COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

COMPRO-ORO, NON-LUOGHI ALL’INCROCIO TRA LA CRISI E LE MAFIE

 

di Checchino Antonini, da Liberazione

 

Era il 5 febbraio del 2000, governava Massimo D’Alema, quando entrò in vigore la liberalizzazione del mercato dell’oro. Da allora i “compro oro” hanno preso a spuntare come i funghi contribuendo a ridisegnare il paesaggio metropolitano al tempo della crisi. Vendere i gioielli di famiglia non è solo la metafora della dismissione del patrimonio pubblico ma la pratica quotidiana di famiglie colpite dalla sindrome della quarta settimana – spesso della terza – di malati cronici ai quali viene negato l’accesso gratuito ai farmaci di fascia C, di malati di gioco d’azzardo, di cittadini strozzati dall’usura o imprenditori cui è negato il credito in banca. Ma è anche il luogo dell’intreccio tra queste disperazioni e il lavoro incessante dell’economia criminale per ricettare o ripulire le quantità di denaro provenienti da altri business delle cosche. Ancora meno del denaro contante, l’oro non puzza e nemmeno è tracciabile quando viene fuso.

«Non ci vuole una professionalità specifica e nemmeno una trafila burocratica complicata. Le direttive dell’Agenzia per le Entrate sono confuse ma basta una licenza ex articolo 127 del Tulps come una rivendita di preziosi usati. Non serve nemmeno la Dia, la dichiarazione al Comune di inizio attività». Una delle guide di Liberazione per questo articolo è Stefano, giovane commercialista romano di 38 anni che, con due amici di sempre, ha appena aperto un “compro oro” in un quartiere della prima periferia est della Capitale, Tor Pignattara. Quartiere popolare e sempre più mescolato di italiani, stranieri e nuovi italiani. Un mese dopo, Stefano mostra la foto sul cellulare del primo lingotto, il primo chilo ricavato dalla fusione in un “banco metalli”, il secondo passaggio della filiera per aprire il quale è necessaria, invece, una concessione governativa. Da lì l’oro viene acquistato dalle banche o prende la strada dei processi industriali. Le Banche centrali del mondo nel 2012 hanno comperato più oro di quanto abbiano fatto negli ultimi 49 anni, spinte dalla necessità di ricoprirsi alla luce della montante crisi del debito sovrano che ha colpito gli USA e l’Europa. La forte domanda ha fatto salire anche il prezzo al grammo, che oggi sfiora i 40 euro.

«L’utile non è molto alto, il 10%, ci sono commissioni fisse da pagare al banco metallo (dai 35 ai 50 cent al grammo), e la concorrenza si fa sempre più alta e agguerrita. Così il guadagno si aggira sui 2 euro e mezzo al grammo. Ma c’è offerta e si movimentano subito discrete quantità di denaro. Metti l’insegna e la gente entra subito, dipende dalla location e dalla pubblicità. Può sembrare assurdo ma ci sono clienti abituali, persone normali. Insomma non entrano fenomeni da baraccone».

Telecamere, casseforti, vetri blindati a norma, la fedina penale pulita e l’insegna ben visibile e riconoscibile. Gli ingredienti per aprire questa attività sono pochi e semplici da miscelare. Serve la padronanza minima per “grattare” l’oro, pesarlo e comprarlo in base ai due fixing quotidiani della Borsa di Londra che stabiliscono un prezzo volato dai 9 euro al grammo del 2001 ai 39,06 del giorno in cui viene scritto questo articolo. «In tempi di crisi salta il valore convenzionale delle cose e delle valute ma tutti si fidano ancora dell’oro che è ai massimi storici sebbene fluttui anch’esso».

«Arrivano ogni giorno anche signore disperate. C’è chi prova a vendere la fede del marito morto, proviamo a dissuaderla: “pensaci bene, ripassa domani” – prosegue il racconto di Stefano – la maggior parte è gente di mezz’età, molti indiani, ragazzini appena maggiorenni che vendono le catenine della comunione per comprare il motorino. E poi ci sono i tipi strani. Se qualcuno fa operazioni ricorrenti proviamo prima a fargli un prezzo sempre peggiore, per scoraggiarlo, e poi dobbiamo segnalarlo alla Banca d’Italia». Le regole impongono che il venditore abbia un documento italiano, che vengano fotografati gli oggetti e venduti solo dopo una giacenza di 10 giorni per eventuali controlli. Alcune questure chiedono di conservare le carte per dieci anni, procedura che presenta più di un dubbio rispetto alla privacy. «La prima “sòla”, sembra un luogo comune, ce l’ha data un napoletano con un anello solo placcato. Chissà se è autentico il documento che ci ha dato. Non ci spreco nemmeno il tempo di andare a sporgere denuncia». In tutta Italia i “compro oro” sono più 28.000 (poco più del 10% iscritti all’Albo degli operatori professionali) con picchi a Roma, Napoli e in Sicilia, luoghi ad alta presenza di malavita. Uno ogni 13.000 abitanti con un boom che insegue la crisi, dal 2008. Secondo la polizia, il 14% compie operazioni illegali. Un giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro all’anno per circa 400 tonnellate tra oro e argento. Più pessimista l’avvocato Ranieri Razzante presidente di AIRA, l’Associazione Italiana Responsabili Anti-riciclaggio, e consulente della Commissione Parlamentare Antimafia, «il 60% dei negozi compie azioni illecite o criminali. Ed è una stima per difetto». Un controllo solo 3.000 negozi ha scovato 113 milioni di euro non dichiarati, IVA evasa per 36,5 milioni e 31 evasori totali.

