Pos obbligatorio per pagamenti non inferiori ai 30 euro.

Pos obbligatorio per pagamenti non inferiori ai 30 euro. Ma nessuna sanzione per chi non si adegua

Scatta l’obbligo per imprese, lavoratori autonomi, professionisti di dotarsi di Pos e permettere così ai clienti e cittadini di pagare sempre con moneta elettronica. Purchè l’importo non inferiore ai 30 euro, altrimenti vale ancora il cash. A partire da oggi 30 giugno si potrà pretendere quindi di pagare con carta di debito dovunque: il conto del ristorante come la parcella del dentista o del notaio; la fattura dell’idraulico o del falegname, la messa in piega dal parrucchiere. Tuttavia nessuna sanzione è prevista per le imprese, artigiani, studi professionali che decideranno di non adeguarsi. Tranne quella del cliente che potrà rivolgersi altrove.
Critica la Confesercenti, secondo la quale la misura, che muove da esigenze di trasparenza e lotta all’evasione, rappresenta ”un intervento pesante, che si trasformerà in un costo aggiuntivo di circa 5 miliardi l’anno per le imprese. E che rischia di essere poco utile, visto che la grande maggioranza degli italiani (il 69%) non ha intenzione di cambiare le proprie abitudini di pagamento” sostiene sulla base di un’indagine con Swg. Per una Pmi media (50mila euro di transazioni l’anno), il costo sarà di 1.700 euro l’anno, secondo le stime dell’ufficio economico Confesercenti che calcola canoni, commissioni, costi di installazione e di utilizzo. ”Una batosta insomma che rischia di mettere in difficoltà le imprese proprio nel momento in cui si vedono i primi barlumi di ripresa” dice l’organizzazione del commercio. I costi avranno poi un’incidenza maggiore per ”gli esercizi caratterizzati da pagamenti di piccola entità e da piccoli margini – come i gestori carburanti, i tabaccai, gli edicolanti, i bar ed altri – che vedranno il proprio utile dimezzarsi o azzerarsi, andando addirittura in rosso”.
Di diverso avviso i consumatori: l’obbligo di accettare pagamenti con moneta elettronica “rappresenta un grande passo avanti in termini di tracciabilità dei pagamenti e lotta all’evasione”, nonchè “un ampliamento ed un’agevolazione a favore del cittadino, che disporrà di un ulteriore metodo di pagamento” osservano Federconsumatori e Adusbef, aggiungendo che “la circolazione di meno contanti rappresenta un elemento di maggiore sicurezza, sia per il cittadino che per l’esercente”. Il Codacons critica invece l’assenza di sanzione: “Ciò significa – dice – che, nonostante vi sia un obbligo, lo Stato non e’ in grado di farlo rispettare. Il solito pasticcio all’italiana”. ”La rete italiana di Pos e Atm – evidenziano fonti di settore – sono una realtà con numeri in crescita anche se ancora lontani da paesi come Francia o Gran Bretagna. Attualmente ci sono 1,4 milioni di Pos e 34 milioni di carte Bancomat che salgono a 90 se si aggiungono quelle di credito o le prepagate.
30 giugno 2014

ACQUA POTABILE, L’ITALIA È UN COLABRODO

 

ACQUA POTABILE, L’ITALIA È UN COLABRODO

 

di Andrea Ballocchi

 

L’Italia è un colabrodo. O, più precisamente, lo sono le reti comunali di distribuzione dell’acqua potabile da cui si disperde quasi il 40% (37,4%) del contenuto. Lo segnala l’ISTAT attraverso il “Censimento delle acque per uso civile”, appena pubblicato. La ricerca fa riferimento ai dati 2012 e certifica un peggioramento delle cose rispetto a quattro anni prima quando le dispersioni di rete erano del 32,1%.

Ma partiamo dall’inizio, ossia dal volume complessivo di acqua prelevata per uso potabile, che è pari a 9,5 miliardi di metri cubi, (+3,8% rispetto al 2008). Un terzo dell’acqua prelevata esce dai trattamenti di potabilizzazione (totale 2,9 miliardi di metri cubi annui).

L’acqua, a questo punto viene immessa nelle reti comunali di distribuzione: il volume è pari a 8,4 miliardi di metri cubi, 385 litri al giorno per abitante (+2,6% rispetto al 2008), mentre quello che è effettivamente erogato agli utenti è di 5,2 miliardi di metri cubi (241 litri per abitante), 12 litri al giorno in meno rispetto all’ultimo dato censito nel 2008. Ecco le dispersioni: 3,1 miliardi di metri cubi “svaniti”.

Non tutte le regioni “perdono” nello stesso modo: la Valle d’Aosta segnala un 20% circa di perdite, con Emilia Romagna, Trentino Alto Adige e – leggermente di più – Lombardia. Dall’altro lato della lavagna, la Sardegna è quella che fa registrare il primato peggiore con il 50% circa di perdite. Ciò che si evidenzia nel rapporto è però lo scadimento generale rispetto al 2008: «le dispersioni regionali di rete mostrano situazioni di maggiore criticità nelle Isole e nel Centro-Sud, con le eccezioni di Abruzzo e Puglia, che negli ultimi anni hanno sanato alcune situazioni di forte dispersione. Seppur con livelli più bassi, anche nelle regioni del Nord si registra un generale peggioramento della dispersione di rete, ad eccezione della Valle d’Aosta».

In tema di acqua potabile, pochi giorni prima dell’uscita del report ISTAT la Commissione Europea ha pubblicato sul proprio sito web una consultazione pubblica per chiedere ai cittadini europei come si potrebbe migliorare la fornitura di acqua potabile in Europa per garantire che ognuno dei cittadini abbia accesso a un’acqua pulita, sicura e a prezzi contenuti. Alla consultazione si può partecipare fino al 15 settembre 2014.

