria. I temi, quelli soliti: la crisi economica, la fatica improba di fare impresa, le tasse che ti strozzano.  Naturalmente, la massima disponibilità, da parte degli imprenditori, “a fare la nostra parte”, dice D’Amato, a patto che. A patto che ci diano libertà di licenziare. Di tutto il gran discorso, questo era il punto fondamentale. Considerazione di Gallo: possibile che invece che trasmettere le proprie sensazioni rispetto all’innovazione, allo sviluppo sociale, insomma con lo sguardo proiettato nel futuro, un uomo che fa impresa ponga al centro della sua esistenza professionale la libertà di licenziare, quasi fosse una soddisfazione personale, una resa dei conti attesa da anni, quasi una ripicca sociale?

Oggi sul Corriere, intervista a Matteo Zoppas, industriale, presidente di Confindustria Venezia e consigliere delegato delle acque minerali San Benedetto, l’azienda di famiglia. L’argomento di partenza è ovviamente l’articolo 18. “Lo si abolisca senza se e senza ma – dice Zoppas – perché è ora di flessibilizzare in uscita, in modo da liberalizzare in entrata”. Sin qui nulla di particolarmente nuovo, nè tanto meno di così scandaloso. Ma poi ci prende gusto, il nostro Zoppas, e alla domanda se non sia  paradossale poter licenziare liberamente per rimettere in carreggiata il Paese, comincia a farsi prudere le mani: “No, si tratta soltanto di concedere alle imprese efficaci riorganizzazioni aziendali seguendo gli spostamenti della domanda, dando la possibilità all’imprenditore di chiudere rami non più remunerativi per scommettere in altri che ritiene più redditizi. E ciò – conclude – lo si fa senza articolo 18″.

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Traduzione simultanea; io imprenditore scommetto sullo sviluppo di un prodotto, investo e dunque assumo alla bisogna. Ma il mercato mi dà una risposta amara, mi certifica che ho scommesso avventatamente, perché il prodotto non sfonda. Quindi si dà “all’imprenditore la possibilità di chiudere rami non più remunerativi…” In buona sostanza silicenziano tutti quelli, o buona parte di quelli che erano stati assunti in quel contesto. Ma andiamo avanti, perché le sorprese non sono finite. Il giornalista del Corriere pone giudiziosamente un’altra domanda e cioè se per far questo non fosse già sufficiente la legge Fornero e qui Zoppas, rappresentante di Confindustria Venezia, dà il meglio: “I costi di contenzioso sono ancora alti, come gli indennizzi riconosciuti ai lavoratori”.

Altra traduzione simultanea: la legge Fornero, che era un buon punto di sintesi tra le varie esigenze (questione esodati a parte), prevedeva appunto indenizzi sensibili in modo da scoraggiare la vena liquidatoria dei nostri bravissimi imprenditori quando le cose non filano. Ma adesso Zoppas ci certifica che quelle soglie sono troppo alte, per cui vanno riviste, se non abbattute.

Traduzione delle traduzioni: l’imprenditore così lo so fare anch’io.

Per tamponare la ciclopica depressione in cui sono caduto, dopo aver verificato il livello culturale dei nostri “migliori” uomini d’impresa, mi sono letto un’intervista di Repubblica a Pietro Ichino, fatta tra l’altro da Griseri, giornalista che sa di lavoro. Qui le cose si sono fatte molto più decenti, sia sotto il profilo del rispetto umano – si parla di lavoratori e non di pacchi da spedire – sia sotto l’aspetto della competenza. E il professor Ichino, certo un uomo non troppo amato a sinistra, analizza le due strade possibili. Quella “che va sotto il nome di Tito Boeri e Pietro Garibaldi prevede che dall’inizio del quarto anno torni ad applicarsi integralmente l’articolo 18. Se si sceglie questa soluzione – analizza Ichino – il rischio è che la parte più debole della forza-lavoro non riesca mai a superare lo “scalone” fra il terzo e il quarto anno. A me dunque sembra preferibile la soluzione che vede crescere gradualmente il costo del licenziamento a carico dell’azienda (capito Zoppas, ndr), e al tempo stesso il sostegno economico e professionale di cui gode il lavoratore licenziato, con il ‘contratto di ricollocazione’”.

Lunga sarà la strada prima di trovare un dignitoso punto di sintesi, soprattutto se il livello degli imprenditori è questo.

Che cosa penso dell’articolo 18

Che cosa penso dell’articolo 18 (e non solo). L’analisi di Alessandra Servidori

16 – 08 – 2014Fernando Pineda

Che cosa penso dell'articolo 18 (e non solo). L'analisi di Alessandra Servidori

Ecco la conversazione con Alessandra Servidori, docente di politiche del welfare pubblico e privato, su articolo 18 e non solo.

Che ne pensa del dibattito sull’articolo 18? È davvero una priorità? È ormai solo un totem come dice Renzi che intende modificare l’intero impianto dello Statuto dei lavoratori?

Sicuramente tutta la materia del lavoro è una priorità ma andiamo per ordine: non sia usata la clessidra agosiana come si fece per il famoso art. 8 del decreto 138/2011 poi nella manovra economica convertito dalla Legge 14 settembre 2011, n. 148 che scatenò reazioni feroci e ci fece perdere tempo prezioso per una riforma equilibrata del lavoro.

Che successe all’epoca?

Le opposizioni in quell’agosto caldissimo gridarono al sovvertimento dell’ordine delle fonti del diritto, attentato ai diritti dei lavoratori, proposero il referendum contro il famigerato l’art. 8, appelli contro tale norma etc., ma  la stessa lettera di Trichet e Draghi al Primo Ministro Italiano di quell’estate ancora oggi dopo tre anni attualissima, era chiara nel chiedere tale cambiamenti come necessari.

Di quali cambiamenti parla?

Ricordo testualmente in tale lettera:

a) “È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena
liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione.
L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si
muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

E allora?

