E’ morto il maestro Abbado.

E’ morto il maestro Abbado. L’inchino di Muti: “Un direttore d’orchestra nella storia”

Commenti

Il maestro si è spento a Bologna all’età di 81 anni. Era da tempo malato. Napolitano: “Ha onorato la musica italiana nel mondo”

Lascia il tuo ricordo

Claudio Abbado, il fotoracconto
Claudio Abbado sul podio del Lucerne Festival in Svizzera (Ap) (1 / 27)

Claudio Abbado in un’immagine recente (Ansa) (2 / 27)

Con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il giorno della nomina a senatore a vita il 30 agosto 2013 (Ansa) (3 / 27)

Abbado riceve il premio Don Juan de Borbon in Spagna (Ansa) (4 / 27)

Abbado assieme alla presidentessa dell’accademia filarmonica Maria Teresa Liguori nel 2009 (Ansa) (5 / 27)

Con Roverto Saviano e Fabio Fazio a “Vieni via con me” (2010, Ansa) (6 / 27)

(Ansa) (7 / 27)

(Ansa) (8 / 27)

A Lucerna nel 2007 (Ansa) (9 / 27)

Abbado ringrazia il pubblico alla fine del concerto alll’Auditorium Parco della Musica a Roma nel 2005 (Ansa) (10 / 27)

(Ansa) (11 / 27)

Durante il Flauto Magico a Reggio Emilia (Ansa) (12 / 27)

Con Roberto Benigni a Bologna nel 2008 (Ansa) (13 / 27)

In una foto del 1963 (Olycom) (14 / 27)

Nel 2011 a Parma (Ansa) (15 / 27)

A Palermo nel 1997 con il direttore artistico del Teatro Massimo, Marco Betta e Leoluca Orlando (Ansa) (16 / 27)

(Ansa) (17 / 27)

Con Carlo Azeglio Ciampi (2004, Ansa) (18 / 27)

Nel 1999 (Ansa) (19 / 27)

Nel 2008 con il pianista Maurizio Pollini alla Waldbuehne di Berlino (Afp) (20 / 27)

Una vita sul podio (Olycom) (21 / 27)

Una vita sul podio (Olycom) (22 / 27)

Con il violinista Isaac Stern (Olycom) (23 / 27)

Abbado dirige il tradizionale concerto di Capodanno a Vienna nel 1988 (Lapresse) (24 / 27)

Al teatro Comunale di Firenze nel 1996 (Pressphoto) (25 / 27)

Roberto Benigni e Claudio Abbado a Ferrara nel novembre 1990 durante le prove di ‘Pierino e il lupo’ (Ansa) (26 / 27)

Con l’Orchestra Mozart (Pressphoto) (27 / 27)

Roma, 20 gennaio 2014 – E’ morto il direttore d’orchestra Claudio Abbado. Il maestro, che era da tempo malato, si è spento all’età di 80 anni a Bologna. A darne notizia sono stati i suoi familiari. Abbado è deceduto “serenamente, circondato dalla sua famiglia”, hanno comunicato i suoi cari. La camera ardente verrà allestita nella chiesa di Santo Stefano a Bologna domani dalle 14 a mezzanotte e mercoledì, dalle 8.30 a mezzanotte. I funerali, per volontà dei familiari, avverranno in forma strettamente privata.

Abbado è stato direttore musicale della Scala, della Staatsoper di Vienna e direttore artistico dell’Orchestra Filarmonica di Berlino. Il 30 agosto scorso il presidente Giorgio Napolitano lo aveva nominato senatore a vita (VIDEO). Nell’accettare dell’incarico parlamentare, Abbado aveva dato una risposta dalla quale traspariva la preoccupazione per il proprio stato di salute, dicendo di sperare che le sue condizioni fisiche gli consentissero di onorare con impegno pieno il mandato ricevuto. A dicembre aveva deciso di rinunciare allo stipendio da senatore per devolverlo alla scuola di Musica di Fiesole a sostegno di borse di studio.