Il prestito vitalizio ipotecario cambia volto per diventare conveniente ai proprietari

Il prestito vitalizio ipotecario cambia volto per diventare conveniente ai proprietari

di 9 luglio 2014Commenti (6)

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Sino a oggi i costi e le regole di legge hanno reso improponibile sul mercato italiano l'”home equity loan” anglosassone, cioè il “mutuo inverso” grazie al quale chi possiede una casa può darla in garanzia alle banche e ottenerne un prestito. Ora però la Camera sta iniziando a discutere la proposta di legge (firmatari i deputati Marco Causi e Antonio Misiani del PD, relatore in Commissione Finanze l’onorevole Paolo Petrini del PD), costituita da un unico articolo per integrare e modificare la disciplina del prestito vitalizio ipotecario (articolo 11-quaterdecies, comma 12, del decreto – legge n. 203 del 2005). Le nuove norme, se passeranno (ma l’iter è ancora lungo), risolveranno molti dei punti critici che hanno impedito lo sviluppo anche in Italia del mercato di questi contratti. La proposta di legge si basa sulle elaborazioni condotte dai firmatari sulle richieste per superare le criticità su questo fronte presentate dall’Abi e da altre associazioni dei consumatori durante l’audizione del 13 settembre 2013 alle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera.

Cos’è e come funziona il prestito vitalizio ipotecario
È un contratto tra i proprietari di una casa con più di 65 anni e una banca o una finanziaria con il quale il proprietario ottiene un finanziamento che viene garantito dall’ipoteca iscritta sulla casa a favore della banca o finanziaria. Il finanziamento erogato è pari a una parte del valore di mercato della casa, stabilito con una perizia, e può essere speso per le esigenze dei proprietari (consumi o spese rilevanti, integrazione del proprio reddito) senza che i proprietari debbano lasciare l’abitazione. I proprietari possono decidere di chiudere quando vogliono il contratto, pagando alla banca il capitale ricevuto più gli interessi, oppure di lasciare decidere agli eredi: dopo il loro decesso, questi si troverebbero a poter scegliere se cedere la casa al finanziatore, che escuterebbe l’ipoteca, o rimborsare il prestito ottenuto, con gli interessi maturati nel periodo.

In cos’è diverso dalla nuda proprietà
Rispetto alla vendita della nuda proprietà (il proprietario vende a un terzo la proprietà della casa e si riserva l’usufrutto, cioè il diritto di abitarci, sino alla propria morte; dopodiché l’acquirente ne otterrà il possesso), il prestito vitalizio ipotecario offrirebbe al mutuatario (si tratta infatti di un “mutuo inverso”) il vantaggio di non perdere la proprietà dell’immobile e, quindi, di non impedire agli eredi di recuperare l’immobile dato in garanzia, lasciando a questi ultimi la scelta di rimborsare il credito della banca (capitale più interessi) estinguendo l’ipoteca iscritta sull’immobile all’atto della firma del prestito vitalizio.

Gioco d’azzardo, un libro denuncia: lo Stato non conosce i veri proprietari delle concessionarie

Gioco d’azzardo, un libro denuncia: lo Stato non conosce i veri proprietari delle concessionarie