Bene, l’art. 8 del D.L. n. 138/2011 ha dato una svolta fondamentale al sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità, ha riconosciuto un maggior potere alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale statuisce che i contratti collettivi di lavoro, aziendali o territoriali, sottoscritti da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda possono realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario. Sono inoltre espressamente disciplinabili dalla contrattazione aziendale e territoriale le materie inerenti: “a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio.
Il comma 3 dello stesso art. 8 ha stabilito che le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.
Inoltre in data 21 settembre 2011, Confindustria e sindacati firmarono, in via definitiva, l’Accordo Interconfederale di quel giugno su contratti e rappresentanza, diventando così lo stesso pienamente operativo.

Ma perché allora ripensare a tutto di nuovo?

Andiamo avanti, altroché! E sicuramente con equilibrio affrontiamo così anche lo Statuto dei lavori – attenzione, non lo Statuto dei lavoratori – che si porta dietro necessariamente anche la modifica dell’innominabile 18: sbagliato cercare soluzioni triennali già superate dai contratti e apprendistato. Il problema non si pone in relazione alla prima fase lavorativa ma per l’intero arco di vita nel quale può sempre prodursi la rottura del necessario rapporto di fiducia Sono sicura che in Commissione Lavoro del Senato con Sacconi si troverà la soluzione condivisa e magari in settembre quando si riprendono i lavori

Il prof Tiraboschi a Formiche.net ha detto che la situazione economica e politica è cambiata rispetto al 2001 quando c’era le basi per poter intervenire con incisività, e comunque ora Renzi ha già vinto la partita con i sindacati anche su articolo 18. Che ne pensa?

Renzi purtroppo per ora non ha vinto ancora la partita con i sindacati e nemmeno con la Confindustria filo/sindacale. Con la sua irruenza ha però messo in pista la questione che è assolutamente diversa però al 2001. Voglio ricordare che in quell’anno l’Unione europea registrò nel 2000 una crescita economica del 3,5% circa e sono stati creati 2,5 milioni di posti di lavoro, oltre due terzi dei quali occupati da donne. La disoccupazione è scesa al livello minimo dal 1991. Gli sforzi di riforma nell’Unione stavano dando risultati e l’allargamento poteva creare nuove opportunità di crescita e occupazione tanto nei paesi candidati quanto negli Stati membri. Da noi con Marco Biagi che lavorò all’applicazione del “Libro bianco” in un momento assai delicato per la situazione politica ed economica per il nostro Paese, per l’Europa e per il mondo intero. Il quadro di riferimento era caratterizzato, da un lato dagli obbiettivi individuati con il vertice di Lisbona che avevano fissato al 70% il tasso di occupazione per i paesi UE al 2010, dall’altro dai problemi strutturali del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da un ridotto tasso di occupazione, da un divario di genere in termini occupazionali e da squilibri territoriali. Già dall’estate del 2001, il Governo ha tentato di individuare una strategia efficace per riallineare un tasso di occupazione che, nel 2000, in Italia era ancora al 53,3% rispetto ad una media europea del 63,3%, che ancora oggi, si colloca fra le ultime posizioni.

Veniamo al dunque. Qual è la sua conclusione?

È apparso subito evidente, quanto sarebbe stato difficile sviluppare fra le parti un confronto di merito e non soltanto ideologico sulle riforme. Ciò nonostante, seppure a fatica e sacrificando alcuni non trascurabili parti del progetto originario, un primo significativo passo è stato fatto perché Biagi assassinato dalle Br il 19 maggio 2002 ci lasciò una traccia della Sua legge che fu poi promulgata nel 2003 che disegnava una prima strategia d’interventi coerenti, volti soprattutto allo sviluppo di una società attiva e di un lavoro di migliore qualità, ove le regole che presiedono all’organizzazione dei rapporti e del mercato del lavoro possono dare maggiori opportunità di occupazione e risultano più moderne e adatte alle esigenze dei lavoratori e delle imprese. Si trattava, ovviamente di un insieme di deleghe, che enunciavano i principi ispiratori dell’azione del Governo nella predisposizione dei decreti attuativi dai quali doveva risultare il quadro completo delle riforme e delle nuove regole. Il nuovo mercato del lavoro prevedeva di essere costruito premiando i soggetti che più efficacemente realizzano l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Un mercato del lavoro dinamico cioè, per cui la flessibilità non sia vissuta come la generalizzazione del precariato, ordinando con aspetti di maggiore rilevanza della normativa il collocamento e le nuove forme di rapporto di lavoro. Ecco appunto ne parliamo dal 2001: possibile balbettare ancora oggi? Troviamo l’accordo anche con le parti sociali ragionevoli e andiamo avanti anche magari uniformando il nostro diritto del lavoro alle norme comunitarie che hanno prodotto maggiore efficienza e produttività del mercato, costituiti da un mercato del lavoro flessibile, uno schema generoso di un’ampia diffusione delle politiche attive, con relazioni industriali vigorose e lavoratrici e lavoratori che accedono ai sistemi di disoccupazione e successivamente rientrano nell’attività o in un lasso di tempo molto breve o, nel più lungo periodo, dopo essere passati attraverso schemi di attivazione che ne incrementino skills e occupabilità.

Pensa davvero che abolendo l’articolo 18 aumenti l’occupazione? E le modifiche introdotte da Fornero non hanno avuto gli effetti sperati con prevedendo l’intervento del giudice per stabilire il risarcimento?

