L’IMPATTO DEL FRACKING SULL’AMBIENTE E SULLA FAUNA

L’IMPATTO DEL FRACKING SULL’AMBIENTE E SULLA FAUNA

 

di Lorenzo Brenna

 

Il fracking, in italiano fratturazione idraulica, è una tecnica utilizzata per estrarre gas naturale e petrolio dalle rocce presenti nel sottosuolo, utilizzando un getto ad alta pressione di acqua mista a sabbia e altri prodotti chimici per provocare l’emersione in superficie del gas. Questa pratica è stata adottata dagli Stati Uniti da oltre un decennio, nonostante ciò sono ancora largamente sconosciuti gli effetti che questa provoca sull’ambiente e sulla fauna selvatica.

Proprio per sopperire a questa carenza di informazioni alcuni ricercatori dell’Università del Wisconsin stanno conducendo uno studio per comprendere l’impatto ambientale che l’estrazione di gas può avere negli Stati Uniti e in Canada. «Sappiamo che il suolo viene contaminato sia in superficie che in profondità da sostanze chimiche – ha dichiarato Sara Souther, uno degli autori della ricerca – ma non conosciamo le conseguenze visto che finora non sono stati raccolti dati sull’impatto che possono avere sull’acqua, l’aria, la terra o la fauna selvatica».

Fuoriuscite, incidenti, perdite e lo scarico di acque reflue tossiche nei corsi d’acqua rappresentano problemi tutt’altro che infrequenti, ma nessuno ne conosce con precisione l’entità. Molti Stati non chiedono neppure alle società di perforazione di segnalare gli sversamenti “minori” o gli incidenti. Le società che si occupano di fracking hanno sostenuto a lungo che non vi è alcuna prova della contaminazione dell’acqua. E in effetti queste prove non ci sono, ma solo perché finora non sono state effettuate analisi nelle zone perforate.

Il problema della contaminazione dell’acqua rappresenta il pericolo maggiore, al quale si aggiungono l’inquinamento atmosferico e acustico e la frammentazione degli habitat. «Le informazioni a disposizione sono troppo scarne per elaborare un quadro realistico sull’impatto che il fracking ha sull’ambiente e sulla biodiversità», ha affermato Sara Souther. L’industria del fracking gode inoltre dell’esenzione dal Safe Drinking Water Act, emendamento che regola l’utilizzo dei bacini idrici negli Stati Uniti, ogni singolo Stato deve gestire i controlli sui propri pozzi. Ciò significa che l’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente non disciplina l’iniezione delle sostanze chimiche nei pozzi. Secondo la ricerca due terzi dei pozzi esaminati dagli studiosi hanno impiegato almeno una sostanza chimica proibita.

L’Appalachia, una delle zone maggiormente sfruttate per l’estrazione di gas, ospita le foreste temperate con la maggior concentrazione di biodiversità del mondo. Con il fracking si è ottenuto il 39% di tutto il gas naturale prodotto lo scorso anno negli Stati Uniti.

Articolo 18, ma che pena il livello culturale dei nostri imprenditori

Articolo 18, ma che pena il livello culturale dei nostri imprenditori

Un giornalista avveduto come Massimiliano Gallo mi racconta d’aver letto sul Mattino un’intervista a tutta pagina con Antonio D’Amato, imprenditore ed ex presidente di Confindustria. I temi, quelli soliti: la crisi economica, la fatica improba di fare impresa, le tasse che ti strozzano.  Naturalmente, la massima disponibilità, da parte degli imprenditori, “a fare la nostra parte”, dice D’Amato, a patto che. A patto che ci diano libertà di licenziare. Di tutto il gran discorso, questo era il punto fondamentale. Considerazione di Gallo: possibile che invece che trasmettere le proprie sensazioni rispetto all’innovazione, allo sviluppo sociale, insomma con lo sguardo proiettato nel futuro, un uomo che fa impresa ponga al centro della sua esistenza professionale la libertà di licenziare, quasi fosse una soddisfazione personale, una resa dei conti attesa da anni, quasi una ripicca sociale?

Oggi sul Corriere, intervista a Matteo Zoppas, industriale, presidente di Confindustria Venezia e consigliere delegato delle acque minerali San Benedetto, l’azienda di famiglia. L’argomento di partenza è ovviamente l’articolo 18. “Lo si abolisca senza se e senza ma – dice Zoppas – perché è ora di flessibilizzare in uscita, in modo da liberalizzare in entrata”. Sin qui nulla di particolarmente nuovo, nè tanto meno di così scandaloso. Ma poi ci prende gusto, il nostro Zoppas, e alla domanda se non sia  paradossale poter licenziare liberamente per rimettere in carreggiata il Paese, comincia a farsi prudere le mani: “No, si tratta soltanto di concedere alle imprese efficaci riorganizzazioni aziendali seguendo gli spostamenti della domanda, dando la possibilità all’imprenditore di chiudere rami non più remunerativi per scommettere in altri che ritiene più redditizi. E ciò – conclude – lo si fa senza articolo 18″.