La gran parte dei compro oro lavora onestamente ma la deregulation scava ampie nicchie per il riciclaggio, la movimentazione di merce rubata, e per l’usura. Il turn over delle licenze osservato dalle questure, un terzo delle richieste, potrebbe servire proprio a sottrarsi allo sguardo di chi deve controllare. Basta un prestanome qualsiasi per aprire una “lavanderia”. Il riciclaggio è piuttosto semplice: si fa una prima operazione di compravendita regolare. Vengono trascritti per bene i dati sull’oggetto e il venditore sul registro obbligatorio vidimato dalla questura, poi con lo stesso documento si registrano decine di operazioni fittizie spesso a prezzi fuori mercato. Risulterà che l’ignaro primo venditore (ma può essere anche un morto, un nome inesistente o che non ha mai venduto nulla) ha portato in un mese alcuni chili d’oro. Gioielli mai esistiti ma che saranno contabilizzati dal titolare così da giustificare il denaro liquido in cassa quale frutto della fusione e della rivendita di oggetti mai arrivati e mai venduti. Soldi sporchi che all’improvviso ritornano in mano alle mafie immacolati e regolari, senza puzzare di racket.

Ogni anno in un singolo negozio girano in media 350.000 euro all’anno. Un dato considerato credibile dal “nostro” Stefano. Secondo la polizia dove apre un “compro oro” di solito si verificano aumenti di furti e rapine. A vederla da Bari, l’Osservatorio sulla legalità ha calcolato che, nel 2011, furti, scippi e rapine sono aumentati del 70% nelle zone ad alta concentrazione di “compro oro”. L’associazione SOS Racket e Usura ha filmato la facilità del riciclaggio, in vari negozi e con molta facilità, uno dei suoi attivisti è riuscito a vendere senza esibire la carta d’identità.

Ma i “compro oro” hanno eroso uno spazio tradizionalmente appannaggio del “monte”, come lo chiamano a Roma, il Monte di Pietà. Un impresario del settore è stato scoperto a Roma con 20 chili d’oro e 10 d’argento in cassaforte per un valore di 800.000 euro. Tra gli oggetti sequestrati anche gioielli che riceveva in pegno da persone in difficoltà economica e che rivendeva loro con un incremento del 20% del prezzo. Ce lo dice Italo Santarelli, attivo col CEIRP da 19 anni nella lotta contro l’usura. Racconta di come la stretta creditizia consegni famiglie e piccoli imprenditori nelle fauci del credito illegale, i “cravattari”. Chi ha bisogno di denaro liquido in tempi brevissimi e senza troppe domande si rivolge ai compro oro abusivi. Una funzione, quella tipica dei monti di pietà, vietata per legge ai privati.

 

In Parlamento giacciono da tempo nel cassetto due progetti di legge che vorrebbero far emergere dalla deregulation (ad esempio con l’obbligo di inviare entro 24 ore alla Questura ogni informazione sugli oggetti e un borsino dell’oro usato) un settore dove non tutto quello che luccica, è oro.

Duro colpo alla ‘ndrangheta: catturato Pietro Labate, il boss ha tentato di fuggire

Duro colpo alla ‘ndrangheta: catturato Pietro Labate, il boss ha tentato di fuggire

La squadra mobile di Reggio Calabria ha arrestato il latitante Pietro Labate, di 62 anni, boss dell’omonima cosca egemone nel quartiere Gebbione della città. Il suo nome era stato recentemente inserito nell’elenco dei latitanti più pericolosi a livello nazionale
Latitante da 2 anni – Labate, accusato di associazione mafiosa ed estorsione, era latitante dall’aprile 2011, quando sfuggì alla cattura nell’operazione “Archi” nell’ ambito della quale erano stati arrestati dalla squadra mobile capi e gregari delle cosche Tegano e Labate . A luglio del 2012 è stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione.

Ha tentato la fuga – E’ stato individuato a Reggio Calabria nella tarda serata di venerdì nel quartiere Gebbione, quello su cui esercita la sua influenza la cosca, dagli investigatori della squadra mobile reggina che da oltre un anno erano sulle sue tracce. Il latitante, alla vista della polizia, ha tentato la fuga, ma gli agenti lo hanno immediatamente immobilizzato ed ammanettato. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa in Questura alle 11.00.

Saviano: “Sole le mafie puntano sui giovani”

Saviano: “Sole le mafie puntano sui giovani”

Di  | il 4 luglio 2013 | Lascia un commento

 

“Le uniche organizzazioni che in Italia puntano sui giovani sono le mafie”. Lo ha dettoRoberto Saviano nella serata di chiusura del ‘Festival Letterature’, ieri sera alla Basilica di Massenzio
parlando di “storie di informazione indipendente”.

Alla serata era presente il sindaco di Roma, Ignazio Marino, e l’assessore alla Cultura,Flavia Barca.