Allora, le aziende “interessate” dall’articolo 18 sono solo il 2,4% del totale, a essere tutelati da questo provvedimento sono il 57,6% dei lavoratori dipendenti occupati nel settore privato dell’industria e dei servizi. Su poco meno di 4.426.000 imprese presenti in Italia, solo 105.500 circa hanno più di 15 addetti. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, invece, su oltre 11 milioni di operai e impiegati presenti in Italia, quasi 6.507.000 lavorano alle dipendenze di aziende con più di 15 dipendenti: soglia oltre la quale si applica l’articolo 18. Ecco di cosa stiamo parlando, ma sicuramente una riforma non può non prendere in considerazione anche la maggiore possibilità delle aziende a recedere dal rapporto di lavoro con una persona che non soddisfa e risponde in termini di reciprocità.peraltro rimangono comunque ferme le tutele antidiscriminatorie .Io sono convinta che l’aumento dei posti di lavoro si ottenga privilegiando le politiche legate alla domanda, dunque rilanciamo gli investimenti, mettiamo in atto il JOBS ACT di Poletti, diamo vita ad un vero e proprio Piano di dismissione e privatizzazione statali per essere in grado di creare le condizioni per rilanciare l’occupazione e riprendere il sentiero di crescita. La Ministra Fornero ha fatto molto e in condizioni disperate ma il ricorso al giudice per il risarcimento non poteva essere la soluzione poiché il giudice risolve prima il problema reintegrando. Questa è la “delirante verità della giustizia italiana”.

Perché si invocano sempre nuove norme quando invece queste materie possono essere appannaggio delle parti sociali e delle relazioni industriali?

Il nostro Paese è conservatore e le parti sociali non studiano i processi e l’evoluzione economica e sociale e le varie soluzioni da adottare: prima di tutto dovremmo essere più attenti all’impatto di una norma su altri profili oltre a quello strettamente giuridico. Ci aiuterebbe sicuramente a contestualizzare le norme valutandone l’impatto sociale ed economico. Non è semplicemente la riforma legislativa che cambia il mondo del lavoro, ma che è necessario un cambio di mentalità, delle persone. Per questo è utile valutare anche complessi organizzativi ed economia di un paese per fare le norme e dunque le prassi informali che poi conducono a buone relazioni industriali tra le parti sociali . Ma questo balzo culturale l’Italia delle ”OOSS” ancora nostalgica della concertazione e dei rituali dei tavoloni e tavolini non è pronta economicamente e socialmente a farlo e a cambiare. Ci sono bravi maestri e maestre pronte comunque a dare una mano a settembre e anche dopo a fare da nave scuola ai giovani esploratori. La presunzione della completezza non è mai stata una buona strategia d’azione.

Renzi: l’articolo 18 è un totem ideologico, è giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori.

Renzi: l’articolo 18 è un totem ideologico, è giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori. Mai più soldi pubblici ad Alitalia

di 14 agosto 2014

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Argomenti: Governo | Matteo Renzi | Angelino Alfano |Roma (squadra) | Federcalcio | Rai Tre | Juventus |Champions league | Napoli (squadra)

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«È giusto riscrivere lo statuto dei lavoratori? Sì, lo riscriviamo. E riscrivendolo pensiamo alla ragazza di 25 anni che non può aspettare un bambino perché non ha le garanzie minime. Non parliamo solo dell’articolo 18 che riguarda una discussione tra destra e sinistra. Parliamo di come dare lavoro alle nuove generazioni». Lo ha detto il premier Matteo Renzi, nell’intervista a Millennium in onda questa sera su Raitre. «Oggi l’articolo 18 è assolutamente solo un simbolo, un totem ideologico – ha dichiarato Renzi – proprio per questo trovo inutile stare adesso a discutere se abolirlo o meno. Serve solo ad alimentare il dibattito agostano tra gli addetti ai lavori». Passerà Ferragosto a Palazzo Chigi: «è un buon segno, è il segno che ci sono molti cantieri da far partire e che l’Italia può ritrovare slancio e speranza contro tutti questi profeti del pessimismo: i gufi, gli sciacalli, gli avvoltoi. Ormai potremo farne uno zoo».

Smentisco una nuova manovra
Una nuova manovra? «Lo rismentisco. Noi l’abbiamo già fatta la manovra e abbiamo abbassato le tasse», ha detto il premier. «Nella manovra del prossimo anno ci dovranno essere 16 miliardi di riduzione della spesa per stare dentro il 3%, che noi vogliamo rispettare. Per arrivare a questa cifra di solito lo Stato alza le tasse, ma questo meccanismo non si può continuare». Renzi ha detto che il Paese ha più o meno «ha 800 miliardi di spesa pubblica, 16 miliardi sono il 2%, cioè come 20 euro per una famiglia che guadagna mille euro, il 2% si trova agevolmente, ma il punto è capire dove mettiamo i soldi, perchè su alcune voci come la scuola e gli insegnanti bisogna mettere più soldi, bisogna scommettere. Su questo ci sarà una sorpresa a settembre».

Bonus 80 euro: esiste la possibilità di estenderlo
Gli 80 euro potranno essere estesi? «Non lo so, vediamo. Esiste la possibilità di estenderli. Ribadisco: sicuramente lo manteniamo per chi ce l’ha, vediamo se possiamo estenderlo», ha dichiarato Matteo Renzi.

Mai più soldi pubblici ad Alitalia: serve il coraggio di far fallire i carrozzoni
«È del tutto doveroso» non dare mai più soldi pubblici ad Alitalia. «Ne abbiamo messi talmente tanti di soldi pubblici che sarebbe inaccettabile», ha spiegato il premier Matteo Renzi. Ad Alitalia, ha detto Renzi, «è mancata una capacità di guida manageriale forte».
A chi gli chiede se sia stato «sbagliato dare soldi pubblici» alla compagnia di bandiera, Renzi risponde: «Sì. In alcuni casi bisogna avere il coraggio di far fallire alcune aziende che sono dei carrozzoni. Ma bisogna anche far pagare i manager che hanno buttato via i soldi, invece di dargli i premi di produzione. Le regole ci sono già. Basterebbe applicarle. Il problema è che molto spesso, in Italia, si è preferito far finta di niente».