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Traduzione simultanea; io imprenditore scommetto sullo sviluppo di un prodotto, investo e dunque assumo alla bisogna. Ma il mercato mi dà una risposta amara, mi certifica che ho scommesso avventatamente, perché il prodotto non sfonda. Quindi si dà “all’imprenditore la possibilità di chiudere rami non più remunerativi…” In buona sostanza silicenziano tutti quelli, o buona parte di quelli che erano stati assunti in quel contesto. Ma andiamo avanti, perché le sorprese non sono finite. Il giornalista del Corriere pone giudiziosamente un’altra domanda e cioè se per far questo non fosse già sufficiente la legge Fornero e qui Zoppas, rappresentante di Confindustria Venezia, dà il meglio: “I costi di contenzioso sono ancora alti, come gli indennizzi riconosciuti ai lavoratori”.

Altra traduzione simultanea: la legge Fornero, che era un buon punto di sintesi tra le varie esigenze (questione esodati a parte), prevedeva appunto indenizzi sensibili in modo da scoraggiare la vena liquidatoria dei nostri bravissimi imprenditori quando le cose non filano. Ma adesso Zoppas ci certifica che quelle soglie sono troppo alte, per cui vanno riviste, se non abbattute.

Traduzione delle traduzioni: l’imprenditore così lo so fare anch’io.

Per tamponare la ciclopica depressione in cui sono caduto, dopo aver verificato il livello culturale dei nostri “migliori” uomini d’impresa, mi sono letto un’intervista di Repubblica a Pietro Ichino, fatta tra l’altro da Griseri, giornalista che sa di lavoro. Qui le cose si sono fatte molto più decenti, sia sotto il profilo del rispetto umano – si parla di lavoratori e non di pacchi da spedire – sia sotto l’aspetto della competenza. E il professor Ichino, certo un uomo non troppo amato a sinistra, analizza le due strade possibili. Quella “che va sotto il nome di Tito Boeri e Pietro Garibaldi prevede che dall’inizio del quarto anno torni ad applicarsi integralmente l’articolo 18. Se si sceglie questa soluzione – analizza Ichino – il rischio è che la parte più debole della forza-lavoro non riesca mai a superare lo “scalone” fra il terzo e il quarto anno. A me dunque sembra preferibile la soluzione che vede crescere gradualmente il costo del licenziamento a carico dell’azienda (capito Zoppas, ndr), e al tempo stesso il sostegno economico e professionale di cui gode il lavoratore licenziato, con il ‘contratto di ricollocazione’”.

Lunga sarà la strada prima di trovare un dignitoso punto di sintesi, soprattutto se il livello degli imprenditori è questo.

Che cosa penso dell’articolo 18

Che cosa penso dell’articolo 18 (e non solo). L’analisi di Alessandra Servidori

16 – 08 – 2014Fernando Pineda

Che cosa penso dell'articolo 18 (e non solo). L'analisi di Alessandra Servidori

Ecco la conversazione con Alessandra Servidori, docente di politiche del welfare pubblico e privato, su articolo 18 e non solo.

Che ne pensa del dibattito sull’articolo 18? È davvero una priorità? È ormai solo un totem come dice Renzi che intende modificare l’intero impianto dello Statuto dei lavoratori?

Sicuramente tutta la materia del lavoro è una priorità ma andiamo per ordine: non sia usata la clessidra agosiana come si fece per il famoso art. 8 del decreto 138/2011 poi nella manovra economica convertito dalla Legge 14 settembre 2011, n. 148 che scatenò reazioni feroci e ci fece perdere tempo prezioso per una riforma equilibrata del lavoro.

Che successe all’epoca?

Le opposizioni in quell’agosto caldissimo gridarono al sovvertimento dell’ordine delle fonti del diritto, attentato ai diritti dei lavoratori, proposero il referendum contro il famigerato l’art. 8, appelli contro tale norma etc., ma  la stessa lettera di Trichet e Draghi al Primo Ministro Italiano di quell’estate ancora oggi dopo tre anni attualissima, era chiara nel chiedere tale cambiamenti come necessari.

Di quali cambiamenti parla?

Ricordo testualmente in tale lettera:

a) “È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena
liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione.
L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si
muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

E allora?

Bene, l’art. 8 del D.L. n. 138/2011 ha dato una svolta fondamentale al sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità, ha riconosciuto un maggior potere alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale statuisce che i contratti collettivi di lavoro, aziendali o territoriali, sottoscritti da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda possono realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario. Sono inoltre espressamente disciplinabili dalla contrattazione aziendale e territoriale le materie inerenti: “a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio.
Il comma 3 dello stesso art. 8 ha stabilito che le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.
Inoltre in data 21 settembre 2011, Confindustria e sindacati firmarono, in via definitiva, l’Accordo Interconfederale di quel giugno su contratti e rappresentanza, diventando così lo stesso pienamente operativo.

Ma perché allora ripensare a tutto di nuovo?