“La cultura è per noi al primo posto. Il comune investirà di più” ha detto Marino, ricordando che solo in questa edizione del festival sono state 20 mila le persone che hanno partecipato alla manifestazione. Nel suo lungo intervento accompagnato dalla colonna sonora dal vivo degli Almamegretta, Saviano parlando delle mafie e degli investimenti immobiliari ha fatto riferimento a “un’intercettazione telefonica della soubrette Michela Cerea che parlava con un imprenditore legato alla ‘ndrangheta nella quale si faceva riferimento al segretario di Daniela Santanche’ e da cui si è saputo che lei avrebbe avuto un ministero a settembre”.

Uno dei motivi per cui Roma è una delle città più care per gli immobili è perché le organizzazioni investono qui” ha sottolineato Saviano. La serata si è aperta con una “riflessione imposta dalla cronaca” ha detto l’autore di ‘Gomorra’, facendo riferimento a una dichiarazione del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, secondo la quale la maggiore incidenza dei tumori in alcune zone della Campania dipenderebbe anche “dagli stili di vita dei campani”.

“Forse voleva dire altro di una terra che soffre” ha sottolineato Saviano, snocciolando una serie di dati sui rifiuti tossici. “Questi dati non sono stili di vita ma veleni” ha concluso. Poi ha ammesso che “discutere di informazione indipendente è complicatissimo”.

Ha preferito raccontare “cosa significa affrontare il meccanismo dei poteri criminali” ribadendo, come ha fatto più volte, che “non è mai pericoloso chi racconta ma chi legge”. Poi ha precisato che il modo in cui vengono “determinate le politiche dei media importanti non è l’omertà ma la trascuratezza”.

E infine nell’affollatissima Basilica di Massenzio, dove molti sono rimasti in piedi, ha invitato al coraggio che significa “credere ancora in cosa si vuole realizzare. Una cosa davvero fondamentale in questo momento”.

Arrestato in Colombia Roberto Pannunzi. E’ il “Pablo Escobar” della ‘ndrangheta

Arrestato in Colombia Roberto Pannunzi. E’ il “Pablo Escobar” della ‘ndrangheta

Le autorità colombiane lo hanno subito definito il “Pablo Escobar italiano”: è stato arrestato a Bogotà il boss della ‘ndrangheta Roberto Pannunzi, protagonista anni fa di due fughe, entrambe da strutture sanitarie a Roma. Pannunzi, 67 anni, ”noto come l’Escobar dell’Italia, era l’uomo più ricercato dal paese”, ha sottolineato via Twitter il ministero della Difesa, nel dare l’annuncio della cattura. Altre fonti lo definiscono “il narco più ricercato dell’Europa”, segnalato alle autorità locali dalla giustizia italiana tramite l’Interpol. Nel momento in cui è stato catturato in un centro commerciale di Bogotà, il boss della ‘ndrangheta era in possesso di una carta d’identità venezuelana a nome Silvano Martino. I media di Bogotà sottolineano che gli esperti anti-droga colombiani hanno scoperto tempo fa una “nuova rotta del narcotraffico che arriva in Italia. I narcos fanno uscire la droga dal paese in motoscafi diretti in Centroamerica o in Ecuador. Il viaggio prosegue via container verso la Spagna, quindi in Italia”.
In manette il il “Pablo Escobar” della ‘ndrangheta – Conosciuto come il “principe del narcotraffico”, originario di Siderno, nel 2010 Pannunzi riuscì ad evadere da una clinica romana dove si trovava agli arresti domiciliari per problemi di salute. La fuga ha di fatto ricalcato una precedente evasione riuscita a Pannunzi nel 1999. Anche in quel caso il boss approfittò della concessione degli arresti domiciliari in una clinica romana per fuggire. Era stato arrestato nel 1994 proprio in Colombia, a Medellin. Agli agenti che lo stavano ammanettando offrì un milione di dollari in contanti in cambio della libertà. Interlocutore privilegiato dei produttori di cocaina colombiani, con contatti anche con la mafia siciliana e con personaggi di spicco di alcune famiglie riconducibili al boss Provenzano, Pannunzi – sottolineano i media locali – era in grado di esportare fino a due tonnellate al mese di cocaina dalla Colombia all’Europa.

La capitale delle mafie è Roma

La capitale delle mafie è Roma

Di  | il 14 giugno 2013 | 1 Commento

 

Negli ultimi 20 anni il fenomeno mafioso non si è solo trasformato ma è stato capace di evolversi. In un Paese talvolta arretrato come il nostro, le mafie rappresentano la punta più avanzata della modernità: investono nelle energie rinnovabili, nelle nuove droghe, nel gioco d’azzardo e le slot machine, nei compro oro che spuntano come i funghi nelle nostre città.

I clan non stanno a guardare, sono capaci di cogliere i passaggi di fase politica, di adattarsi ad un sistema economico in continua espansione e sono un caso nazionale come hanno dimostrato – la cosiddetta trattativa, l’inchiesta “Infinito”, il voto di scambio aMilano, gli ultimi comuni sciolti per mafia in Liguria, il caso del pentito Nino Lo Giudiceche avvelena gli uffici giudiziari a Reggio Calabria.