di Giovanni Maria Bellu
Un Paese sempre più povero che affida il suo futuro al caso. Con danni sociali gravissimi. Nel 2013 gli italiani hanno speso tra i vari Gratta e vinci, Lotto, Superenalotto e le slot machine 84,7 miliardi di euro. Di questa gigantesca somma, 67,6 miliardi sono rientrati nelle tasche dei giocatori sotto forma di vincite, ma ciò che resta, cioè oltre 17 miliardi, sono andati perduti.
E’ una delle stime più recenti. A realizzarla è stato Matteo Iori, presidente della Onlus Centro Sociale Papa Giovanni XXIII assieme al Conagga, Coordinamento nazionale gruppo giocatori d’azzardo, attingendo i dati dal Libro blu dell’Agenzia delle entrate e dei monopoli. Nel 2012 la spesa era stata un po’ superiore, 88 miliardi, secondo quanto riportano gli autori di “Vite in gioco, oltre la slot-economia” (Città Nuova, 2014) che è stato presentato nei giorni scorsi alla Camera dei deputati.
L’Italia, secondo l’analisi di Iori, è il secondo Paese del mondo nella diffusione del gioco d’azzardo. Perché se nella classifica assoluta (basata sul totale delle somme perdute da giocatori) è il quarto (dopo Stati Uniti, Cina e Giappone), balza quasi in testa, preceduto dalla sola Australia, se si divide la somma per il numero degli abitanti. Gli italiani perdono col gioco d’azzardo 400 euro a testa ogni anno. Prima di loro, con 795 euro, ci sono solo gli australiani.
Esiste ormai un’enorme quantità di dati che provano la pericolosità del gioco d’azzardo, diventato ormai una patologia sociale. Nel marzo scorso, una ricerca effettuata dal Gruppo Abele in quindici regioni italiane ha dimostrato che un over 65enne su tre è a rischio di dipendenza. Nel 2012 una ricerca promossa da varie associazioni (tra le quali le Acli, Libera e Cgil) ha chiarito che non è vero che lo Stato ci guadagna. Perché a fronte di un incasso di 8 miliardi di euro, si ha un costo sociale e sanitario tra i 6 e i 7 miliardi, a cui va aggiunto un danno difficilmente quantificabile, ma evidente. Quello prodotto dalle infiltrazioni nel business di associazioni mafiose.
“Vite in gioco, oltre la slot-economia” – curato da Carlo Cefaloni – attraverso il contributo di sociologi, giornalisti, economisti, matematici e operatori sociali, dà un quadro completo e aggiornato del fenomeno. Andando a toccare uno degli aspetti più gravi e fino a ora meno trattati del problema: la natura delle concessionarie, la loro trasparenza, i loro legami col mondo politico ed economico.
A spartirsi il business sono tredici società che hanno avuto la concessione dallo Stato. Stiamo parlando di un business da 80 miliardi di euro. “Ma è possibile – domanda Gabriele Mandolesi, uno dei fondatori del movimento “Slot Mob”, nato per allontanare le slot-machine dai bar – che a fronte di una cifra di questo genere lo Stato non sappia nemmeno chi detiene la proprietà di queste società?”. Può apparire incredibile, ma è proprio così. Nel libro si fa l’esempio di una delle più note e importanti tra le concessionarie, la Sisal. La concessionaria del Superpenalotto, di Win for life, slot machine e scommesse sportive attraverso la Sisal Machpoint.
“Sisal Spa – si legge in “Vite in gioco” – opera in Italia attraverso 6 società, ed è controllata dalla Sisal Holding Istituto di Pagamento Spa, controllata a sua volta dalla Gaming Invest Srl, società di diritto lussemburghese i cui soci, secondo quanto riportato sul sito istituzionale, sono 3 fondi di private equity (Apax, Permira e Clessidra), una società di consulenza finanziaria (Global Leisure Partners LLP) e la famigia del socio fondatore Molo. Sapere chi sono le persone fisiche che detengono partecipazioni rilevanti indirette non ci è dato”.
Gli autori fanno notare che il presidente del gruppo Sisal è Augusto Fantozzi, ex comissario straordinario dell’Alitalia, che era ministro dell’Economia tra il 1995 e il 1997, proprio quando la Sisal ottenne la concessione dell’Enaotto che poi, nel 1997, divenne il mitico Superenalotto. “Senza mettere in dubbio la buona fede di Fantozzi e della Sisal – scrivono – sarebbe in ogni caso ragionevole, per evitare commistioni e conflitti di interesse di qualche tipo, prevedere dei meccanismi che vietino (almeno per un periodo di tempo stabilito) a chi ha svolto incarichi politici o da dirigente pubblico direttamente o indirettamente connessi al tema delle concessioni del gioco d’azzardo di lavorare per le concessionarie una volta finito il mandato (e viceversa)”.
Il problema della trasparenza nel rapporto tra Stato e concessionari si dovrebbe porre comunque. In questo caso a renderlo urgente sono anche le vicende giudiziarie. L’amministratore delegato di Sisal Emilio Petrone, per esemio, è stato indagato per corruzione nell’inchiesta sulla Banca Popolare di Milano guidata da Massimo Ponzellini. E l’ex presidente Rodolfo Molo nel 1999, assieme all’allora direttore generale Fabrizio Motterlini, è stato ugualmente indagato, in quel caso per la creazione di fondi neri attraverso sovrafatturazioni con società estere. E’ chiaro che qua non si pone il problema della fondatezza delle accuse. Potrebbero anche essere prive di qualunque fondamento, ma il solo fatto che siano state formulate dimostra l’esigenza di meccanismi trasparenti, proprio per evitare che i delicatissimi meccanismi delle relazioni finanziarie vengano contaminati dal sospetto.
L’esame dettagliato degli assetti societari (per quel che è pubblico) delle concessionarie e delle loro relazioni politiche, individua l’esistenza di legami strettissimi, a volte di dipendenza diretta. O attività di sostegno e di finanziamento. Nel novembre scorso, un servizio de le Iene ha rivelato che nel 2004 Antonio Porsia, amministratore unico e proprietario della Hbg Gaming (venti sale Biongo e migliaia di slot sparse per l’Italia) erogò alla fondazione “Vedrò”, facente capo all’ex premier Enrico Letta un finanziamento di 20mila euro e anche un altro contributo (contestato da Letta) di 15mila euro per la campagna elettorale delle elezioni europee.
Si tratta di somme relativamente piccole. Però la vicenda ha fortemente imbarazzato l’allora premier. Anche perché in quello stesso periodo uno dei temi all’ordine del giorno era il cosiddetto “maxicondono” fiscale alle concessionarie del gioco d’azzardo. Così come suscitò parecchie polemiche l’ingresso di Porsia nel business del Bingo al tempo del governo D’Alema quando tra i ministri ce n’era uno, Tiziano Treu, che in passato aveva avuto lo stesso Porsia tra i collaboratori della sua segreteria. Ma la lista degli incroci tra politica e mondo del gioco d’azzardo è ben più lunga. Idonea a gettare un’ombra su qualunque decisione venga assunta in relazione a questo business. La trasparenza è l’unica, parziale, soluzione.
24 luglio 2014