Andiamo avanti, altroché! E sicuramente con equilibrio affrontiamo così anche lo Statuto dei lavori – attenzione, non lo Statuto dei lavoratori – che si porta dietro necessariamente anche la modifica dell’innominabile 18: sbagliato cercare soluzioni triennali già superate dai contratti e apprendistato. Il problema non si pone in relazione alla prima fase lavorativa ma per l’intero arco di vita nel quale può sempre prodursi la rottura del necessario rapporto di fiducia Sono sicura che in Commissione Lavoro del Senato con Sacconi si troverà la soluzione condivisa e magari in settembre quando si riprendono i lavori

Il prof Tiraboschi a Formiche.net ha detto che la situazione economica e politica è cambiata rispetto al 2001 quando c’era le basi per poter intervenire con incisività, e comunque ora Renzi ha già vinto la partita con i sindacati anche su articolo 18. Che ne pensa?

Renzi purtroppo per ora non ha vinto ancora la partita con i sindacati e nemmeno con la Confindustria filo/sindacale. Con la sua irruenza ha però messo in pista la questione che è assolutamente diversa però al 2001. Voglio ricordare che in quell’anno l’Unione europea registrò nel 2000 una crescita economica del 3,5% circa e sono stati creati 2,5 milioni di posti di lavoro, oltre due terzi dei quali occupati da donne. La disoccupazione è scesa al livello minimo dal 1991. Gli sforzi di riforma nell’Unione stavano dando risultati e l’allargamento poteva creare nuove opportunità di crescita e occupazione tanto nei paesi candidati quanto negli Stati membri. Da noi con Marco Biagi che lavorò all’applicazione del “Libro bianco” in un momento assai delicato per la situazione politica ed economica per il nostro Paese, per l’Europa e per il mondo intero. Il quadro di riferimento era caratterizzato, da un lato dagli obbiettivi individuati con il vertice di Lisbona che avevano fissato al 70% il tasso di occupazione per i paesi UE al 2010, dall’altro dai problemi strutturali del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da un ridotto tasso di occupazione, da un divario di genere in termini occupazionali e da squilibri territoriali. Già dall’estate del 2001, il Governo ha tentato di individuare una strategia efficace per riallineare un tasso di occupazione che, nel 2000, in Italia era ancora al 53,3% rispetto ad una media europea del 63,3%, che ancora oggi, si colloca fra le ultime posizioni.

Veniamo al dunque. Qual è la sua conclusione?

È apparso subito evidente, quanto sarebbe stato difficile sviluppare fra le parti un confronto di merito e non soltanto ideologico sulle riforme. Ciò nonostante, seppure a fatica e sacrificando alcuni non trascurabili parti del progetto originario, un primo significativo passo è stato fatto perché Biagi assassinato dalle Br il 19 maggio 2002 ci lasciò una traccia della Sua legge che fu poi promulgata nel 2003 che disegnava una prima strategia d’interventi coerenti, volti soprattutto allo sviluppo di una società attiva e di un lavoro di migliore qualità, ove le regole che presiedono all’organizzazione dei rapporti e del mercato del lavoro possono dare maggiori opportunità di occupazione e risultano più moderne e adatte alle esigenze dei lavoratori e delle imprese. Si trattava, ovviamente di un insieme di deleghe, che enunciavano i principi ispiratori dell’azione del Governo nella predisposizione dei decreti attuativi dai quali doveva risultare il quadro completo delle riforme e delle nuove regole. Il nuovo mercato del lavoro prevedeva di essere costruito premiando i soggetti che più efficacemente realizzano l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Un mercato del lavoro dinamico cioè, per cui la flessibilità non sia vissuta come la generalizzazione del precariato, ordinando con aspetti di maggiore rilevanza della normativa il collocamento e le nuove forme di rapporto di lavoro. Ecco appunto ne parliamo dal 2001: possibile balbettare ancora oggi? Troviamo l’accordo anche con le parti sociali ragionevoli e andiamo avanti anche magari uniformando il nostro diritto del lavoro alle norme comunitarie che hanno prodotto maggiore efficienza e produttività del mercato, costituiti da un mercato del lavoro flessibile, uno schema generoso di un’ampia diffusione delle politiche attive, con relazioni industriali vigorose e lavoratrici e lavoratori che accedono ai sistemi di disoccupazione e successivamente rientrano nell’attività o in un lasso di tempo molto breve o, nel più lungo periodo, dopo essere passati attraverso schemi di attivazione che ne incrementino skills e occupabilità.

Pensa davvero che abolendo l’articolo 18 aumenti l’occupazione? E le modifiche introdotte da Fornero non hanno avuto gli effetti sperati con prevedendo l’intervento del giudice per stabilire il risarcimento?

Allora, le aziende “interessate” dall’articolo 18 sono solo il 2,4% del totale, a essere tutelati da questo provvedimento sono il 57,6% dei lavoratori dipendenti occupati nel settore privato dell’industria e dei servizi. Su poco meno di 4.426.000 imprese presenti in Italia, solo 105.500 circa hanno più di 15 addetti. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, invece, su oltre 11 milioni di operai e impiegati presenti in Italia, quasi 6.507.000 lavorano alle dipendenze di aziende con più di 15 dipendenti: soglia oltre la quale si applica l’articolo 18. Ecco di cosa stiamo parlando, ma sicuramente una riforma non può non prendere in considerazione anche la maggiore possibilità delle aziende a recedere dal rapporto di lavoro con una persona che non soddisfa e risponde in termini di reciprocità.peraltro rimangono comunque ferme le tutele antidiscriminatorie .Io sono convinta che l’aumento dei posti di lavoro si ottenga privilegiando le politiche legate alla domanda, dunque rilanciamo gli investimenti, mettiamo in atto il JOBS ACT di Poletti, diamo vita ad un vero e proprio Piano di dismissione e privatizzazione statali per essere in grado di creare le condizioni per rilanciare l’occupazione e riprendere il sentiero di crescita. La Ministra Fornero ha fatto molto e in condizioni disperate ma il ricorso al giudice per il risarcimento non poteva essere la soluzione poiché il giudice risolve prima il problema reintegrando. Questa è la “delirante verità della giustizia italiana”.