Da tempo, però, non frequentava Palazzo Madama e la sua vita pubblica era di fatto cessata. Le sue
condizioni di salute erano da tempo piuttosto precarie
: aveva cancellato gli impegni con l’Accademia di Santa Cecilia già nel novembre scorso e dall’11 gennaio l’attività dell’Orchestra Mozart.

LA VITA – Nato a Milano il 26 giugno nel 1933, figlio del violinista Michelangelo. Dopo gli studi al Conservatorio di Milano, aveva iniziato nel 1958 la sua attività direttoriale in Italia e all’estero: è stato direttore stabile della Scala (1968-86), sino al 1991 della Staatsoper di Vienna (1986-1991), quindi sino al 2002 ha diretto la Berliner filarmoniker orchestra, per poi dedicarsi alla Chamber orchestra of Europe (da lui istituita nel 1978). Aveva fondato nel 1986, per valorizzare i giovani musicisti, la Mahler Jugendorchestra, nel 2003 l’Orchestra del Festival di Lucerna e nel 2004 l’Orchestra Mozart di Bologna.

Abbado era stato insignito di onorificenze e riconoscimenti in tutto il mondo (in Italia dal 1984 era cavaliere di Gran Croce). Nel suo ampio repertorio recente, oltre ai compositori dell’ultimo romanticismo, emergono le avanguardie del Novecento e i musicisti contemporanei. Il 30 agosto scorso era giunta la nomina a senatore a vita.

IL CORDOGLIO – Unanime il cordoglio per la sua scomparsa sia da parte delle istituzioni che dal mondo della cultura. “La scomparsa di Claudio Abbado è motivo di forte commozione e dolore per me personalmente e di profondo cordoglio per l’Italia e per la cultura – ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano –. Ha affrontato fino all’ultimo con straordinaria forza di volontà gli assalti del male che già lo aveva duramente colpito numerosi anni fa e che si era da qualche mese ripresentato nelle forme più aggressive e fatali”.

Rendo omaggio – non solo da amico e ammiratore di antica data, ma da rappresentante della collettivitànazionale e delle istituzioni repubblicane – all’uomo che ha onorato in Europa e nel mondo la grande tradizione musicale del nostro paese, contribuendo in pari tempo con il suo eccezionale talento e la sua profonda sensibilità civile all’apertura di nuove strade per un più ricco sviluppo dei rapporti tra cultura e società. Di qui le motivazioni per il riconoscimento tributatogli con la nomina di Senatore a vita”, ha aggiunto il capo dello Stato.

“Con il suo talento, la sua dedizione, i risultati eccezionali raggiunti a livello nazionale e internazionale nel corso della sua lunga carriera, è stato e rimarrà un punto di riferimento per tutto il Paese e non solo – ha dichiarato il premier Enrico Letta a nome anche del governo -. Il mondo della musica e della cultura perde un protagonista assoluto. Ci restano però la sua testimonianza e il suo esempio, a beneficio soprattutto di quei giovani per i quali Claudio Abbado tanto si è speso”.

L’OMAGGIO DI MUTI – “Sono profondamente addolorato per la perdita di un grande musicista che per molti decenni ha segnato la storia della direzione d’orchestra e dell’interpretazione musicale nelle istituzioni internazionali”, è il ricordo del collega Riccardo Muti. “Grande testimone della vera, profonda cultura italiana ed europea nel mondo. Di lui – sottolinea ancora Muti rendendo omaggio ad Abbado – voglio ricordare anche il coraggio di come ha affrontato la lunga e terribile malattia e la serietà e severità che hanno caratterizzato la sua vita di musicista e di Maestro. La sua scomparsa impoverisce fortemente il mondo della musica e dell’arte”.

IL RICORDO DI BENIGNI – “Piccolo, fragile, delicato. Appena salito sul podio, al primo movimento della bacchetta nell’aria accadeva il miracolo: tutto diventava immenso, incorruttibile, immortale”. Lo ricorda così Roberto Benigni.