Quest’ultima, capitale della ‘ndrangheta. Avvolta per anni da inquietante silenzio: siamo dovuti passare dall’omicidio Fortugno nel 2005, dalla strage di Duisburg nel 2007, dalla rivolta nelle campagne di Rosarno nel 2010 fino al necessario scioglimento del consiglio comunale di Reggio affinché si accendessero i riflettori sulla Calabria. E intanto la ‘ndrangheta s’è presa pezzi interi di economia, di società e di territorio del nord Italia (nonostante il grottesco tentativo di minimizzare da parte della Lega) ed è diventata la più grande organizzazione mafiosa mondiale; gestendo enormi capitali e divenendo leader globale del narcotraffico.

E non è un caso se sempre da Reggio Calabria a Roma sia arrivato Giuseppe Pignatone, procuratore della capitale da più di un anno. Roma oggi è una città di mafie alla stregua di Palermo, Napoli, Reggio Calabria e Milano. Ma a Roma in pochi, tra le istituzioni, la politica, gli intellettuali e la cosiddetta società civile, sembrano disposti ad ammetterlo.

Nel 1991 Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Parlamentare antimafia, aveva già denunciato il fenomeno nella Capitale. A 22 anni da quella denuncia i numeri sulle mafie a Roma parlano chiaro, nonostante ci sia ancora un forte deficit investigativo e di conoscenze.

La Guardia di Finanza nel 2011 ha sequestrato beni di provenienza mafiosa per miliardi di euro. 209 gli immobili confiscati nello stesso anno e che fanno piazzare Roma al quarto posto in Italia. Sempre nella Capitale succede che le cliniche private e le comunità terapeutiche con specialisti e medici complici vengano spesso utilizzate come vie di fuga dalla carcerazione o che “rispettabili” professionisti della finanza investano capitali sporchi con speculazioni di difficile decifrazione.

Sul fronte giudiziario invece il 16 novembre 2012 rappresenta una data storica: per la prima volta un gruppo criminale operante nel Lazio (nativo a Casal di Principe) viene condannato al 416 bis. A testimonianza non della non presenza dei clan, ma del ritardo del sistema giudiziario nel suo complesso. Tanto che spesso chi è mafioso per un tribunale napoletano non lo è per quello romano.

La Capitale è attraversata da fiumi di droga. Soprattutto cocaina. È la ‘ndrangheta insieme alla camorra a fare da “cartello” con le organizzazioni criminali internazionali, sudamericane e messicane soprattutto. Le organizzazioni autoctone invece fanno il resto. Ed anche a Roma esiste il controllo del territorio: locali notturni, ristoranti, mercati rionali. Con l’usura, soprattutto. E anche se non viene denunciato il pizzo, pure il racket delle estorsioni è da tempo una triste realtà. Succede ad Ostia agli stabilimenti balneari, avviene alla Borghesiana, ai pub di San Lorenzo vicino Termini. Ed anche nel salotto buono della città, come a piazza Bologna dove da vent’anni c’è chi paga regolarmente “per stare tranquillo”.

Non sono “bande criminali locali” a dare vita a tutto questo come hanno sostenuto finora gli amministratori della Capitale. Qui si consuma la sintesi perfetta tra narcotraffico, usura, politica, finanza, malasanità, professionisti, imprenditori, palazzinari e pezzi di istituzioni corrotte. Un vero e proprio sistema di potere che ha nella clientela, nella corruzione e nel riciclaggio lo snodo centrale.

A Roma c’è bisogno di un grosso sforzo per rendere rapida ed efficace la macchina burocratica che porta all’assegnazione dei beni confiscati alle mafie per uso sociale. Secondo un dossier curato da varie associazioni (tra cui Legambiente, Libera, daSud e Action), meno di un terzo dei beni confiscati sono effettivamente riutilizzati per scopi sociali o istituzionali. Il paradosso è rappresentato dall’Agenzia nazionale per i beni confiscati, che fino al 2012 ha pagato un affitto di 295mila euro l’anno per un immobile in via dei Prefetti. Soldi che potrebbero essere risparmiati se solo i locali di via Ezio al civico 12/14, confiscati alla camorra nel ’96 e ora occupati abusivamente, venissero liberati da un centro benessere, un’agenzia di assicurazioni e un’abitazione privata. Attività che nulla hanno a che vedere con i “fini sociali” che impone la Legge Rognoni-La Torre.

Anche in questo senso la commissione può svolgere un lavoro importante.

Lo dobbiamo a tutte le cittadine e i cittadini, e a tutte le vittime innocenti delle mafie, ai tanti familiari che non hanno avuto verità e giustizia nelle aule dei tribunali e che sono stati sottoposti alla congiura del silenzio e della vergogna. A tutte quelle donne della mia terra che pentendosi hanno messo in difficoltà le ‘ndrine (penso al coraggio di Lea Garofalo e di sua figlia Denise, Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce) o quelle che si sono messe in gioco diventando sindache di territori complessi, come Isola Capo Rizzuto, Rosarno, Monasterace.

Governo e parlamento, insieme alla commissione che andiamo a costituire, dovranno tenere conto di tutto questo. E attenzione alle commissioni di saggi e consulenti, di cui abbiamo sentito parlare in queste settimane: va bene il contributo di tutti, anche di magistrati importanti come Cantone e Gratteri, però sia la politica ad assumersi fino in fondo la responsabilità del cambiamento. Non deleghiamo ancora una volta il nostro compito alla magistratura, al giornalismo, all’associazionismo facendo un danno diretto a questi soggetti, sovraesponendoli ad un’attenzione mediatica eccessiva che sposta lo sguardo dai contenuti del loro lavoro a loro stessi che lo agiscono.