Renzi, la tripletta: via Senato, Unità e Fiat

Renzi, la tripletta: via Senato, Unità e Fiat

Renzi pensa molto di sé ma neppure lui avrebbe creduto a un simile colpo: liberare l’Italia negli stessi giorni, del Senato, dell’Unità e della Fiat. Non era facile perché non c’è apparente legame fra i tre grandi scomparsi, una istituzione, un giornale-memoria e una azienda che, da sola, rappresentava e garantiva l’Italia come Paese industriale. Non ditemi che mettere insieme le tre chiusure (o partenze per sempre) è solo una trovata polemica. Renzi è bravo, come dicono tutti (chiamandolo continuamente Matteo perché è così giovane, e dandogli ideali pacche sulle spalle) e se si chiude il Senato è solo per una sua decisione (il perché, dovremo estrarlo dalle macerie); se chiude l’Unità, ciò che resta di un pezzo glorioso del suo partito, è perché tutto quel passato di altri gli dà noia; se se ne va la Fiat, un esodo unico in Europa e mai accaduto in un grande Paese, è perché il suo disinteresse per ciò che non controlla  – o lui o la Boschi – lo innervosisce e, francamente, non gli interessa.

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Nella loro diversa pesantezza e dimensione, tutti e tre gli eventi hanno un loro aspetto non chiaro (e anzi, misterioso) e stupisce che così tanta parte dei media italiani si prestino a celebrare due degli eventi e a ignorare il terzo.

Nonostante la memoria corta di un mondo su cui piovono Twitter e hashtag come la cenere dopo Hiroshima, credo che si ricorderà la fine del Senato. Perché non se ne conosce la ragione; perché c’erano cose ben più urgenti da fare; perché ha sradicato in modo rozzo e violento i molti legami, ascendenze e conseguenze nellaCostituzione; perché, come ha detto bene, chiaro e al momento giusto, il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, questa legge porta due firme: quella di Matteo Renzi e quella di Silvio Berlusconi. Lo testimonia un’immagine destinata a restare come quelle dei Marines di Iwo Jima: Maria Rosaria Rossi, di casa Berlusconi, abbraccia Maria Elena Boschi, di casa Renzi, con il furore femminile di poche grandi occasioni della vita. La commenta bene, in un desolato e bellissimo testo, su Il Corriere della Sera (7 agosto) Corrado Stajano: “Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, con il ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie?”. Nell’entusiasmo del momento si erano persino dimenticati che Giorgio Napolitano, a un certo momento, avrebbe dovuto diventare senatore a vita. E la Finocchiaro è dovuta correre indietro a inserire un’eccezione per ex presidenti della Repubblica, che restano d’ora in poi i soli senatori a vita. Ma dove? Nel festoso suk di portatori di interessi nominati dalle Regioni.

Intanto Renzi ha chiuso l’Unità. Ma quando mai?, ti direbbero al Nazareno, se ti accogliessero e non temessero che qualcuno gli guardi le carte sul tavolo. L’Unità, ti direbbero, ha finito la corsa, punto e basta. Svelto com’è, Renzi non ha neanche perduto tempo a verificare se e come l’organo del Partito Democratico svolge il suo ruolo. Sì, qualche volta avrà notato con la coda dell’occhio, che non era tutto scritto da lui, che non c’entrava, neppure dopo anni di Ds e poi di Pd remissivo e sempre pronto a qualche pacificazione, con la nuova vita insieme, lui e Berlusconi, Berlusconi e lui.>

Non tutti cambiano radicalmente in una o due assemblee, come i membri di direzione del suo partito. Dopo tutto quel giornale ha mai aperto con grande foto del sorriso fisso sulla non realtà della Boschi o della incompetente e dannosa gentilezza della Madia? Diciamo la verità: il giornale stava nei ranghi ma non lo aveva ancora portato in trionfo. E poi, a certe scadenze, veniva fuori con certi ricordi e immagini e voci di cui non senti il bisogno, mentre condividi questa nuova Italia rinnovata e pacificata con Berlusconi. Intanto se i competenti del mondo fanno notare le tue disattenzioni economiche e il rischio grave dell’Italia, sei già circondato di “grandi giornali” italiani detti indipendenti che si occupano di non dirlo. Infine deve avere notato che nessuno, anche tra i più miti redattori dell’Unità, era mai stato boy scout. Renzi ha imparato solo la prima parte del celebre motto: “Tutti per uno”. È svelto, e passa subito alla conclusione: chiudere, e farla finita, come gli dice Verdini da un pezzo, con la paccottiglia comunista.

La Fiat, che era l’immagine dell’Italia industriale nel mondo e il punto di riferimento per l’industria italiana (se lo fa la Fiat, come fa la Fiat…) si è sfilata con agilità dalle tasse (paga a Londra), dai legami con l’Italia (ha sede amministrativa e legale in Olanda) e dalla produzione (che ha luogo alla periferia di Detroit). Di fronte a un evento di tale enormità i politici non c’erano, non al Parlamento di una o due Camere, non al governo. Renzi lavorava a cambiare verso, a cambiare l’Italia, a forgiare le riforme che tracciano qualche solco ma non si sa per dove.

Anche perché gli hanno portato a Palazzo Chigi tre immensi gipponi, che sarebbero destinati alla produzione italiana (famosa nel mondo per la Cinquecento, ricordate?). Ma la produzione italiana non esiste. Piani, progetti e investimenti sono stati tenuti fermi. E gli operai della Fiat, noti nel mondo per il loro lavoro, ora sopravvivono in buon numero con la cassa integrazione di questa Repubblica, mentre la Casa Tudor-Marchionne paga al governo inglese. Renzi? Per lui va bene. Il Paese gli sembra più fresco, più giovane. Senza Fiat, senza Unità, senza Senato, lui ci ha riportati come bambini al mattino di una giornata che ci promette bellissima. Se righiamo dritto, senza ostruzionismi e senza menarla sulla Costituzione.