Corruzione, Gdf: 1435 denunce nel 2014, il picco nel settore appalti

Corruzione, Gdf: 1435 denunce nel 2014, il picco nel settore appalti

La Guardia di finanza, nei primi cinque mesi del 2014, ha denunciato per concussione, corruzione, peculato o abuso d’ufficio 1.435 persone, 126 delle quali sono state arrestate. Nel solo settore degli appalti, le indagini della Gdf hanno portato alla denuncia di 400 persone, per un valore di gare irregolari di 1,2 miliardi.
Dall’inizio dell’anno sono pervenute alla Guardia di finanza, tramite l’Unità d’informazione finanziaria della Banca d’Italia, oltre 38.000 segnalazioni di operazioni sospette. Lo ha reso noto il comandante generale della Gdf, Saverio Capolupo, dicendosi favorevole all’introduzione del reato di autoriciclaggio. “Nonostante la caduta dei consumi e la crisi economica, l’attività di recupero dell’evasione fiscale procede con risultati costantemente crescenti. Questo grazie a un cambio di strategia che ci ha fatto mettere in primo piano la qualità dei controlli rispetto alla quantità”. Lo ha detto il comandante generale della Guardia di finanza, generale Saverio Capolupo, parlando all’isola di Ponza (Latina).
Grazie a questa nuova strategia, nel 2013 la Guardia di Finanza ha scoperto oltre 15 miliardi di euro di basi imponibili sottratte a tassazione nel campo dell’evasione internazionale, 16 miliardi di ricavi non dichiarati da oltre 8.300 evasori totali e più di 2 miliardi di Iva evasa, riconducibili al fenomeno delle “frodi carosello”. Nello stesso periodo, sono stati denunciati oltre 12.000 responsabili di frodi e reati fiscali, di cui circa 200 arrestati, principalmente per aver utilizzato o emesso fatture false, per non aver versato l’Iva e per non aver presentato la dichiarazione dei redditi o per aver distrutto o occultato la contabilità; sono state poi avviate procedure di sequestro nei confronti dei responsabili di reati fiscali, di beni mobili, immobili e disponibilità finanziarie per 5,3 miliardi di euro, di cui 1,4 miliardi già eseguiti.
Il comandante generale della Guardia di finanza, generale Saverio Capolupo, parlando all’isola di Ponza, ha invitato a valutare il fenomeno della cosiddetta “evasione di necessità”. “L’evasione di necessità – ha detto – è un fenomeno che riguarda quei contribuenti che non ottemperano agli obblighi tributari in ragione di contingenti difficoltà economico-finanziarie. Di certo – ha aggiunto – vanno distinti dai circa 3.000 evasori totali già scoperti nell’anno in corso coloro che hanno dichiarato i redditi ma poi non versano le imposte per necessità: condotta meno grave in linea di principio, per la quale si potrebbe ipotizzare una depenalizzazione”. “Deve essere chiaro, però – ha concluso Capolupo – che il nero, l’evasione e le frodi fiscali alterano sempre le regole del mercato e quindi producono ulteriori danni agli imprenditori onesti e coraggiosi, che hanno affrontato le difficoltà restando nell’alveo della legalità”.

RENZI L’AFRICANO A CACCIA DI GAS E PETROLIO PER ENI

RENZI L’AFRICANO A CACCIA DI GAS E PETROLIO PER ENI

 

di Umberto Mazzantini

 

Dopo la tappa in Mozambico, dove ha firmato gli accordi già stesi dall’ENI con il governo di Maputo per gli immensi giacimenti gasieri del Paese africano, Renzi nel suo tour petrolifero si è recato in altri due Paesi già marxisti-leninisti: la Repubblica del Congo (Brazzaville) e l’Angola, ora convertiti al liberismo familistico/tribale più sfrenato, ma gestito sempre dagli stessi uomini che hanno cambiato casacca ideologica.

La visita di Renzi in Africa sembra più quella di un piazzista dell’ENI che quella di un premier di uno Stato democratico, e la “tecnica” utilizzata sembra ormai essere quella “cinese”, adottata anche da democrazie che poi si scoprono “selettive” se si parla di Ucraina o Gaza: accordi e pacche sulle spalle con tutti e nessuna domanda sui diritti umani e le libertà di opinione.

Comunque, se l’accordo in Mozambico – il più democratico tra i Paesi visitati – era più o meno ordinaria amministrazione (al di là dell’enormità delle riserve di gas scoperte da ENI) come ben sanno i lettori di greenreport che hanno seguito le scoperte di ENI nell’offshore di quel Paese, diversa è la situazione per quanto riguarda il Congo-Brazzaville, dove Renzi ha incontrato l’inossidabile presidente Dennis Sassour Nguesso, prima dittatore marxista-leninista e poi autoritario e ricchissimo presidente eletto.

Alla presenza di Renzi e Nguesso, l’amministratore delegato dell’ENI, Claudio Descalzi, e il ministro degli Idrocarburi congolese, Andre Raphael Loemba, hanno firmato un accordo di cooperazione che conferma la storica presenza della nostra multinazionale nel Paese e «nel quale si afferma – spiega un comunicato ENI – la volontà di perseguire nuove iniziative nel bacino costiero congolese, che si estende dall’onshore Mayombe al deep-offshore».

ENI opera nella Repubblica del Congo dal 1968, ininterrottamente (anche ai tempi della dittatura filo-sovietica). Nel 2013 la compagnia italiana ha estratto circa 120.000 barili di olio equivalente al giorno. Descalzi, che in questo tour africano è sembrato fare le funzioni di ministro degli Esteri dell’Italia, ha confermato «l’importanza storica e strategica del Paese per ENI e ha riaffermato il massimo impegno della compagnia a proseguire nello sviluppo delle proprie attività, in particolare dei giacimenti rispetto ai quali, in seguito a un negoziato strategico, il governo congolese a fine 2013 ha prolungato i permessi (Madingo, Marine VI e Marine VII)».

Nell’Africa sub-sahariana, dove produce circa 450.000 di olio equivalente al giorno, ENI è presente inoltre in Ghana, Gabon, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Togo, Kenya, Liberia e Angola, ed è proprio in quest’ultimo Paese che Renzi ha fatto tappa per incontrare il presidente Jose Eduardo Dos Santos, del partito egemonico ex marxista-leninista dell’MPLA, e soprattutto suo figlio Jose Filomeno Sousa, presidente del Fondo sovrano angolano, creato con i proventi del petrolio.

Anche qui Renzi era stato preceduto il 19 luglio da ENI, che in un comunicato ha annunciato: «N’Goma FPSO è pronta a salpare in direzione dell’area offshore del blocco angolano 15/06, dopo la cerimonia di battesimo che si è tenuta ieri a Port Amboim. In seguito inizierà le operazioni di ormeggio e aggancio. Questa è per ENI e i suoi partner una tappa fondamentale per il conseguimento del first oil del West Hub Development Project previsto per la fine del 2014. Il progetto segnerà il ritorno di ENI in Angola come operatore in acque profonde». ENI è presente in Angola dal 1980, in piena guerra civile tra i marxisti dell’MPLA, appoggiati da cubani e sovietici, che avevano liberato l’Angola dal colonialismo portoghese, e i ribelli dell’Unita appoggiati dal Sudafrica razzista e dagli occidentali, e nel 2013 ha avuto una produzione netta di 87.000 barili al giorno.