IL DOLORE DI METHA – “Una notizia tristissima: perdo un grande amico da una vita. E il mondo un grandissimo direttore d’orchestra e musicista”, dice invece Zubin Mehta, direttore della Philarmonic Orchestra di Tel Aviv spiegando di aver deciso di dedicare proprio ad Abbado il concerto che terrà giovedì prossimo a Berlino. “Nel mio cuore – ha aggiunto parlando dalla capitale tedesca – dirigerò per lui. Abbraccio la sua famiglia”.

“RICORDATELO CON DONAZIONI” – La famiglia chiede, nel rispetto del pensiero di Abbado, di non inviare fiori e necrologi, ma di esprimere il proprio ricordo con donazioni a: Centro di ematologia oncologia pedriatica Bologna (IBAN IT 87 E 0200802474000103019755 CODICE BIC UNCRITMM) e Casa Circondariale della Dozza di Bologna (Giovanni Nicolini, IBAN IT78 W063 8536 7900 7400 0048 43S, coordinata bancaria internazionale BIC CRBOIT2B).

LA CRICCA DELLE “DIFFAMAZIONI”

LA CRICCA DELLE “DIFFAMAZIONI”

 

di Rita Pennarola [16/07/2013]

 

Se gli automobilisti partenopei pagano le tariffe più alte d’Europa per assicurare vetture e motorini devono dire grazie alla truffa diffusa dei tanti che vivono “sulle spalle” delle assicurazioni, addirittura indicando questo genere di entrate nei magri bilanci familiari. Si tratta di una storia vecchia ed arcinota, periodicamente portata alla luce da indagini della magistratura. Poi non se ne parla più e tutto continua come prima.

Napoli, come sempre, “ha fatto scuola”. Già, perché da qualche tempo (una ventina d’anni almeno o giù di lì), ad inventare danni, con tanto di certificati fasulli, e correre dinanzi a un giudice civile per lamentare le proprie insopportabili sofferenze, sono le presunte “vittime di diffamazione”. Una pletora di impostori sempre più affollata, che molto spesso riesce a spuntarla, per poi presentarsi con sentenze alla mano nelle redazioni impugnando decreti di pignoramento concessi in un battibaleno, magari dal got (giudice onorario, spesso avvocati) di turno.

Se poi non fosse bastata la lezione dei maestri falsari all’ombra del Vesuvio, a spingere i falsi diffamati ad emulare le gesta di Totò e Aldo Fabrizi in tipografia ci ha pensato la casistica giudiziaria inaugurata alla fine di Mani Pulite da Antonio Di Pietro che, per sua stessa ammissione, con le centinaia di migliaia di euro sottratti ai giornali attraverso cause di diffamazione ci ha costruito un impero: economico, oltre che politico.

E se l’ex Tonino nazionale ha provato l’amarezza di veder crollare tutto il suo potere politico proprio per mano di una giornalista (la bravissima Sabrina Giannini di Report), può consolarsi con le fortune economiche tutt’altro che disfatte («In cassa – scrive Il Giornale – ci sono 16,9 milioni di euro, di cui 4,5 sui conti correnti e 8 milioni in fondi di investimento bancari»).