BILDERBERG 2014, SEGRETEZZA E MECCANISMO DI DOMINIO DEL CAPITALE

BILDERBERG 2014, SEGRETEZZA E MECCANISMO DI DOMINIO DEL CAPITALE

 

di Domenico Moro

 

da Greenreport 29 giugno 2014

 

Quest’anno il consueto incontro del Gruppo Bilderberg si è tenuto a Copenaghen tra il 29 maggio e il 1° giugno. In Italia rispetto all’anno scorso, almeno tra i mass media, è stata data meno attenzione all’evento, forse perché, a differenza di Monti e di Letta, Renzi non è mai stato ospite né dirigente del Bilderberg. È un peccato, perché l’influenza del Bilderberg sui governi europei va ben al di là della partecipazione diretta di loro esponenti e anche quest’anno il Bilderberg si rivela essere un consesso all’altezza della sua fama, riunendo una fetta importante dell’“élite del potere”, come direbbe Wright Mills. Una élite che, però, è internazionale e non solamente statunitense come quella studiata dal sociologo USA negli anni ’50. Quest’anno si riscontra una più massiccia presenza di scandinavi e la rappresentanza italiana è un po’ più piccola, ma sempre di altissimo livello: Mario Monti, Franco Bernabé, John Elkan e Monica Maggioni.

Il Bilderberg è l’organizzazione più famosa del capitale occidentale e transatlantico. Essendo il corrispettivo della NATO sul piano economico e politico, il Bilderberg riunisce alcune tra le più importanti personalità di USA, Canada, Europa occidentale e Turchia.

Del resto, nasce nel 1954 per contrastare la diffusione del comunismo dopo la fine della seconda guerra mondiale e per rafforzare l’integrazione economica e politica tra Europa occidentale e USA, su cui doveva fondarsi la ricostruzione del mercato mondiale capitalistico. Col tempo e nonostante il dissolvimento dell’URSS il suo ruolo di luogo di incontro delle élite occidentali si è rafforzato (come ha fatto la NATO), a causa dei processi di integrazione e mondializzazione del capitalismo, sempre però nell’ottica di mantenere l’egemonia dell’asse atlantico, basato sull’alleanza USA-Europa occidentale.

Anche quest’anno, come sempre, i contenuti delle discussioni sono stati secretati, per permettere agli intervenuti di esprimersi senza remore, almeno a detta del sito ufficiale del Bilderberg. Quello che sappiamo è che sono stati discussi temi centrali per la vita di milioni di persone: la sostenibilità della ripresa economica, il futuro della democrazia e la decadenza del ceto medio, i prossimi passi che l’Europa deve intraprendere, la nuova architettura del Medio Oriente, l’Ucraina, la possibilità di rispettare la privacy, la condivisione delle informazioni dell’intelligence, chi pagherà per l’incremento demografico, ecc. Ad essere grave non è solo la segretezza della discussione, ma che al rispetto di tale segretezza siano tenuti politici di vertice, capi di partito e membri dei parlamenti, ministri dei governi, dirigenti delle banche centrali e della BCE e membri della Commissione Europea. Lascia quantomeno interdetti che uomini con responsabilità pubbliche enormi incontrino uomini a capo di imperi finanziari e industriali privati, senza che chi li ha eletti possa essere informato né delle conclusioni e né degli indirizzi che risultano dalle loro discussioni su temi di grande centralità.

Si tratta di una preoccupazione tutt’altro che oziosa, perché gli indirizzi emersi nel corso delle discussioni del Bilderberg spesso hanno trovato attuazione nella pratica, come dimostrano i rapporti di alcuni incontri del passato che sono stati decrittati da Wikileaks e di cui ho pubblicato ampie sintesi in italiano nella seconda edizione del mio “Il Gruppo Bilderberg. L’élite del potere mondiale”. Ad esempio, nella conferenza di Buxton nel 1958 si affermava:

“Uno dei maggiori problemi con i quali la Comunità Economica Europea si confronta è quello del coordinamento delle politiche monetarie. Come uno dei partecipanti ha puntualizzato, l’integrazione dei Sei richiede il coordinamento in tutti i campi delle politiche economiche. (…) Qui sta, ad ogni modo, la più grande debolezza del Trattato. La politica monetaria è strettamente legata ai bilanci nazionali e la disciplina di bilancio è notoriamente difficile da raggiungere. I ministri delle finanze sono di solito più ragionevoli e potrebbero occasionalmente accettare pressioni esterne ma è molto più difficile convincere i parlamenti nazionali. Lo speaker dubita che a lungo termine il problema potrebbe essere risolto con successo senza un appropriato meccanismo istituzionale. Questo punto è trattato da un altro partecipante che guarda ad una valuta comune come ad una soluzione definitiva”.

Oltre al riferimento alla possibilità di esercitare “pressioni esterne” sui ministri delle finanze e a termini ora divenuti di uso comune come “disciplina di bilancio” e “coordinamento delle politiche di bilancio”, impressiona il fatto che già nel 1958 si delineava quella strategia di integrazione economica e valutaria che ha trovato piena attuazione nell’Europa attuale. Infatti la definizione di nuovi meccanismi istituzionali, legati alla UE e all’euro, è oggi evidente strumento per piegare i parlamenti nazionali alla disciplina di bilancio e a quanto ne consegue, cioè alla riduzione della spesa sociale, alle privatizzazioni, ecc. Un altro esempio si riscontra a Bad Aachen nel 1980, dove è anticipato il principio di autonomia della Banca centrale, che troverà applicazione appena un anno dopo nel divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, voluto dal governatore Ciampi e dal ministro Andreatta (presente all’incontro di Princeton nel 1978), e soprattutto nello statuto della BCE (i cui due ultimi presidenti, Trichet e Draghi, spesso hanno partecipato al Bilderberg), per definizione indipendente da qualsiasi controllo democratico: “Il maggior onere di una politica economica diretta verso la stabilità ricadrà sulla politica monetaria, che richiederà un più alto grado di autonomia per le banche centrali in altri Paesi europei”.