La visita di Renzi in Angola, che a Luanda ha parlato davanti ad una platea quasi interamente composta da investitori italiani e occidentali, serve quindi a mettere il suggello definitivo al West Hub Project, tra i blocchi assegnati in Angola nel 2006 con un bid internazionale, la prima area di sviluppo che andrà in produzione. Questo progetto, spiega ENI, «comprende i campi Sangos, Cinguvu e Mpungi e prevede la perforazione di 21 pozzi sottomarini di cui 12 produttori, 4 iniettori acqua e gas alternativi e 5 iniettori d’acqua. La profondità d’acqua è compresa tra i 1.000 e i 1.500 metri. Un secondo progetto di sviluppo simile è inoltre in corso di esecuzione (East Hub) per sfruttare le riserve scoperte nella zona nord-orientale dello stesso blocco».

COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

 

di Checchino Antonini, da Liberazione

 

Era il 5 febbraio del 2000, governava Massimo D’Alema, quando entrò in vigore la liberalizzazione del mercato dell’oro. Da allora i “compro oro” hanno preso a spuntare come i funghi contribuendo a ridisegnare il paesaggio metropolitano al tempo della crisi. Vendere i gioielli di famiglia non è solo la metafora della dismissione del patrimonio pubblico ma la pratica quotidiana di famiglie colpite dalla sindrome della quarta settimana – spesso della terza – di malati cronici ai quali viene negato l’accesso gratuito ai farmaci di fascia C, di malati di gioco d’azzardo, di cittadini strozzati dall’usura o imprenditori cui è negato il credito in banca. Ma è anche il luogo dell’intreccio tra queste disperazioni e il lavoro incessante dell’economia criminale per ricettare o ripulire le quantità di denaro provenienti da altri business delle cosche. Ancora meno del denaro contante, l’oro non puzza e nemmeno è tracciabile quando viene fuso.

«Non ci vuole una professionalità specifica e nemmeno una trafila burocratica complicata. Le direttive dell’Agenzia per le Entrate sono confuse ma basta una licenza ex articolo 127 del Tulps come una rivendita di preziosi usati. Non serve nemmeno la Dia, la dichiarazione al Comune di inizio attività». Una delle guide di Liberazione per questo articolo è Stefano, giovane commercialista romano di 38 anni che, con due amici di sempre, ha appena aperto un “compro oro” in un quartiere della prima periferia est della Capitale, Tor Pignattara. Quartiere popolare e sempre più mescolato di italiani, stranieri e nuovi italiani. Un mese dopo, Stefano mostra la foto sul cellulare del primo lingotto, il primo chilo ricavato dalla fusione in un “banco metalli”, il secondo passaggio della filiera per aprire il quale è necessaria, invece, una concessione governativa. Da lì l’oro viene acquistato dalle banche o prende la strada dei processi industriali. Le Banche centrali del mondo nel 2012 hanno comperato più oro di quanto abbiano fatto negli ultimi 49 anni, spinte dalla necessità di ricoprirsi alla luce della montante crisi del debito sovrano che ha colpito gli USA e l’Europa. La forte domanda ha fatto salire anche il prezzo al grammo, che oggi sfiora i 40 euro.

«L’utile non è molto alto, il 10%, ci sono commissioni fisse da pagare al banco metallo (dai 35 ai 50 cent al grammo), e la concorrenza si fa sempre più alta e agguerrita. Così il guadagno si aggira sui 2 euro e mezzo al grammo. Ma c’è offerta e si movimentano subito discrete quantità di denaro. Metti l’insegna e la gente entra subito, dipende dalla location e dalla pubblicità. Può sembrare assurdo ma ci sono clienti abituali, persone normali. Insomma non entrano fenomeni da baraccone».

Telecamere, casseforti, vetri blindati a norma, la fedina penale pulita e l’insegna ben visibile e riconoscibile. Gli ingredienti per aprire questa attività sono pochi e semplici da miscelare. Serve la padronanza minima per “grattare” l’oro, pesarlo e comprarlo in base ai due fixing quotidiani della Borsa di Londra che stabiliscono un prezzo volato dai 9 euro al grammo del 2001 ai 39,06 del giorno in cui viene scritto questo articolo. «In tempi di crisi salta il valore convenzionale delle cose e delle valute ma tutti si fidano ancora dell’oro che è ai massimi storici sebbene fluttui anch’esso».

«Arrivano ogni giorno anche signore disperate. C’è chi prova a vendere la fede del marito morto, proviamo a dissuaderla: “pensaci bene, ripassa domani” – prosegue il racconto di Stefano – la maggior parte è gente di mezz’età, molti indiani, ragazzini appena maggiorenni che vendono le catenine della comunione per comprare il motorino. E poi ci sono i tipi strani. Se qualcuno fa operazioni ricorrenti proviamo prima a fargli un prezzo sempre peggiore, per scoraggiarlo, e poi dobbiamo segnalarlo alla Banca d’Italia». Le regole impongono che il venditore abbia un documento italiano, che vengano fotografati gli oggetti e venduti solo dopo una giacenza di 10 giorni per eventuali controlli. Alcune questure chiedono di conservare le carte per dieci anni, procedura che presenta più di un dubbio rispetto alla privacy. «La prima “sòla”, sembra un luogo comune, ce l’ha data un napoletano con un anello solo placcato. Chissà se è autentico il documento che ci ha dato. Non ci spreco nemmeno il tempo di andare a sporgere denuncia». In tutta Italia i “compro oro” sono più 28.000 (poco più del 10% iscritti all’Albo degli operatori professionali) con picchi a Roma, Napoli e in Sicilia, luoghi ad alta presenza di malavita. Uno ogni 13.000 abitanti con un boom che insegue la crisi, dal 2008. Secondo la polizia, il 14% compie operazioni illegali. Un giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro all’anno per circa 400 tonnellate tra oro e argento. Più pessimista l’avvocato Ranieri Razzante presidente di AIRA, l’Associazione Italiana Responsabili Anti-riciclaggio, e consulente della Commissione Parlamentare Antimafia, «il 60% dei negozi compie azioni illecite o criminali. Ed è una stima per difetto». Un controllo solo 3.000 negozi ha scovato 113 milioni di euro non dichiarati, IVA evasa per 36,5 milioni e 31 evasori totali.