Perciò è ufficialmente aperta – e da tempo – la caccia ai soldi dei giornali. Cui in questi anni hanno attinto tutti: ex politici trombati, faccendieri accusati di reati terrificanti e alla fine miracolosamente assolti, magistrati colpiti nella loro verginità, banchieri, senatori per un giorno, escort catapultate in Parlamento, e chi più ne ha più ne metta. Il risultato è sotto i nostri occhi. Non è solo la crisi economica ad aver ghigliottinato le redazioni, buttando in mezzo alla strada ormai decine di migliaia tra giornalisti ed altre maestranze. E non riguarda solo il trionfo delle praterie internettare, la falcidie di risorse e posti di lavoro che sta divorando il mondo dei media, comprese le tv. Se andiamo a fare due conti, scopriremo che la causa prima di questo disastro sono stati i risarcimenti da milioni e milioni di euro assegnati da sentenze civili ai diffamati, molto spesso fasulli. Un aggettivo leggermente sopra le righe vale dai 50 ai 70.000 euro. Se poi hai rispettato alla lettera i tre requisiti della legge sulla stampa (che esiste ancora ed è in vigore, anche se molti got non fanno nemmeno la fatica di andare a leggerla prima di emettere la sentenza), se quindi esiste l’interesse pubblico, la notizia è vera ed è stata espressa con la dovuta continenza, beh, in questo caso non solo non scatta automaticamente la condanna per lite temeraria del diffamato truffaldino, ma anzi, spesso gli viene comunque riconosciuta una bella sommetta, in considerazione «del suo prestigio e della sua autorevolezza».

È così che nasce e prospera il racket delle diffamazioni, nuova forma di arricchimento illecito che non costa nulla e, soprattutto, non comporta alcuna conseguenza negativa per chi ci prova. Male che vada, ci ha rimesso solo le spese dell’avvocato amico. Ma ha pur sempre tentato la sorte, chiedendo due, trecentomila euro, o fino a un milione (tanto, anche quello non gli costa nulla), a chiunque abbia osato profferire il suo nome invano.

Lo abbiamo già scritto: il racket sa bene che si è passati dal giudizio per diffamazione a quello per lesa maestà. È come per il capo dello Stato: non devi pronunciare il suo nome. E basta.

Il racket, poi, è attrezzatissimo e, soprattutto, ha imparato per bene la lezione: memore dei suoi successi, oggi spesso non presenta subito la citazione, ma attraverso gli avvocati fa sapere in redazione che si potrebbe anche preventivamente trattare. Il mio cliente – dice il legale al telefono – è una persona molto generosa e liberale. Trentamila? Cinquantamila? Pensateci bene, vi conviene… Questo è il messaggio che viene sottilmente instillato dall’altro capo del filo.

 

Come vedete, in questo articolo non ci sono i nomi dei truffatori. Ma sono tutti compresi in un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura che alcune testate indipendenti stanno promuovendo per denunciare la truffa ai danni della democrazia.

E’ l’Italia di Borat: mi scuso ma non mi dimetto

E’ l’Italia di Borat: mi scuso ma non mi dimetto

di Oliviero Beha

Meglio del film (2006) Borat, in cui il comico (!!!???) inglese Sacha Baron Cohen interpretava un giornalista kazako alla scoperta dell’America: qui Baron non c’è ma il tema kazako invece sì e come si vede non c’è bisogno di comici di professione. Basterebbe intitolare la strepitosa sceneggiatura “Da BungaBunga a BoratBorat” e indicare come starring i ministri Alfano e Bonino, tutto lo staff coinvolto dei due ministeri e naturalmente il governo al completo che tuona ma ha paura che piova, cioè si dissolva insieme alla maggioranza. Il set mediatico dove si sta finendo di girare è straordinario, e planetario: grazie all’affaire kazako abbiamo dato una bella riverniciatina all’immagine dell’Italia, dopo le corna e le “culone” che ricordiamo con piacere e il simpatico tradimento della parola data per i due marò in India. Il tutto mentre rimbomba la questione di fondo, e cioè che nessuno dei pezzi grossi si dimette mai. In fondo Calderoli, per l’altra questioncella dell’orango alla Kyenge, ha stilato l’epigrafe del nostro Paese: mi scuso ma non mi dimetto.Forse risorgeremo quando questi nostri partigiani delle prebende diranno finalmente “non mi scuso ma mi dimetto”.