Perché si invocano sempre nuove norme quando invece queste materie possono essere appannaggio delle parti sociali e delle relazioni industriali?

Il nostro Paese è conservatore e le parti sociali non studiano i processi e l’evoluzione economica e sociale e le varie soluzioni da adottare: prima di tutto dovremmo essere più attenti all’impatto di una norma su altri profili oltre a quello strettamente giuridico. Ci aiuterebbe sicuramente a contestualizzare le norme valutandone l’impatto sociale ed economico. Non è semplicemente la riforma legislativa che cambia il mondo del lavoro, ma che è necessario un cambio di mentalità, delle persone. Per questo è utile valutare anche complessi organizzativi ed economia di un paese per fare le norme e dunque le prassi informali che poi conducono a buone relazioni industriali tra le parti sociali . Ma questo balzo culturale l’Italia delle ”OOSS” ancora nostalgica della concertazione e dei rituali dei tavoloni e tavolini non è pronta economicamente e socialmente a farlo e a cambiare. Ci sono bravi maestri e maestre pronte comunque a dare una mano a settembre e anche dopo a fare da nave scuola ai giovani esploratori. La presunzione della completezza non è mai stata una buona strategia d’azione.

Renzi: l’articolo 18 è un totem ideologico, è giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori.

Renzi: l’articolo 18 è un totem ideologico, è giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori. Mai più soldi pubblici ad Alitalia

di 14 agosto 2014

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Argomenti: Governo | Matteo Renzi | Angelino Alfano |Roma (squadra) | Federcalcio | Rai Tre | Juventus |Champions league | Napoli (squadra)

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«È giusto riscrivere lo statuto dei lavoratori? Sì, lo riscriviamo. E riscrivendolo pensiamo alla ragazza di 25 anni che non può aspettare un bambino perché non ha le garanzie minime. Non parliamo solo dell’articolo 18 che riguarda una discussione tra destra e sinistra. Parliamo di come dare lavoro alle nuove generazioni». Lo ha detto il premier Matteo Renzi, nell’intervista a Millennium in onda questa sera su Raitre. «Oggi l’articolo 18 è assolutamente solo un simbolo, un totem ideologico – ha dichiarato Renzi – proprio per questo trovo inutile stare adesso a discutere se abolirlo o meno. Serve solo ad alimentare il dibattito agostano tra gli addetti ai lavori». Passerà Ferragosto a Palazzo Chigi: «è un buon segno, è il segno che ci sono molti cantieri da far partire e che l’Italia può ritrovare slancio e speranza contro tutti questi profeti del pessimismo: i gufi, gli sciacalli, gli avvoltoi. Ormai potremo farne uno zoo».

Smentisco una nuova manovra
Una nuova manovra? «Lo rismentisco. Noi l’abbiamo già fatta la manovra e abbiamo abbassato le tasse», ha detto il premier. «Nella manovra del prossimo anno ci dovranno essere 16 miliardi di riduzione della spesa per stare dentro il 3%, che noi vogliamo rispettare. Per arrivare a questa cifra di solito lo Stato alza le tasse, ma questo meccanismo non si può continuare». Renzi ha detto che il Paese ha più o meno «ha 800 miliardi di spesa pubblica, 16 miliardi sono il 2%, cioè come 20 euro per una famiglia che guadagna mille euro, il 2% si trova agevolmente, ma il punto è capire dove mettiamo i soldi, perchè su alcune voci come la scuola e gli insegnanti bisogna mettere più soldi, bisogna scommettere. Su questo ci sarà una sorpresa a settembre».

Bonus 80 euro: esiste la possibilità di estenderlo
Gli 80 euro potranno essere estesi? «Non lo so, vediamo. Esiste la possibilità di estenderli. Ribadisco: sicuramente lo manteniamo per chi ce l’ha, vediamo se possiamo estenderlo», ha dichiarato Matteo Renzi.

Mai più soldi pubblici ad Alitalia: serve il coraggio di far fallire i carrozzoni
«È del tutto doveroso» non dare mai più soldi pubblici ad Alitalia. «Ne abbiamo messi talmente tanti di soldi pubblici che sarebbe inaccettabile», ha spiegato il premier Matteo Renzi. Ad Alitalia, ha detto Renzi, «è mancata una capacità di guida manageriale forte».
A chi gli chiede se sia stato «sbagliato dare soldi pubblici» alla compagnia di bandiera, Renzi risponde: «Sì. In alcuni casi bisogna avere il coraggio di far fallire alcune aziende che sono dei carrozzoni. Ma bisogna anche far pagare i manager che hanno buttato via i soldi, invece di dargli i premi di produzione. Le regole ci sono già. Basterebbe applicarle. Il problema è che molto spesso, in Italia, si è preferito far finta di niente».