La gran parte dei compro oro lavora onestamente ma la deregulation scava ampie nicchie per il riciclaggio, la movimentazione di merce rubata, e per l’usura. Il turn over delle licenze osservato dalle questure, un terzo delle richieste, potrebbe servire proprio a sottrarsi allo sguardo di chi deve controllare. Basta un prestanome qualsiasi per aprire una “lavanderia”. Il riciclaggio è piuttosto semplice: si fa una prima operazione di compravendita regolare. Vengono trascritti per bene i dati sull’oggetto e il venditore sul registro obbligatorio vidimato dalla questura, poi con lo stesso documento si registrano decine di operazioni fittizie spesso a prezzi fuori mercato. Risulterà che l’ignaro primo venditore (ma può essere anche un morto, un nome inesistente o che non ha mai venduto nulla) ha portato in un mese alcuni chili d’oro. Gioielli mai esistiti ma che saranno contabilizzati dal titolare così da giustificare il denaro liquido in cassa quale frutto della fusione e della rivendita di oggetti mai arrivati e mai venduti. Soldi sporchi che all’improvviso ritornano in mano alle mafie immacolati e regolari, senza puzzare di racket.

Ogni anno in un singolo negozio girano in media 350.000 euro all’anno. Un dato considerato credibile dal “nostro” Stefano. Secondo la polizia dove apre un “compro oro” di solito si verificano aumenti di furti e rapine. A vederla da Bari, l’Osservatorio sulla legalità ha calcolato che, nel 2011, furti, scippi e rapine sono aumentati del 70% nelle zone ad alta concentrazione di “compro oro”. L’associazione SOS Racket e Usura ha filmato la facilità del riciclaggio, in vari negozi e con molta facilità, uno dei suoi attivisti è riuscito a vendere senza esibire la carta d’identità.

Ma i “compro oro” hanno eroso uno spazio tradizionalmente appannaggio del “monte”, come lo chiamano a Roma, il Monte di Pietà. Un impresario del settore è stato scoperto a Roma con 20 chili d’oro e 10 d’argento in cassaforte per un valore di 800.000 euro. Tra gli oggetti sequestrati anche gioielli che riceveva in pegno da persone in difficoltà economica e che rivendeva loro con un incremento del 20% del prezzo. Ce lo dice Italo Santarelli, attivo col CEIRP da 19 anni nella lotta contro l’usura. Racconta di come la stretta creditizia consegni famiglie e piccoli imprenditori nelle fauci del credito illegale, i “cravattari”. Chi ha bisogno di denaro liquido in tempi brevissimi e senza troppe domande si rivolge ai compro oro abusivi. Una funzione, quella tipica dei monti di pietà, vietata per legge ai privati.

 

In Parlamento giacciono da tempo nel cassetto due progetti di legge che vorrebbero far emergere dalla deregulation (ad esempio con l’obbligo di inviare entro 24 ore alla Questura ogni informazione sugli oggetti e un borsino dell’oro usato) un settore dove non tutto quello che luccica, è oro.

RECUPERO DELL’ACQUA PIOVANA: SISTEMI FAI DA TE

RECUPERO DELL’ACQUA PIOVANA: SISTEMI FAI DA TE

 

di Marta Albè

 

Recuperare l’acqua piovana significa avere a disposizione una risorsa preziosa, che permette di evitare sprechi idrici legati all’utilizzo di acqua potabile anche quando non sarebbe necessario. Pensiamo ad esempio all’irrigazione di orti e giardini.

Recuperare l’acqua piovana offre almeno 5 vantaggi e possibili impieghi da non sottovalutare. Il risparmio sulla bolletta è assicurato.

Recupero acqua piovana: vantaggi e utilizzi

1) L’acqua piovana raccolta e filtrata può essere utilizzata per la pulizia della casa e per il bucato. La sua efficacia pulente è maggiore e permette di risparmiare sia sull’acqua potabile che sull’impiego e acquisto di detergenti e anticalcare per la lavatrice.

2) L’impiego dell’acqua piovana è adatto per lo sciacquone del WC senza temere accumuli di calcare. L’acqua piovana non ne contiene.

3) Innaffiare orto e giardino senza sprechi idrici e risparmiando sull’acqua potabile.

4) Grazie ad appositi sistemi di raccolta, l’acqua piovana può essere utilizzata anche per l’igiene personale, per riempire la vasca da bagno e per lavarsi i denti, oltre che per la doccia.

5) L’impiego dell’acqua piovana è indicato per la pulizia dei pavimenti e per il lavaggio dei piatti a mano, oltre che dell’automobile.

Acqua piovana per l’irrigazione

Uno dei sistemi più semplici per la raccolta dell’acqua piovana ai fini dell’irrigazione consiste nel posizionare nell’orto o in giardino una o più cisterne piuttosto capienti. Anche chi possiede un balcone o un terrazzo può raccogliere l’acqua piovana, collocando alcuni secchielli nei punti più adatti. Ciò permetterà di innaffiare piante, orto e giardino durante i mesi estivi senza ricorrere all’acqua potabile ed evitando le restrizioni e le sanzioni delle ordinanze comunali in merito.

Rivolgendosi ad un installatore, oppure optando per il fai-da-te e basandosi sugli strumenti appositi che si trovano in vendita, sarà possibile unire alla raccolta dell’acqua piovana un sistema di irrigazione goccia a goccia dell’orto, che permetterà l’impiego razionale delle risorse idriche.