Collaboriamo insieme, senza rilasciare patenti e certificazioni, rinnovando anche qui un mondo rimasto ingessato in alcuni schemi, avendo anche l’onestà intellettuale di dividerci, è auspicabile l’unità ma questo deve avvenire senza rinunce e omissioni. Non esistono verità condivise, esiste solo la verità.

ECOMAFIE CHE NON CONOSCONO CRISI

ECOMAFIE CHE NON CONOSCONO CRISI

 

di Checchino Antonini

 

34.120 reati, 28.132 persone denunciate, 161 ordinanze di custodia cautelare, 8.286 sequestri, per un giro di affari di 16,7 miliardi di euro gestito da 302 clan, 6 in più rispetto a quelli censiti lo scorso anno. I numeri degli illeciti ambientali accertati lo scorso anno danno conto della pesantezza del bilancio tratto da Legambiente che ha appena presentato il rapporto Ecomafie (con prefazione di Carlo Lucarelli ed edito da Edizioni Ambiente). Come ogni anno il Cigno verde di Legambiente fornisce cifre e chiede al sistema che li produce di trovare un antidoto.

Scrive infatti Lucarelli: «Con una lungimiranza e una profondità che politici, imprenditori, istituzioni e cittadini spesso non hanno o fanno finta di non avere, (le mafie) sono riuscite a fare sistema penetrando in tutti i settori della nostra esistenza in maniera globale e totalitaria».

Il 45,7% dei reati è concentrato nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Sicilia, Calabria e Puglia) seguite dal Lazio, con un numero di reati in crescita rispetto al 2011 (+13,2%) e dalla Toscana, che sale al sesto posto, con 2.524 illeciti (+15,4%). Prima regione del Nord Italia, la Liguria (1.597 reati, +9,1% sul 2011) seguita dalla Lombardia. Da segnalare per l’incremento degli illeciti accertati anche il Veneto, con un +18,9%, e l’Umbria, passata dal sedicesimo posto del 2011 all’undicesimo del 2012.

Crescono nel 2012 anche gli illeciti contro gli animali e la fauna selvatica (+6,4% rispetto al 2011), sfiorando quota 8.000, a una media di quasi 22 reati al giorno e ha il segno più anche il numero di incendi boschivi che hanno colpito il nostro paese: esattamente +4,6% rispetto al 2011 che già era bruciato del 62,5% in più rispetto al 2010.

La Campania guida anche quest’anno la classifica dell’illegalità ambientale nel nostro Paese, con 4.777 infrazioni accertate (nonostante la riduzione rispetto al 2011 del 10,3%), 3.394 persone denunciate e 34 arresti. E il discorso vale sia per il ciclo illegale del cemento sia per quello dei rifiuti, un’economia che non conosce la parola recessione.

Il ciclo del cemento

Nel ciclo del cemento si segnala il secondo posto della Puglia, che per numero di persone denunciate risulta essere la prima regione d’Italia; la leadership tra le regioni del Nord della Lombardia; la crescita esponenziale degli illeciti accertati in Trentino Alto Adige, quasi triplicati in un anno; il balzo in avanti della Basilicata, che con 227 illeciti arriva al decimo posto (nel 2011 era quindicesima). Nel ciclo dei rifiuti spiccano l’incremento dei reati registrato in Puglia (+24%), al terzo posto dopo Campania e Calabria, e il quinto posto raggiunto dalla Sardegna. Anche in questa filiera illegale la provincia di Napoli è al primo posto in Italia, seguita da Vibo Valentia, dove si registra un + 120% di reati accertati rispetto al 2011.

L’incidenza dell’edilizia illegale nel mercato delle costruzioni è passata dal 9% del 2006 al 16,9% stimato per il 2013. Mentre le nuove costruzioni legali sono crollate da 305.000 a 122.000, quelle abusive hanno subito una leggerissima flessione: dalle 30.000 del 2006 alle 26.000 nel 2013. A fare la differenza sono ovviamente i costi di mercato: a fronte di un valore medio del costo di costruzione di un alloggio con le carte in regola pari a 155.000 euro, quello illegale si realizza con un terzo dell’investimento, esattamente 66.000 euro. E la demolizione è un’eventualità remota: tra il 2000 e il 2011 è stato eseguito appena il 10,6% delle 46.760 ordinanze di demolizione emesse dai tribunali.

Dal 2003 al 2012 sono state 283.000 le nuove case illegali, con un fatturato complessivo di circa 19,4 miliardi di euro.

I rifiuti trafficati

L’Ufficio centrale antifrode dell’Agenzia delle Dogane segnala che i quantitativi di materiali sequestrati nei nostri porti nel corso del 2012 sono raddoppiati rispetto al 2011, passando da 7.000 a circa 14.000 tonnellate grazie soprattutto ai cosiddetti cascami, cioè materiali che dovrebbero essere destinati ad alimentare l’economia legale del riciclo, che invece finiscono in Corea del Sud (è il caso dei cascami di gomma), Cina e Hong Kong (cascami e avanzi di materie plastiche, destinati al riciclo o alla combustione), Indonesia e di nuovo Cina per carta e cartone, Turchia e India, per quelli di metalli, in particolare ferro e acciaio.