Renzi, la tripletta: via Senato, Unità e Fiat

Renzi, la tripletta: via Senato, Unità e Fiat

Renzi pensa molto di sé ma neppure lui avrebbe creduto a un simile colpo: liberare l’Italia negli stessi giorni, del Senato, dell’Unità e della Fiat. Non era facile perché non c’è apparente legame fra i tre grandi scomparsi, una istituzione, un giornale-memoria e una azienda che, da sola, rappresentava e garantiva l’Italia come Paese industriale. Non ditemi che mettere insieme le tre chiusure (o partenze per sempre) è solo una trovata polemica. Renzi è bravo, come dicono tutti (chiamandolo continuamente Matteo perché è così giovane, e dandogli ideali pacche sulle spalle) e se si chiude il Senato è solo per una sua decisione (il perché, dovremo estrarlo dalle macerie); se chiude l’Unità, ciò che resta di un pezzo glorioso del suo partito, è perché tutto quel passato di altri gli dà noia; se se ne va la Fiat, un esodo unico in Europa e mai accaduto in un grande Paese, è perché il suo disinteresse per ciò che non controlla  – o lui o la Boschi – lo innervosisce e, francamente, non gli interessa.

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Nella loro diversa pesantezza e dimensione, tutti e tre gli eventi hanno un loro aspetto non chiaro (e anzi, misterioso) e stupisce che così tanta parte dei media italiani si prestino a celebrare due degli eventi e a ignorare il terzo.

Nonostante la memoria corta di un mondo su cui piovono Twitter e hashtag come la cenere dopo Hiroshima, credo che si ricorderà la fine del Senato. Perché non se ne conosce la ragione; perché c’erano cose ben più urgenti da fare; perché ha sradicato in modo rozzo e violento i molti legami, ascendenze e conseguenze nellaCostituzione; perché, come ha detto bene, chiaro e al momento giusto, il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, questa legge porta due firme: quella di Matteo Renzi e quella di Silvio Berlusconi. Lo testimonia un’immagine destinata a restare come quelle dei Marines di Iwo Jima: Maria Rosaria Rossi, di casa Berlusconi, abbraccia Maria Elena Boschi, di casa Renzi, con il furore femminile di poche grandi occasioni della vita. La commenta bene, in un desolato e bellissimo testo, su Il Corriere della Sera (7 agosto) Corrado Stajano: “Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, con il ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie?”. Nell’entusiasmo del momento si erano persino dimenticati che Giorgio Napolitano, a un certo momento, avrebbe dovuto diventare senatore a vita. E la Finocchiaro è dovuta correre indietro a inserire un’eccezione per ex presidenti della Repubblica, che restano d’ora in poi i soli senatori a vita. Ma dove? Nel festoso suk di portatori di interessi nominati dalle Regioni.

Intanto Renzi ha chiuso l’Unità. Ma quando mai?, ti direbbero al Nazareno, se ti accogliessero e non temessero che qualcuno gli guardi le carte sul tavolo. L’Unità, ti direbbero, ha finito la corsa, punto e basta. Svelto com’è, Renzi non ha neanche perduto tempo a verificare se e come l’organo del Partito Democratico svolge il suo ruolo. Sì, qualche volta avrà notato con la coda dell’occhio, che non era tutto scritto da lui, che non c’entrava, neppure dopo anni di Ds e poi di Pd remissivo e sempre pronto a qualche pacificazione, con la nuova vita insieme, lui e Berlusconi, Berlusconi e lui.>

Non tutti cambiano radicalmente in una o due assemblee, come i membri di direzione del suo partito. Dopo tutto quel giornale ha mai aperto con grande foto del sorriso fisso sulla non realtà della Boschi o della incompetente e dannosa gentilezza della Madia? Diciamo la verità: il giornale stava nei ranghi ma non lo aveva ancora portato in trionfo. E poi, a certe scadenze, veniva fuori con certi ricordi e immagini e voci di cui non senti il bisogno, mentre condividi questa nuova Italia rinnovata e pacificata con Berlusconi. Intanto se i competenti del mondo fanno notare le tue disattenzioni economiche e il rischio grave dell’Italia, sei già circondato di “grandi giornali” italiani detti indipendenti che si occupano di non dirlo. Infine deve avere notato che nessuno, anche tra i più miti redattori dell’Unità, era mai stato boy scout. Renzi ha imparato solo la prima parte del celebre motto: “Tutti per uno”. È svelto, e passa subito alla conclusione: chiudere, e farla finita, come gli dice Verdini da un pezzo, con la paccottiglia comunista.

La Fiat, che era l’immagine dell’Italia industriale nel mondo e il punto di riferimento per l’industria italiana (se lo fa la Fiat, come fa la Fiat…) si è sfilata con agilità dalle tasse (paga a Londra), dai legami con l’Italia (ha sede amministrativa e legale in Olanda) e dalla produzione (che ha luogo alla periferia di Detroit). Di fronte a un evento di tale enormità i politici non c’erano, non al Parlamento di una o due Camere, non al governo. Renzi lavorava a cambiare verso, a cambiare l’Italia, a forgiare le riforme che tracciano qualche solco ma non si sa per dove.