Leggi anche: I migliori metodi per annaffiare le piante quando partite per le vacanze

Impianto per la raccolta dell’acqua piovana auto-costruito

Con un po’ di manualità è possibile costruire da sé un impianto per la raccolta dell’acqua piovana. L’impianto che vi presentiamo è stato realizzato all’interno del progetto Vivere Con Stile promosso dall’Amministrazione Comunale di Portogruaro (VE). Il progetto “open source” è stato pubblicato sul web in modo tale che potesse risultare di ispirazione per altri cittadini alla ricerca di informazioni e di strumenti per il risparmio idrico. Il sistema è basato sull’idea di prelevare l’acqua piovana che cade, durante le piogge, da una o più condotte pluviali esistenti, cioè provenienti dal tetto, e di convogliarla in un serbatoio che funge da accumulo temporaneo.

È necessario porre particolare attenzione alla scelta del punto della casa in cui collocare il serbatoio e alla sua altezza da terra. Ad esso dovrà essere collegato almeno un tubo di distribuzione dell’acqua piovana. In vendita esistono numerose tipologie di tubi e serbatoi di raccolta. Per l’orto e per il giardino può essere utile dotarsi di un rubinetto a tempo per automatizzare l’innaffiatura.

È possibile seguire passo dopo passo le istruzioni online per l’auto-costruzione dell’impianto.

Installazione di un impianto per il recupero dell’acqua piovana

Seguendo le immagini del video che vi proponiamo potrete comprendere quanto possa essere semplice l’installazione di un impianto per la raccolta dell’acqua piovana da esterno o da giardino. Dopo aver acquistato gli strumenti necessari, è possibile procedere all’installazione fai-da-te. I sistemi di raccolta dell’acqua piovana permettono di recuperarla dai tetti, filtrarla, conservarla in cisterne e riutilizzarla per il giardino o per usi domestici. Per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito web www.raccoltaacquapiovana.it.

Raccogliere l’acqua piovana con una bottiglia

Chi desidera sperimentare in modo semplice la raccolta dell’acqua piovana potrà provare a ricorrere a delle comuni bottiglie di plastica. Dovrete inoltre tenere da parte i loro tappi e procurarvi del nastro isolante. È necessario tagliare i tappi conservando soltanto le loro ghiere. Una delle due bottiglie dovrà essere tagliata a metà, per formare un imbuto. Unite i tappi uno sull’altro con del nastro isolante ed avvitateli sul collo delle due bottiglie. Otterrete così un unico sistema composto da una bottiglia con imbuto incorporato.

Il tutto andrà posizionato in un punto in cui sarà possibile raccogliere l’acqua piovana. Un sistema ancora più semplice consiste nell’inserire un normale imbuto in una bottiglia di vetro o di plastica, in modo da ottenere un piccolo serbatoio fai-da-te per la sua raccolta. Potrete posizionarlo sul balcone, in giardino o al di sotto del punto di scolo di una grondaia.

Raccolta di acqua piovana con un serbatoio

Per l’installazione di un sistema di recupero dell’acqua piovana con serbatoio procedete come segue:

1) Innanzitutto è necessario preparare un sistema di tubature che permettano la raccolta dell’acqua piovana dai punti di scolo, ad esempio per quanto riguarda i tetti e le grondaie. Le tubature dovranno essere collegate ad un serbatoio di accumulo.

2) È indispensabile posizionare un filtro per l’acqua piovana. La sua collocazione dovrà permettere che l’acqua venga filtrata prima di raggiungere il serbatoio. In questo modo al suo interno vi sarà unicamente acqua pulita e priva di residui come foglie e pietrisco. L’acqua non sarà potabile ma potrà essere impiegata per innaffiare e per le pulizie domestiche senza problemi.

 

3) Dopo aver posizionato il filtro, potrete installare il serbatoio, collegandolo ai tubi di raccolta dell’acqua e ad un eventuale conduttura di scolo per l’acqua in eccesso, che dovrà raggiungere la fognatura. La capienza del serbatoio dovrà essere valutata in base alle condizioni climatiche della zona in cui si vive.

Arrestata la famiglia Ligresti al completo

Arrestata la famiglia Ligresti al completo

 

 

 

Svolta clamorosa nell’inchiesta sulla societa’ assicurativa della famiglia Ligresti. Tramite una holding si sarebbero messi in tasca 253 milini di euro. Secondo un’indagine della finanza questo sarebbe avvenuto grazie ad “una sistematica sottovalutazione delle riserve tecniche del gruppo assicurativo la cosidetta riserva sinistri. Una societa’ assicurativa molto importante era cosi’ piegata  agli interessi di una parte dell’azionariato, che deteneva il 30%”. Queste le accuse che hanno portato in carcere od ai domiciliari tutti i Ligresti ed i loro principali collaboratori. Lui il patriarca, vecchio amico di Craxi e noto in tutto il mondo politico e finanziario, di origine siciliane ma con le fortune accumolate a Milano nel campo immobiliare ed assicurativo, e’ finito ai domiciliari, viste le sue ottantuno primavere. La figlia Giulia e’ stata fermata a Milano e portata in cella, la figlia maggiore, Jonella passa direttamente dalle vacanze in Sardegna al carcere di Cagliar. Paolo il figlio maschio, invece era prudentemente in Svizzera, ed ha fatto sapere che almeno al momento non intende rientrare. Domiciliari invece per i collaboratori del gruppo Fonsai, Marchionni, Erbetta e Talarico. 

ROTTURA SENZA PRECEDENTI TRA SAUDITI E WASHINGTON SULL’EGITTO

ROTTURA SENZA PRECEDENTI TRA SAUDITI E WASHINGTON SULL’EGITTO

 

di F. William Engdahl, Alessandro Lattanzio

 

Crepuscolo nel deserto?