Questi flussi garantiscono enormi guadagni ai trafficanti (coi proventi della vendita all’estero e il mancato costo dei trattamenti necessari per renderli effettivamente riciclabili) e un doppio danno per l’economia legale, perché si pagano contributi ecologici per attività di trattamento e di riciclo che non vengono effettuate e vengono penalizzate le imprese che operano nella legalità, costrette a chiudere per la mancanza di materiali. Come confermato dalle inchieste svolte in Sicilia sul “finto riciclo”, che hanno smascherato le nuove strategie criminali su questo fronte.

La corruzione

La corruzione, in costante e inarrestabile crescita, è un altro indicatore del peso delle ecomafie. Secondo la Relazione al Parlamento della DIA relativa al primo semestre 2012, le persone denunciate e arrestate in Italia per i reati di corruzione sono più che raddoppiate rispetto al semestre precedente, passando da 323 a 704. E se la Campania spicca con 195 persone denunciate e arrestate, non sfigurano nemmeno la Lombardia con 102 casi e la Toscana a quota 71, seguite da Sicilia (63), Basilicata (58), Piemonte (56), Lazio (44) e Liguria (22). Di mazzette e favori si alimenta, infatti, quell’area grigia che offre i propri servizi alle organizzazioni criminali o approfitta di quelli che gli vengono proposti. Dal 1° gennaio 2010 al 10 maggio 2013, sono state ben 135 le inchieste relative alla corruzione ambientale, in cui le tangenti, incassate da amministratori, esponenti politici e funzionari pubblici, sono servite a “fluidificare” appalti e concessioni edilizie, varianti urbanistiche e discariche di rifiuti. La Calabria è, per numero di arresti eseguiti (ben 280), la prima regione d’Italia, ma a guidare la classifica come numero d’inchieste è la Lombardia (20) e al quinto posto della classifica, dopo Campania, Calabria e Sicilia, figura la Toscana. Insomma, a “tavolino” si spartiscono appalti, grandi e piccoli, in quasi tutte le province italiane con un enorme danno per la collettività chiamata a sostenere oneri superiori a quelli che si sarebbero determinati nel rispetto della legge. Così, nel corso del 2012 il numero dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa è salito a 25 (erano 6 nel 2011).

Eclatante il caso Calabria: alla pervasiva presenza della ‘ndrangheta la Calabria i suoi cittadini onesti stanno pagando, da troppo tempo, un prezzo insostenibile, come dimostrano sia le inchieste condotte dalla magistratura tra il 2012 e i primi mesi del 2013 sia i decreti di scioglimento dei consigli comunali. Un quadro clamoroso di questa insostenibilità emerge dalle 232 pagine della relazione della commissione guidata dal prefetto Valerio Valenti, che ha portato allo scioglimento del Comune di Reggio Calabria (9 ottobre 2012): la debolezza strutturale della macchina amministrativa ha rappresentato “un terreno fertile per la criminalità organizzata, nel tentativo di piegare al proprio tornaconto – anche per mera riaffermazione del principio del predominio territoriale – segmenti della amministrazione pubblica locale”.

Ma il Comune di Reggio è solamente l’apice di quello che si configura come un vero e proprio “caso Calabria”: nel corso del 2012 sono ben 11, su 25 totali, i Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose.

E nei primi mesi del 2013 sono stati già sciolti tre Comuni, tra cui, ancora, quello di Melito Porto Salvo, mentre in altri otto sono ancora al lavoro le commissioni d’accesso. E dalla Calabria la ‘ndrangheta ha inquinato ampio settori dell’economia di tutto il Paese, a partire dal ciclo del cemento e dei rifiuti, come dimostrano anche i recenti arresti avvenuti in Piemonte e Lombardia.

Come ha recentemente spiegato un coraggioso prete di frontiera napoletano, Luigi Merola, su 551 Comuni campani, 87 sono stati sciolti negli ultimi dieci anni e dieci di loro ben quattro volte. E spesso i cittadini sono costretti a rivotare quegli stessi personaggi come dimostra il recente caso di Quarto.

La mafia che si lascia mangiare

A completare il quadro, Ecomafia 2013 descrive anche l’attacco al made in Italy: nel 2012 (grazie al lavoro svolto dal Comando Carabinieri per la tutela della salute, dal Comando Carabinieri politiche agricole, dal Corpo Forestale dello Stato, dalla Guardia di Finanza e dalle Capitanerie di Porto) sono state accertati lungo le filiere agroalimentari ben 4.173 reati penali, più di 11 al giorno, con 2.901 denunce, 42 arresti e un valore di beni finiti sotto sequestro pari a oltre 78 milioni e 467.000 euro (e sanzioni penali e amministrative pari a più di 42,5 milioni di euro). Se si aggiungono anche il valore delle strutture sequestrate, dei conti correnti e dei contributi illeciti percepiti il valore supera i 672 milioni di euro. Il controllo delle mafie nasce dalle campagne, passa attraverso il trasporto e il controllo dei mercati ortofrutticoli all’ingrosso, e arriva alla grande distribuzione organizzata. La scalata mafiosa spesso approda poi nella ristorazione, dove gli ingenti guadagni accumulati consentono ai clan di acquisire ristoranti, alberghi, pizzerie, bar, che anche in questo caso diventano posti ideali dove “lavare” denaro e continuare a fare affari.