Calderoli: “La Kyenge mi sembra un orango”. E’ bufera, Napolitano “indignato”

Calderoli: “La Kyenge mi sembra un orango”. E’ bufera, Napolitano “indignato”

 (115) (0)  

 

Alla fine di una giornata incandescente con il leghista Roberto Calderoli nella bufera per aver paragonato la ministro Cecile Kyenge ad un orango in un comizio nella bergamasca, è intervenuto anche Napolitano dicendosi “colpito e indignato” per l’imbarbarimento della vita civile: una condanna netta per le affermazioni del vice-presidente del Senato e anche un tentativo dall’alto del Colle più alto di far rinsavire – e forse convincere a farsi da parte – chi usa le parole in modo indegno e come lancafiamme, tanto più che è stata sempre la Lega un mese fa a prendersela con la ministro di colore con l’ineffabile europarlamentare Borghezio. Anche lui ha poi chesto scusa come oggi ha fatto Calderoli – sommerso da critiche bipartisan e inviti a lasciare la carica – buttandola sulla ‘battuta’ ma affermando anche di non avere nessuna intenzione di dimettersi. Bisognerà vedere come si comporteranno i senatori quando toccherà a lui presiedere la seduta a palazzo Madama; se se ne andranno per protesta come in molti hanno promesso allora il problema diverrà ancora più serio di quanto non lo sia già e l’esponente leghista potrebbe dover decidere altrimenti. La replica della Kyenge: “Non ha offeso me ma l’immagine dell’Italia”. Enrico Letta ha definitro “inaccettabili” gli insulti di Calderoli e espresso totale solidarietà al ministro. Durissimo con il leghista Pier Luigi Bersani: “Non conosco animale che direbbe le bastialità di Calderoli” Ma Napolitano si è detto “indignato” anche per altri recentissimi esempi di “imbarbarimento” come gli insulti via Web a Mara Carfagna del Pdl (“Ti veniamo a prendere a casa” uno dei meno forti…) e l’incendio appiccato da sconosciuti (ma non poi tanto) al liceo ‘Socrate’ di Roma, una scuola distintasi per le sue battaglie anti-omofobia. Ma quali sono state esattamente le parole di Calderoli? “Io mi consolo quando navigo su Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango'” ha detto l’esponente del Carroccio a Treviglio nel bergamasco. “Fa bene a fare il ministro ma forse lo dovrebbe fare nel suo Paese. E’ anche lei a far sognare l’America a tanti clandestini che arrivano qui” ha aggiunto.

Bronzi di Riace abbandonati, vergogna nazionale

Bronzi di Riace abbandonati, vergogna nazionale

Di  | il 9 luglio 2013 | 6 Commenti

 

“La situazione dei Bronzi di Riace, abbandonati da oltre 1.290 giorni nella sede del consiglio regionale calabrese a causa del protrarsi dei lavori di restauro del Museo della Magna Grecia, è un’assoluta vergogna per l’Italia“.

Lo nota il presidente della commissione italiana dell’Unesco, Giovanni Puglisi, che dopoil monito su Pompei torna a criticare la situazione dei beni culturali italiani. Mentre sottolinea l’apprezzamento per le dichiarazioni del presidente del Consiglio Enrico Letta, che ha promesso una inversione di tendenza nella legge di stabilità.

La situazione dei Bronzi di Riace, che attendono da 1.290 giorni il completamento dei lavori di ristrutturazione del Museo Nazionale di Reggio Calabria “è una vergogna – dice Puglisi – sia dal punto di vista della cura dei beni culturali sia dell’immagine internazionale del nostro Paese. E viene ancora più rabbia se si considera che ciò accade proprio in una regione come la Calabria dove il turismo dovrebbe essere una primaria risorsa”. Puglisi sottolinea quindi l’apprezzamento per le parole di Letta e conclude auspicando che “questo nuovo slancio nel considerare i beni culturali come risorsa del Paese parta proprio affrontando l’incresciosa situazione dei Bronzi di Riace”.