Anche perché gli hanno portato a Palazzo Chigi tre immensi gipponi, che sarebbero destinati alla produzione italiana (famosa nel mondo per la Cinquecento, ricordate?). Ma la produzione italiana non esiste. Piani, progetti e investimenti sono stati tenuti fermi. E gli operai della Fiat, noti nel mondo per il loro lavoro, ora sopravvivono in buon numero con la cassa integrazione di questa Repubblica, mentre la Casa Tudor-Marchionne paga al governo inglese. Renzi? Per lui va bene. Il Paese gli sembra più fresco, più giovane. Senza Fiat, senza Unità, senza Senato, lui ci ha riportati come bambini al mattino di una giornata che ci promette bellissima. Se righiamo dritto, senza ostruzionismi e senza menarla sulla Costituzione.

Tetto agli stipendi: la casta non li rispetta

Tetto agli stipendi: la casta non li rispetta

Tetto agli stipendi: la casta non li rispetta

Più informazioni su: .

La casta invisibile è quella che, all’ombra della politica, presidia le società controllate dalla politica, gestendo (spesso a beneficio della politica) potere e affari. In cambio ha compensi di tutto rilievo. Dal 1 aprile 2014 è stato però posto un tetto agli stipendi dei supermanager pubblici. Certamente a quelli delle società controllate direttamente o indirettamente dal Tesoro: non un pesce d’aprile, ma una soglia di 300mila euro l’anno oltre la quale non si deve andare. Quel tetto dovrebbe valere anche per le società pubbliche controllate da Regioni e Comuni. Così ora la Corte dei conti della Lombardia ha preparato un dossier che segnala gli uomini d’oro che invece quel tetto lo hanno sfondato. Ecco chi sono.

Il primo è nientemeno che Antonio Rognoni, ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, la società che fu creata dall’allora presidente Roberto Formigoni per gestire tutti i grandi appalti lombardi, compresi quelli di Expo. Rognoni porta a casa la cifra record di ben 953.526,95 euro, tre volte il compenso massimo indicato dalla legge, raggiunto sommando il suo ruolo di direttore generale (284mila euro), quello di direttore lavori (303mila) e gli incarichi in Cal, la società Concessioni autostradali lombarde (altri 367mila euro). Un uomo che ne vale tre. Il 20 marzo, Rognoni è stato arrestato, nel corso delle indagini su Infrastrutture Lombarde ed Expo. E a giugno è stato rinviato a giudizio immediato per associazione a delinquere e turbativa d’asta.

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Il secondo della lista è Giuseppe Sala, il plenipotenziario dell’Expo, che supera il tetto con 430.615,20 euro, sommando gli emolumenti di amministratore delegato (270 parte fissa, più 126 parte variabile) e di consigliere d’amministrazione (27mila) di Expo 2015 spa. I dati della Corte dei conti si riferiscono al 2013 e segnalano anche altri due supermanager oltre la soglia: Giorgio Papa, direttore generale di Finlombarda, la cassaforte finanziaria della Regione, che porta a casa 319.945,36 euro; e Luigi Legnani, amministratore delegato di Trenord e vicedirettore generale di Fnm, con 319.305 euro. All’elenco della magistratura contabile manca almeno un altro supermanager lombardo: Stefano Cetti, ai vertici di Mm spa, rimasta fuori dall’analisi della Corte dei conti perché è controllata non dalla Regione, ma dal Comune di Milano. È la società omologa di Infrastrutture Lombarde, è l’appaltificio del Comune, anch’esso coinvolto nei lavori per Expo.

Stefano Cetti raggiunge la cifra di 340,6mila euro l’anno, sommando gli emolumenti di direttore generale di Mm (210 parte fissa, più 105,6 parte variabile) e di amministratore unico di Metro Engineering srl (25mila euro), società impegnata tra l’altro nella Brebemi, la nuova autostrada Milano-Brescia.

Cetti è rimasto eroicamente al suo posto anche quando le intercettazioni dell’indagine sulla “cupola degli appalti” hanno svelato i suoi intensi rapporti con il capo della “cupola”, Gianstefano Frigerio, arrestato l’8 maggio 2014: lo incontrava e lo riveriva, garantendogli un contatto dentro Mm. Telefonate, appuntamenti, cene: niente di penalmente rilevante, hanno stabilito i magistrati, ma certo professionalmente imbarazzante. Frigerio, intercettato, diceva: “Cetti è importante, eh, perché tutte le robe della metropolitana… lì verranno fuori anche un sacco di lavori…Cetti mi ha detto ‘ci sono anche delle strade di collegamento prima dell’Expo’”. Poi, riferendosi a Cetti e ad Angelo Paris (il manager di Expo arrestato insieme a Frigerio e a Primo Greganti), aggiungeva: “Sono dei miei ragazzi… almeno quei due, quei due lì li faccio correre”.