L’arte rubata

Anche per quanto riguarda la tutela del nostro patrimonio culturale alla minaccia dei clan si sommano altri interessi criminali, inettitudine e scarsa attenzione dei poteri pubblici, che lasciano troppe volte campo libero ai predoni d’arte. Secondo l’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IBAM-CNR), la perdita del patrimonio culturale ci costa circa un punto percentuale del PIL, calcolando il solo valore economico e non anche quello culturale che non può essere calcolato.

 

Nel corso del 2012 le forze dell’ordine hanno accertato 1.026 furti di opere d’arte (891 a opera dei carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale), quasi tre al giorno, con 1.245 persone indagate e 48 arrestate; e ancora 17.338 oggetti trafugati e ben 93.253 reperti paleontologici e archeologici recuperati, per un totale di oltre 267 milioni di euro di valore dei beni culturali sequestrati.

“Svuota carceri” con 4mila liberi, semplice rinvio o ripensamento?

“Svuota carceri” con 4mila liberi, semplice rinvio o ripensamento?

 

 

 

E’una materia molto delicata perche’ riguarda direttamente la vita di migliaia di persone ed indirettamente milioni di cittadini, preoccupati della sicurezza. Cosi’ il governo che con il ministro Cancellieri aveva annunciato l’approvazione di un decreto “svuota carceri” con la liberazione di 4mila detenuti piu’ la concessione a molti altri degli arresti domiciliari, con un altro provvedimento, ha ieri accantanoto l’argomento. Ci sono contrasti, e molti all’interno della maggioranza. Poche parole al termine del Consiglio dei ministri. Solo un “ce ne occuperemo nella prossima riunione”. Le obiezioni al decreto sono le stesse che sono sulla bocca di molti. Ma come si fanno a controllare giovani ai domiciliari a Scampia o a San Basilio? E poi sono in molti a riprendere l’attivita’ crimiunale. Ed in prigione non e’ che ci si sta per cabiare aria. Qualcosa di grave si e’ commesso. E sicure sarebbero le conseguenze con l’aumento rapine e furti. E’ proprio questa la categoria che sarebbe piu avvantaggiata dall’approvazione del provvedimento. Ma viceversa e’ anche ingiusto, oltre che pericoloso, dare l’illusione di una scarcerazione prossima e poi annullare tutto. Nelle carceri comincia ad esserci un grande fermento. Ed il caldo ed il sovraffollamento non sono di aiuto.

Mesina verso il trasferimento a Buoncammino. Se condannato rischia l’ergastolo

Mesina verso il trasferimento a Buoncammino. Se condannato rischia l’ergastolo

 
 
Rischia di nuovo l’ergastolo Graziano Mesina, finito in manette per un vasto traffico di droga. L’ex primula rossa potrebbe perdere i benefici della grazia concessa dal presidente Ciampi, nel 2004, che poneva la condizione di non subire nuove condanne nei successivi dieci anni. Così se il bandito orgolese dovesse essere processato e condannato entro il 2014, si troverebbe a dover scontare la vecchia pena: ilcarcere a vita. Intanto nelle prossime ore potrebbe essere trasferito, da Nuoro, nel carcere cagliaritano di Buoncammino. 

Intanto nuovi, inquietanti particolari sull’azione di Mesina emergono dall’ordinanza d’arresto firmata dal Gip Giorgio Altieri. Mesina viene dipinto come incapace di “dominare la propria indole criminale”. Dalle intercettazioni ambientali, emerge inoltre che il bandito di Orgosolo “si vantava continuamente delle proprie imprese criminose“, con l’obiettivo di “mantenere intatto e consolidare il proprio ascendente carismatico sui suoi uomini”. Una condotta criminosa, sempre secondo il Gip, fatta di minacce e violenze. Come quelle perpetuate ai danni di Vittorio Denanni.

L’uomo, un allevatore di Chiaramonti, aveva contratto con Mesina un debito di 37 mila euro. Per ottenerne la restituzione, l’ex primula rossa ha adottato la strategia del sequestro lampo: una volta a casa dell’uomo, ha rapito il figlio per sollecitare il pagamento. Così sono arrivati i primi 20 mila euro. Ma, stando sempre alle intercettazioni, Mesina  “aveva intenzione di uccidere Vittorio Denanni”, che infine è riuscito a saldare il debito costretto dal suo aguzzino a vendere il bestiame.

Secondo gli inquirenti, Mesina stava progettando anche il sequestro dell’imprenditore di Oristano Gigino Russo. Per diversi mesi dal 2009 al 2010 Mesina e complici programmarono “e compirono una serie di atti preparatori tra cui almeno due sopralluoghi nell’abitazione del sequestrando”.

Intanto Mesina ha trascorso la prima notte nel carcere nuorese di Badu e Carros. E’ rinchiuso nel braccio AS3, di recente restaurato, dove sono collocati anche personaggi di rilievo della criminalità organizzata. L’interrogatorio di garanzia da parte del Gip di Cagliari si dovrebbe svolgere a Nuoro fra oggi e domani, alla presenza dello storico difensore del bandito: Giannino Guiso.