Ma le tematiche che risultano dai rapporti di Wikileaks non riguardano soltanto le linee di politica economica. Attraverso i rapporti del Bilderberg è possibile ripercorrere i punti salienti della storia dei rapporti tra le potenze europee e tra queste e gli USA, specie riguardo all’unità europea e all’approccio dell’imperialismo occidentale nei confronti dei Paesi del terzo mondo (in particolare quelli ricchi di materie prime energetiche). Infatti, nei rapporti si evidenzia molto chiaramente l’interesse USA a favorire l’unità europea in modo da avere il sostegno di un unico e affidabile interlocutore. A Saltsjöbaden nel 1962 e più ancora nel 1963 a Cannes, gli USA insistono affinché nel processo di unificazione europea sia compresa la Gran Bretagna, con cui hanno sempre avuto una “relazione speciale”, e siano mandati a vuoto i tentativi del presidente francese De Gaulle di realizzare una Europa “terza forza” tra USA e URSS, anche sul piano delle armi nucleari. Queste testimonianze di una serrata dialettica interna dimostrano insieme l’esistenza di rivalità tra le potenze imperialistiche occidentali e la natura del Bilderberg come camera di compensazione di tali contraddizioni.

La segretezza tipica del Bilderberg è tesa a nascondere che l’origine delle linee politiche strategiche nasce al di fuori degli organismi eletti, ufficialmente e formalmente deputati a prendere decisioni pubbliche, ma non impedisce che i concetti discussi all’interno del Bilderberg trovino diffusione fra la cosiddetta opinione pubblica. Infatti, la presenza di giornalisti opinion maker e di proprietari di grandi gruppi del settore dei mass media serve allo scopo di preparare il terreno fra l’opinione pubblica all’accettazione di certe linee strategiche. Non a caso quello dei mass media è uno dei settori di attività più rappresentati nel Bilderberg. Su 136 partecipanti a Copenaghen, troviamo 13 appartenenti al settore, tra cui Monica Maggioni, direttore di Rainews24, e rappresentanti di network televisivi importanti e di testate giornalistiche come Le Monde, El País, Financial Times, The Economist, ecc.

A parte i media, il nucleo decisivo del meccanismo di definizione e di implementazione di linee politiche coerenti con gli interessi del capitale transnazionale risiede nella integrazione tra mondo economico e politico, mediata dal mondo accademico. Infatti, a Copenaghen troviamo 58 esponenti del mondo economico, di cui 35 di imprese non finanziarie e 23 di banche, assicurazioni e fondi d’investimento, 32 politici e 29 esponenti di università e think tank (i pensatoi finanziati dalle corporation). Tra gli esponenti del mondo economico troviamo i capi di alcune delle più importanti imprese transnazionali dei settori più strategici dall’energia alla manifattura a internet, come FIAT, Airbus, Alcoa, Google, Microsoft, BP, Royal Dutch Shell, Novartis, ecc. e di fondi d’investimento e banche globali come Deutsche Bank, Goldman Sachs, ABN-AMRO Bank. Tra i politici ci sono esponenti importanti di quasi tutti i governi dei Paesi partecipanti, come il ministro del Tesoro britannico, i ministri degli Esteri spagnolo e svedese, il ministro degli Affari Economici danese, il segretario di Stato francese al Commercio Estero, oltre a politici sovranazionali, come Rasmussen, segretario generale della NATO, Viviane Reding, commissario europeo alla Giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza, e il turco Ahmet Üzümcü, direttore generale dell’Organizzazione per il controllo delle armi chimiche. A metà strada tra politica e finanza troviamo anche esponenti delle banche centrali, come il presidente della banca centrale greca, il governatore della banca centrale canadese, un membro del consiglio d’amministrazione della BCE e il presidente del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde.

Una particolare menzione va fatta quest’anno alla presenza di ben quattro importanti personalità provenienti dal settore militare e dell’intelligence, a riprova della connessione tra vertici dell’economia e apparati di sicurezza dello Stato. Si tratta degli statunitensi Philippe Breedlove, capo militare della NATO, David Petreus, già capo della truppe USA in Medio Oriente ed ex direttore della CIA, e Keith B. Alexander, già a capo dello US Cyber Command (il settore del Pentagono addetto alla guerra elettronica) e della National Security Agency (l’agenzia che coordina tutti i servizi di intelligence USA), e del britannico John Sawers, capo dell’MI6, il celeberrimo servizio segreto di Sua Maestà. A questi si aggiunge Alex Karp, presente anche all’edizione del 2013 e fondatore e amministratore delegato di Palantir, una società finanziata dalla CIA che sviluppa software per l’intelligence. Petreus è oggi un dirigente di KKR, un fondo d’investimento USA diretto da Henry Kravis (una vecchia conoscenza del Bilderberg), e si è incontrato di recente al Four Season di Firenze con diversi esponenti del governo Renzi, in particolare con Fabrizio Pagani, ex direttore dell’OCSE e ora capo della segreteria tecnica del ministro del Tesoro Padoan, per contro del quale sta seguendo la partita delle privatizzazioni. Una dimostrazione del legame esistente tra i governi italiani, supportati e diretti dal PD, con il capitale transnazionale, come dimostra anche la presenza al Bilderberg di Letta nel 2012 e Monti prima e dopo il suo incarico di premier.