Per lavoratori LinkedIn batte Facebook

Per lavoratori LinkedIn batte Facebook

Google solo settima

LinkedIn regina della Silicon Valley batte colossi come Facebook, Google e Apple, affermandosi come la migliore societa’ americana per lavorare. A incoronare il social network e’ 24/7 Wall St, sulla base dei dati di Glassdoor.com, sito che consente ai dipendenti di lasciare i propri pareri sulle loro aziende. Facebook conquista il secondo post, mentre Google si piazza al settimo. Apple e’ solo quattordicesima. La cultura che vige in ufficio e l’equilibrio che il posto di lavoro concede con la vita privata sono i due elementi discriminanti per promuovere o bocciare l’azienda di cui si e’ dipendenti.

Le opportunita’ di formazione e di sviluppo di carriera sono un altro fattore decisivo per i dipendenti, insieme ai benefit offerti. La top ten e’ dominata da societa’ tecnologiche, i cui dipendenti sono piu’ propensi a rilasciare commenti positivi rispetto ai lavoratori di altri settori. Delle 75 migliori societa’ per cui lavorare, i punteggi in media piu’ alti (4.0 su un massimo di 5) sono stati ottenuti solo da 12 societa’, di cui quattro tecnologiche e tre di consulenza. Dalla classifica emerge come essere leader di mercato aiuta le aziende a ottenere pareri piu’ positivi, cosi’ come avere successo da un punto di vista finanziario.

Apple, Intel, Procter & Gamble e Walt Dinsey sono fra quelle che hanno ricevuto i pareri piu’ positivi dai propri dipendenti su Glassdoor.com e sono fra le aziende maggiori al mondo per capitalizzazione di mercato. Molte delle societa’ migliori per lavorare sono quelle che hanno la migliore reputazione fra il pubblico: American Express, Facebook, Google e Sap sono fra le migliori per lavorare e fra quelle con il valore del marchio piu’ elevato. Le aziende che ricevono i migliori commenti da parte dei dipendenti sono quelle in cui l’amministratore delegato e’ piu’ apprezzato. Fra le 75 migliori societa’ per lavorare, 38 hanno amministratori delegati con un rating del 90% o superiore, e solo 10 ad hanno un rating sotto l’80%.

SPALMA INCENTIVI, DENUNCIA DI ASSORINNOVABILI ALLA COMMISSIONE UE

SPALMA INCENTIVI, DENUNCIA DI ASSORINNOVABILI ALLA COMMISSIONE UE

 

In vista della definitiva approvazione del provvedimento da parte del Senato, l’associazione ha deciso di chiedere alla Commissione Europea l’apertura di una procedura di infrazione ai danni dell’Italia

“A seguito dell’approvazione del Decreto Competitività da parte della Camera, rimangono al Parlamento e al governo margini sempre più esigui per evitare la fuga dall’Italia degli investitori esteri e le migliaia di contenziosi che esporranno il nostro Paese a pesanti risarcimenti e bruttissime figure”. Così assoRinnovabili, a proposito della recente approvazione alla Camera del provvedimento spalma incentivi.

In vista della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (con l’ultima approvazione del Senato che avverrà nei prossimi giorni), l’associazione ha deciso, insieme a una cinquantina di grandi operatori fotovoltaici, di scrivere alla Commissione Europea chiedendo l’apertura di una procedura di infrazione contro lo Stato Italiano per violazione della Direttiva 2009/28/CE che aveva fissato i target europei per lo sviluppo delle energie rinnovabili.

Non appena la norma entrerà in vigore, assoRinnovabili coordinerà poi i ricorsi degli operatori, sia nazionali sia esteri (le adesioni sono già molto numerose), “ingiustamente penalizzati da un provvedimento che modifica unilateralmente e retroattivamente i contratti sottoscritti con il GSE”.

Due i filoni già attivati: il primo, a cui parteciperanno gli operatori italiani, mira ad ottenere la dichiarazione di incostituzionalità dello spalma incentivi, come già segnalato dal presidente emerito della Corte Costituzionale Prof. Valerio Onida; il secondo, riservato invece agli investitori esteri, dimostrerà che è stato violato il Trattato sulla Carta dell’Energia che tutela gli investimenti nei Paesi aderenti (tra cui l’Italia).

“Auspichiamo ancora che il governo metta riparo all’errore strategico insito nel provvedimento spalma incentivi – ha dichiarato Agostino Re Rebaudengo, presidente di assoRinnovabili –. Se ciò non avverrà, ricorreremo in tutte le sedi possibili e rappresenteremo tutte le parti coinvolte e danneggiate da questa norma, miope e controproducente. La recente sentenza della Corte Costituzionale bulgara, che ha annullato una tassa retroattiva del 20% sui ricavi degli impianti fotovoltaici ed eolici, dimostra che la certezza del diritto non può essere stravolta: siamo sicuri che anche la Corte Costituzionale italiana giungerà alle medesime conclusioni”.

Whirlpool acquista dalla famiglia Merloni il 60,4% di Indesit

Whirlpool acquista dalla famiglia Merloni il 60,4% di Indesit: operazione da 758 milioni

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Accordo raggiunto con la famiglia Merloni, in seguito la società Usa lancerà un’opa sulle rimaneti azioni Indesit

Roma, 11 luglio 2014  – Whirlpool ha raggiunto un accordo con Fineldo e la famiglia Merloni per la cessione di Indesit Company alla società Usa. Whirlpool acquisterà il 60,4% (il 66,8% dei diritti di voto) della compagnia marchigiana per 758 milioni di euro pari a 11 euro per azione. Whirpool lancerà poi un’opa sulle rimanenti azioni Indesit.