IN ITALIA L’ECOMAFIA ALLO SBARAGLIO NELLA DEVASTAZIONE AMBIENTALE

IN ITALIA L’ECOMAFIA ALLO SBARAGLIO NELLA DEVASTAZIONE AMBIENTALE

 

di Erika Facciolla

 

Ecomafie senza freni in Italia, in Europa e nel resto del Mondo: è quanto emerge da uno studio condotto da Legambiente in collaborazione con il Consorzio Polieco che ha evidenziato un numero di reati riconducibili ai traffici di rifiuti e merci illegali a dir poco impressionante.

I dati che riguardano l’Italia parlano di un’inchiesta ogni 4 giorni, 297 tra arresti e denunce e ben 35 aziende sequestrate, per un affare complessivo da 560 milioni di euro. Il tutto è emerso solo tra il 2011 e il 2012.

All’estero, invece, gli Stati con il maggior numero di inchieste aperte sono Cina, Grecia, Albania, Nord Africa, Medio Oriente e Turchia.

Che il malaffare avesse preso di mira anche alcuni settori particolarmente redditizi dell’economia “verde” non è una novità, ma fa riflettere che il 68% delle inchieste censite riguardi il mercato illegale di merci contraffatte e specie animali protette, il 23% il traffico di rifiuti, e solo il 9% le frodi alimentari.

E la maggior parte di questo enorme giro d’affari si muoverebbe soprattutto lungo le grandi vie del mare di mezzo mondo.

Nel Bel Paese, infatti, le strade maggiormente battute dalle ecomafie sono quelle dei porti (122) e degli aeroporti (19). A guidare la “speciale” classifica sono gli scali di Ancona, Bari, Civitavecchia, Venezia, Napoli, Taranto, Gioia Tauro, La Spezia e Salerno.

Dalle indagini emergono 15 frodi alimentari conclamate, 38 traffici illeciti di rifiuti e ben 110 merci contraffatte. Insomma, una vera e propria “economia parallela” che cresce a scapito delle normative ambientali vigenti lungo tutta la filiera.

Quando un prodotto contraffatto, un animale o i rifiuti “speciali” escono dai Paesi dell’area OCSE dirigendosi verso quelli non OCSE seguono delle rotte ben definite che vengono ripercorse per importare prodotti e merci analoghe: rottami ferrosi da e per l’Africa, così come i rifiuti pericolosi (Ghana, Senegal, Burkina Fasu), materie plastiche in Cina, pneumatici in India, Corea e Tailandia.

L’import, invece, riguarda principalmente alimenti contraffatti (Est Europa, Cina, Asia), animali (Africa), merci contraffate (Cina, Asia, Est Europa).

Questo meccanismo mette in circolazione merci meno costose ma molto pericolose per la salute dei consumatori. E diventa un circolo vizioso che i governi e la stessa UE devono combattere attraverso lo strumento legislativo – favorendo, ad esempio, la raccolta differenziata, gli incentivi sulle rinnovabili, la tracciabilità dei prodotti e la tutela dell’ambiente – e una politica di rigore che non lasci canali di finanziamento aperti agli speculatori di turno.

 

Saremo all’altezza della sfida?

Mafia,Tentacoli su metanizzazione Sicilia,sequestrati 48mln beni

Mafia,Tentacoli su metanizzazione Sicilia,sequestrati 48mln beni

TMNews
Palermo, 22 mag. (TMNews) – Un ingente patrimonio costituito da società, attività commerciali, immobili di pregio e disponibilità finanziarie per complessivi 48 milioni di euro è stato sequestrato dalla Guardia di Finanza di Palermo. Le indagini hanno svelato le infiltrazioni di ‘Cosa Nostra’ e dei suoi leader storici, fra cui Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro, negli affari delle società di un gruppo imprenditoriale che ha curato, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, la metanizzazione di intere aree del territorio siciliano.
Le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia – fra cui Giovanni Brusca, Vincenzo Ferro, Antonino Giuffrè – ed il contenuto di alcuni pizzini sequestrati nel tempo a “boss” mafiosi e l’esame di decine di contratti di appalto e sub appalto hanno permesso di ricostruire la “storia economico finanziaria” del gruppo imprenditoriale. Ingenti risorse investite in un business che si è presto sviluppato grazie alla protezione di “Cosa Nostra” e ad appoggi politici – in particolare dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino – arrivando ad ottenere ben 72 concessioni per la metanizzazione di Comuni della Sicilia e dell’Abruzzo, i cui lavori sono stati in più occasioni affidati in subappalto ad imprese direttamente riconducibili alla criminalità organizzata.
Tra i beni in sequestro, in Sicilia e Sardegna, società immobiliari e di produzione di metalli preziosi, imprese agricole, attività commerciali di prodotti petroliferi, combustibili ed oggetti d’arte, appartamenti, uffici, locali affittati ad importanti aziende e catene commerciali – molti dei quali situati nel centro di Palermo – immobili di pregio, amplissimi locali commerciali, opifici industriali, autorimesse, magazzini e disponibilità bancarie.