Nel 1945, al suo ritorno dalla fatidica Conferenza di Jalta, il presidente degli USA Roosevelt incontrò il re saudita Ibn Saud e ottenne i diritti esclusivi per le società petrolifere del gruppo statunitense Rockefeller sulle grandi ricchezze petrolifere dell’Arabia Saudita, il rapporto tra l’Arabia e la politica estera degli USA è stato quasi una satrapia dei sauditi [1]. In seguito allo “shock petrolifero” del 1973, orchestrata da Kissinger, in cui l’OPEC alzò il prezzo di circa il 400%, Washington strappò l’impegno dai sauditi che avrebbero assicurato che l’OPEC vendesse il petrolio solo in dollari, garantendo in tal modo il continuo dominio del dollaro come valuta di riserva mondiale. In cambio, Washington accettava di vendere armi statunitensi e anche di addestrare l’Aeronautica militare saudita [2].

E nel 2010, proprio mentre Washington avviava la sua offensiva di primavera della “democrazia” araba in Tunisia, Egitto e in tutto l’arco di crisi islamico, l’amministrazione Obama annunciava il più grande accordo sulle armi della storia. Gli USA accettarono di vendere ai sauditi 84 F-15 nuovi e di aggiornarne altri 70, nell’ambito di un accordo da 46 miliardi di dollari, il più grande affare sulle armi nella storia degli Stati Uniti, preparandosi ad isolare l’Iran [3].

Come abbiamo riportato in un precedente articolo, prima del colpo di Stato militare egiziano, i sauditi stipularono un accordo segreto con il ministro della Difesa e capo dell’esercito, generale Abdul Fatah al-Sisi, che i sauditi, assieme ad altri petro-Stati conservatori del Golfo, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, avrebbero garantito il sostegno finanziario se l’amministrazione Obama avesse tagliato il miliardo di dollari in aiuti annuali ai militari egiziani, per rappresaglia per la cacciata del loro uomo, Mursi [4].

Il 17 luglio, il neo-governo di transizione egiziano ha confermato di aver ricevuto 6 miliardi di sovvenzioni, prestiti e carburante da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

L’Arabia Saudita ha approvato 4 miliardi di dollari in aiuti all’Egitto, e gli Emirati Arabi Uniti hanno offerto 2 miliardi di dollari per sostenere le disperate necessità dell’economia. I fondi sauditi comprendono 1,5 miliardi di deposito alla banca centrale, 1,5 miliardi di prodotti energetici e 750 milioni in contanti, ha detto il ministro delle Finanze saudita Ibrahim al-Assaf. Gli Emirati Arabi Uniti doneranno 750 milioni all’Egitto e 1,5 miliardi di prestiti sotto forma di deposito non fruttifero presso la banca centrale d’Egitto [5].

La notizia è un doppio schiaffo a Washington che aveva insistito sul fatto che il governo Mursi dovesse accettare le dure richieste del FMI come condizione preliminare per l’aiuto finanziario.

Il Qatar reagisce in modo drammatico

Vistosamente, uno dei più ricchi petro-Stati del Golfo latita da questi aiuti; il Qatar, il cui emiro Hamad bin Khalifa al-Thani aveva versato oltre 6 miliardi all’Egitto dopo la rivoluzione di due anni e mezzo fa, e forse altri 7 miliardi per finanziare gli islamisti in Libia, Siria e Gaza, l’enclave palestinese gestita da Hamas, un ramo della Fratellanza Musulmana. Il Qatar ospita la sede centrale del Comando Centrale e il Combined Air Operations Center degli Stati Uniti. E, in particolare, fino al colpo di Stato militare sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti contro il domino della Fratellanza in Egitto, il 3 luglio, il Qatar era sede di importanti membri della Fratellanza Musulmana ed uno dei suoi principali finanziatori in Siria, Egitto, Libia e in tutto il mondo islamico [6].

Pochi minuti dopo il golpe sostenuto da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in Egitto, l’emiro del Qatar prendeva atto delle conseguenze e annunciava l’abdicazione in favore del figlio Tamim. Hamad bin Jassim al-Thani, che aveva plasmato la politica estera filo-Fratellanza Musulmana del Qatar, è stato messo a tacere, sostituito da un militare che agiva da viceministro degli Interni. La nuova leadership del Qatar ora utilizza parole come “rivalutazione”, “ritaratura” e “correzioni” per discutere della propria politica estera. In breve, non osa rischiare il totale isolamento tra gli Stati del Golfo a dominio saudita [7].

La coraggiosa decisione saudita di agire per fermare ciò che percepisce come la disastrosa strategia islamica statunitense nel sostenere le rivoluzioni della Fratellanza in tutto il mondo islamico, ha inferto un duro colpo alla folle strategia statunitense di credere di poter utilizzare la Fratellanza come forza politica per controllare più strettamente il mondo islamico e usarlo per destabilizzare la Cina, la Russia e le regioni islamiche dell’Asia centrale.

La monarchia saudita cominciava a temere che la Fratellanza segreta sarebbe balzata un giorno anche contro il suo governo. Non ha mai perdonato a George W. Bush e Washington di aver rovesciato la dittatura laica del partito Baath di Saddam Hussein in Iraq, che ha portato la maggioranza sciita al potere, né la decisione degli USA di rovesciare lo stretto alleato dell’Arabia saudita, Mubaraq in Egitto. Da esemplare “Stato vassallo” degli USA in Medio Oriente, l’Arabia Saudita si è ribellata il 3 luglio sostenendo e supportando il colpo di Stato militare in Egitto.

Oltre a far protestare rumorosamente contro il colpo di Stato dei generali egiziani, i suoi alleati della Fratellanza, Washington finora ha potuto fare ben poco, indicazione del crollo del potere globale degli Stati Uniti. Il Pentagono ha inviato due navi da assalto anfibio che trasportano 2.600 marine presso le coste meridionali egiziane del Mar Rosso. L’enorme USS Kearsarge con 1.800 marines e l’USS San Antonio con 800 marines, “hanno risalito il Mar Rosso e si sono posizionate al largo dell’Egitto, perché non sappiamo cosa succederà”, ha dichiarato il generale James Amos, comandante del Corpo dei marines.

 

Washington è improvvisamente preda di un grande caos in politica estera, mentre il nuovo governo ad interim egiziano ha giurato…