SCHEDA – UN PEZZO DI STORIA DEL MADE IN ITALY

INDESIT VOLA IN BORSA –  Balzo in avanti delle azioni Indesit dopo che Whirlpool ha annunciatio che comprerà il 66,8% delle azioni per 758 mln in modo tale da rafforzare la sua presenza in Europa. A Piazza Affari il titolo della famiglia Merloni è in rialzo del 3,5% a 10,86 euro.

FIM CISL: CHIESTO INCONTRO URGENTE  – ‘‘L’accordo con Whirlpool fra Fineldo e, sembra di capire, altri componenti della famiglia Merloni è ormai un dato di fatto. Abbiamo già chiesto al ministero dello Sviluppo economico un incontro urgente, ma una cosa è chiara: l’accordo sindacale dello scorso dicembre con Indesit è oggi l’unico elemento di continuità industriale e lavorativa”. Lo dice Andrea Cocco, della Fim Cisl di Fabriano. ”Senza quell’accordo sul piano da 83 milioni di investimenti negli impianti italiani di Indesit e una serie di ammortizzatori sociali, oggi che l’azienda cambia di proprietà non avremo nulla in mano. E’ stato giusto firmare quell’intesa, e la difenderemo fino alla fine” conclude.

UILM: VIGILEREMO – “Esistono i presupposti perché l’acquisizione di Indesit da parte di Whirlpool, perfezionata in queste ore, avvantaggi la società acquirente e quella acquisita. Il sindacato vigilerà perché l’intesa in questione vada concretamente verso questa prospettiva”. Così Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, si è espresso in merito all’accordo che prevede il controllo del 60,4% del capitale di Indesit da parte della multinazionale statunitense. “Il settore degli elettrodomestici ha sofferto la crisi – ha spiegato Palombella – in Europa, ma soprattutto in ambito nazionale ed abbiamo sottoscritto accordi per proteggere i livelli occupazionali e rilanciare la produzione, come è avvenuto anche nella lunga vertenza Indesit. Ecco perché siamo di fronte ad una vicenda tuttora ‘sotto tutela’ e ‘vigilata speciale'”. “In ogni caso – ha concluso il leader Uilm – la nuova proprietà potrà fortificare l’azienda acquistata con quelle dotazioni utili per reggere ancor di più la concorrenza sul mercato europeo degli elettrodomestici sempre più feroce. Come sindacato monitoreremo costantemente questa utile possibilità di futuro”.

Statali, spuntano i trasferimenti facili. E la pensione forzata scatta da 62 anni

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Il governo accelera sul turnover dei dirigenti. Mobilità, Cgil all’attacco

di MATTEO PALO

Roma, 28 luglio 2014 – La staffetta generazionale diventa più semplice e viene rafforzata. È questo il senso della modifica più importante arrivata con il primo passaggio parlamentare del decreto legge di riforma della pubblica amministrazione. Anche i dirigenti della Pa — da oggi il decreto approda alla Camera per la discussione generale — potranno essere pensionati prima, con quattro anni di anticipo rispetto a quanto prevede la legge Fornero. E non si tratta dell’unica novità a una delle riforme chiave del governo Renzi. Tutte innovazioni che, secondo il ministro Marianna Madia, seguono due direttrici: cambiamento ed equità. La commissione Affari costituzionali della Camera ha deciso, come oggi accade per i dipendenti, il pensionamento d’ufficio per i dirigenti a partire dai 62 anni. La decisione di andare oltre dovrà essere motivata “con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi”. In linea generale non sarà possibile raggiungere i 66 anni per il pensionamento di vecchiaia. Le uniche eccezioni sono per medici e professori universitari (asticella a 65). Oltre ai magistrati, che vengono completamente esclusi. Sul fronte della pubblica istruzione viene reintrodotta per circa 4mila insegnanti la cosiddetta ‘quota 96’, la somma di età anagrafica e contributiva: potranno chiedere la pensione all’Inps subito dopo la conversione del provvedimento in legge. Il costo per lo Stato di questa misura sarà di circa 100 milioni di euro, da pagare attraverso tagli alla spesa.

Aggiustamenti anche alle norme sulla mobilità. Il trasferimento di un dipendente pubblico da un ufficio all’altro potrà avvenire senza che siano fornite spiegazioni. Sembra proprio questa la conseguenza di un emendamento al dl Pa, che cancella quanto previsto dal codice civile, secondo cui in casi di spostamento da un’unità produttiva a un’altra è necessario mettere sul tavolo “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Ora invece il passaggio non dovrà essere giustificato e potrà quindi scattare in qualsiasi situazione, purché non venga superato il limite di distanza fissato a 50 chilometri. Altri emendamenti, approvati in settimana, hanno invece ammorbidito le previsioni, ridando voce ai sindacati per la definizione dei criteri di mobilità e salvando i genitori con figli piccoli o sotto legge 104. La Cgil è critica, parla di “una mobilità assolutamente discrezionale, senza quelle necessarie motivazioni, organizzative e tecniche”.