Pure da menzionare è la presenza di due cinesi, unici non occidentali presenti all’incontro e probabilmente invitati a discutere sullo scenario economico e politico cinese, uno dei temi in agenda. Si tratta del professore di economia dell’Università di Pechino Huang Yiping e del ministro Liu He. Liu He, che ha ottenuto un master ad Harward, dirige l’ufficio degli affari economici e finanziari della Repubblica Popolare Cinese ed è vicedirettore della Commissione per lo sviluppo e le riforme. Questa non è la prima volta al Bilderberg per dei cinesi né per un politico cinese, visto che il viceministro degli Esteri cinese, Fu Ying, era stato presente a due degli ultimi incontri. Si tratta di una dimostrazione del rapporto che esiste tra alcuni esponenti dell’élite cinese ed il capitale transnazionale occidentale, nonostante la conflittualità esistente tra Cina e USA.

Il Bilderberg non è una setta segreta, agente di una congiura internazionale, come certa vulgata complottistica pretenderebbe. Il Bilderberg è qualcosa di più serio: è una tipica organizzazione del capitale nella sua fase transnazionale, insieme ad altre organizzazioni, come l’Aspen Institute e la Commissione Trilaterale. Obiettivo dei democratici europei dovrebbe essere l’analisi scientifica di queste organizzazioni, attraverso la spiegazione del loro ruolo nei meccanismi di costruzione del consenso e di implementazione dei principi del neoliberismo, dalla deregolamentazione del mercato del lavoro alle privatizzazioni all’abbattimento del welfare state, ecc. La connessione diretta, in queste sedi di confronto e discussione, con chi fa informazione e chi opera nelle riproduzione delle idee e soprattutto con qualificati esponenti governativi e di organismi sovranazionali permette a imprese e banche globali di avere una influenza diretta sulla elaborazione delle politiche degli Stati occidentali. Al di sopra della corruzione dei politici che giornalmente trova spazio sui mass media, c’è un’altra corruzione, più nascosta ma con effetti molto più pesanti sulla vita dei cittadini europei, quella del processo di definizione e controllo delle decisioni generali, che vengono subordinate agli interessi particolari di una ristrettissima minoranza.

Statali, spuntano i trasferimenti facili. E la pensione forzata scatta da 62 anni

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Il governo accelera sul turnover dei dirigenti. Mobilità, Cgil all’attacco

di MATTEO PALO

Roma, 28 luglio 2014 – La staffetta generazionale diventa più semplice e viene rafforzata. È questo il senso della modifica più importante arrivata con il primo passaggio parlamentare del decreto legge di riforma della pubblica amministrazione. Anche i dirigenti della Pa — da oggi il decreto approda alla Camera per la discussione generale — potranno essere pensionati prima, con quattro anni di anticipo rispetto a quanto prevede la legge Fornero. E non si tratta dell’unica novità a una delle riforme chiave del governo Renzi. Tutte innovazioni che, secondo il ministro Marianna Madia, seguono due direttrici: cambiamento ed equità. La commissione Affari costituzionali della Camera ha deciso, come oggi accade per i dipendenti, il pensionamento d’ufficio per i dirigenti a partire dai 62 anni. La decisione di andare oltre dovrà essere motivata “con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi”. In linea generale non sarà possibile raggiungere i 66 anni per il pensionamento di vecchiaia. Le uniche eccezioni sono per medici e professori universitari (asticella a 65). Oltre ai magistrati, che vengono completamente esclusi. Sul fronte della pubblica istruzione viene reintrodotta per circa 4mila insegnanti la cosiddetta ‘quota 96’, la somma di età anagrafica e contributiva: potranno chiedere la pensione all’Inps subito dopo la conversione del provvedimento in legge. Il costo per lo Stato di questa misura sarà di circa 100 milioni di euro, da pagare attraverso tagli alla spesa.

Aggiustamenti anche alle norme sulla mobilità. Il trasferimento di un dipendente pubblico da un ufficio all’altro potrà avvenire senza che siano fornite spiegazioni. Sembra proprio questa la conseguenza di un emendamento al dl Pa, che cancella quanto previsto dal codice civile, secondo cui in casi di spostamento da un’unità produttiva a un’altra è necessario mettere sul tavolo “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Ora invece il passaggio non dovrà essere giustificato e potrà quindi scattare in qualsiasi situazione, purché non venga superato il limite di distanza fissato a 50 chilometri. Altri emendamenti, approvati in settimana, hanno invece ammorbidito le previsioni, ridando voce ai sindacati per la definizione dei criteri di mobilità e salvando i genitori con figli piccoli o sotto legge 104. La Cgil è critica, parla di “una mobilità assolutamente discrezionale, senza quelle necessarie motivazioni, organizzative e tecniche”.

Istat, raddoppiano in 5 anni gli italiani che lasciano il Paese. Calano le nascite

Istat, raddoppiano in 5 anni gli italiani che lasciano il Paese. Calano le nascite

Nascite in calo in Italia nel 2013 per il quinto anno consecutivo. Toccato il minimo storico di 514mila nuovi nati. E’ la fotografia fornita dall’Istat attraverso gli indicatori demografici del nostro Paese. Circa l’80% dei nuovi nati proviene da donne italiane, il 20% da donne straniere. Il numero medio di figli per donna scende da 1,42 nel 2012 a 1,39 nel 2013.
Raddoppiato il numero degli italiani che lasciano il Paese – Le immigrazioni dall’estero sono scese nel 2013 a 307 mila, pari a un tasso del 5,1 per mille, contro le oltre 350 mila del 2012 (5,9 per mille). Aumentano, invece, le emigrazioni, circa 126 mila (2,1 per mille), contro i 106 mila dell’anno precedente (1,8 per mille). Il saldo migratorio con l’estero è di 182 mila unità, per un tasso del 3 per mille (4,1 nel 2012). E’ quanto emerge dal Report “indicatori demografici” dell’Istat. Nel periodo 2008-2013, tra coloro che abbandonano il Paese per una destinazione estera raddoppia sia il numero di residenti stranieri (da 22 a 44 mila), che il numero di italiani (da 40 a 82 mila).
Destinazione preferita il Regno Unito – Nel 2013 la destinazione estera favorita dagli italiani è il Regno Unito, con circa 13 mila trasferimenti, segue la Germania con 11 mila 600. Gli stranieri, invece, emigrano prevalentemente in Romania, oltre 10 mila trasferimenti nel 2013 (+21% sul 2012) e Albania, oltre 2 mila trasferimenti (+23%). Calano gli ingressi dei cittadini stranieri, 279 mila nel 2013 contro i 321 mila del 2012. I rimpatri di italiani sono 28 mila.
Meno matrimoni con rito religioso – La celebrazione del matrimonio con rito religioso perde ulteriore terreno nei confronti del rito civile. Tra il 2008 e il 2013 la quota di sposi che sceglie il primo passa infatti dal 63% al 57%, mentre la quota di coloro che optano per il secondo cresce dal 37% al 43%. Lo segnala l’Istat nel report degli indicatori demografici del nostro Paese. Complessivamente nel 2013 si sono celebrati meno
26 giugno 2014

La battaglia di Gianluca Sada per produrre le sue bici pieghevoli senza raggi in Italia

La battaglia di Gianluca Sada per produrre le sue bici pieghevoli senza raggi in Italia

di Michael Pontrelli
La Vespa Piaggio, la macchina da scrivere Lettera 32 della Olivetti, la Fiat 500 sono solamente alcune delle icone che hanno fatto conoscere e apprezzare il design italiano in tutto il mondo. Il testimone di una tradizione così importante potrebbe passare nei nostri giorni alla bicicletta senza raggi inventata dal giovane ingegnere campano Gianluca Sada. Brevettata nel 2010 la Sada Bike ha avuto un successo mediatico straordinario non solo in Italia ma anche all’estero. All’inizio del 2012 Sada ha ultimato la realizzazione del prototipo ed ha annunciato la volontà di voler avviare la produzione in serie della bici, tuttavia a distanza di oltre 2 anni non è ancora possibile acquistarne una.

“Il mancato avvio della commercializzazione – spiega il giovane inventore – non è dipeso dalla mancanza di investitori ma dalla scelta del luogo della produzione”. Grazie al successo mediatico internazionale molte aziende, in particolare cinesi, si sono fatte avanti ma con la pretesa di voler costruire le bici in Cina. “Ho rifiutato proposte anche allettanti perché il mio obiettivo è che le Sada Bike siano Made in Italy” racconta l’ingegnere campano. “Produrre nel nostro paese – prosegue – è oggettivamente più difficile più complesso perché i costi sono maggiori e perché da noi c’è minore propensione all’innovazione ma seppure in ritardo le cose si stanno muovendo”.

La startup di Sada, attualmente incubata al Politecnico di Torino, da tempo sta dialogando con diverse realtà italiane ed entro la fine dell’anno dovrebbe finalmente siglare un accordo con un partner finanziario e industriale. La produzione delle Sada Bike dovrebbe partire e se le premesse saranno rispettate ci troveremo di fronte ad un nuovo simbolo mondiale del Made in Italy. “Sto già ricevendo richieste di acquisto praticamente da tutto il mondo” dice Sada a conferma che l’interesse per il prodotto è molto forte.
Ma cosa rende uniche queste nuove bici? Il design dovuto alla mancanza di raggi è sicuramente il punto di forza più evidente ma non è l’unico. “L’altro aspetto fondamentale è che si tratta della prima bici pieghevole con ruote da 26 pollici. Quelle della concorrenza hanno ruote da 16 pollici e una volta chiuse hanno addirittura un ingombro maggiore” spiega l’inventore. Anche il packaging è rivoluzionario. Lo zaino che contiene la bici grazie alla mancanza di raggi può essere riempito con altri oggetti e può diventare un trolley.
Il prezzo di acquisto delle Sada Bike sarà superiore ai 1500 euro. “E’ una cifra alta però assolutamente competitiva con i prezzi delle biciclette pieghevoli della concorrenza costruite in acciaio” afferma il giovane ingegnere. La risposta ovviamente la darà il mercato. Una cosa però fino ad ora è certa: nei tempi della globalizzazione per salvare il Made in Italy non bastano più solamente le idee innovative ma anche la tenacia di imprenditori che vogliono continuare a produrre nel nostro Paese.
24 luglio 2014

Privilegi delle Camere, Renzi alle opposizioni: “Ma dove vive chi contesta la norma sul tetto di 240 mila euro?

Privilegi delle Camere, Renzi alle opposizioni: “Ma dove vive chi contesta la norma sul tetto di 240 mila euro?

“Non mi stupiscono i privilegiati che contestano la norma sul tetto di 240 mila di euro, mi stupiscono le opposizioni che si schierano con loro. Ma dove vivono”. Lo scrive su twitter il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, commentando la polemica sul tetto degli stipendi imposto ai dipendenti delle Camere che godono di retribuzioni di tutto rispetto.

I tetti retributivi massimi – Gli Uffici di presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama, riuniti in contemporanea, hanno fissato quello massimo, relativo ai Consiglieri Parlamentari, in 240mila euro all’anno al netto della contribuzione previdenziale (l’8,8% della retribuzione).

La protesta dei dipendenti – Un lungo e polemico applauso, con annessi coretti di numerosi dipendenti di Montecitorio, ha salutato l’uscita dei componenti dell’ufficio di presidenza della Camera. La polemica ha scatenato la reazione della presidente della Camera Laura Boldrini: “Fuori Montecitorio c’è ”il Paese reale”, nel giorno in cui una protesta di lavoratori chiedeva il finanziamento della cassaintegrazione.

Quirinale, ridotti costi di altri 4 milioni di euro – Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha firmato un decreto che riduce ulteriormente i costi del Quirinale. Il provvedimento permette al Tesoro la restituzione di quattro milioni di euro per l’anno in corso. Lo rende noto un comunicato del Quirinale.

25 luglio 2014