Il Presidente della Regione Calabria, Giuseppe Scopelliti, secondo quanto informa una nota dell’Ufficio stampa della Giunta, ha scritto al Ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo, Massimo Bray, per chiedere la rimozione dei responsabili dei ritardi relativi alla riapertura del Museo.

“Quanto avvenuto in questi anni nella gestione dei lavori del Museo nazionale della Magna Grecia – sostiene Scopelliti – è qualcosa di assurdo. Ritardi su ritardi, tempo preziosissimo perso e soprattutto somme vertiginosamente aumentate. Ad oggi, è questa la realtà, non solo il museo attende la riapertura, ma i nostri tesori non sono fruibili, in particolare i Bronzi di Riace. Questo stato di cose non può passare senza responsabilità. Chi, o coloro che hanno causato ritardi e sprechi di risorse, devono pagarne le conseguenze. Per questo chiedo ufficialmente al Ministro Bray la rimozione dei responsabili. In tanti, nel corso di questi anni, si sono affrettati nell’analizzare il problema da vari punti di vista, ma nessuno ha indicato ruoli e responsabilità per gli inadempienti”.

“Per quanto riguarda le mie competenze di Presidente della Regione Calabria – dice ancora Scopelliti – ricordo che, dopo lunghe pressioni ed incontri con l’ex ministro Barca, il Cipe ci assegnò sei milioni di euro, che si aggiungevano ai cinque milioni straordinari della Regione, da noi stanziati, per il completamento dei lavori. E pensare che l’iter si avviò nel 2006, con l’ex Ministro Rutelli ed i lavori del Museo si sarebbero dovuti concludere in tempo per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, nel 2011. Da Sindaco di Reggio, quando mi presentarono il progetto, la somma prevista era di 17 milioni di euro. Ad oggi si è arrivati quasi al doppio, con 32 milioni di euro di spese”.

“Oltre alla rimozione dei responsabili per ritardi e sprechi – conclude il presidente della Regione Calabria – nella missiva inviata al Ministro Brey ho chiesto che lo Stato mantenga gli impegni presi con i calabresi e soprattutto indichi tempi certi per la riapertura. Non possiamo più attendere”.

E il ministro Bray all’Aquila scatta fotografie ai negozi del centro ancora in macerie

E il ministro Bray all’Aquila scatta fotografie ai negozi del centro ancora in macerie

 

Scatta foto alle serrande abbassate dei negozi e alle locandine ancora appese fuori ai teatri, ferme al 6 aprile del 2009, che raccontano la storia di una città culturalmente attiva.
È alla ricerca di forma di vita, il Ministro della Cultura, Massimo Bray, oggi a L’Aquila per inaugurare la seconda edizione della kermesse I cantieri dell’Immaginario. Lo attrae e lo colpisce qualsiasi simbolo che racconti la quotidianità di un centro storico, oramai deserto.

La città sono tali se piene di persone che le abitano– mi dice durante la passeggiata in centro storico, dove il Ministro visita i cantieri aperti o da avviare- C’è vita dove c’è gente che lavora, dove le piazze sono punti d’incontro e non vuote come mi capita di vedere qui.

Trovare delle locandine ancora fuori dai teatri mi colpisce e mi rattrista, come mi ha colpito, la volta scorsa che sono venuto, ascoltare le parole di dolore di una donna che mi ha portato dentro casa sua. Una casa, dove non poteva più rientrare e dove si è persa ogni traccia dell’esistenza precedente”.

La nostra conversazione subisce i ritmi della visita dei cantieri del centro. Si inizia dall’Oratorio di San Giuseppe dei Minimi, riaperto proprio ieri, dove il Ministro si ferma a dialogare con don Luigi Maria Epicoco, che gli regala l’olio santo.

Poi una tappa al teatro San Filippo “Quando iniziano qui i lavori?”. Domanda al responsabile del cantiere. “Il 26 luglio dovremmo consegnare i lavori”, risponde. “Bene, allora il 26 luglio sarò di nuovo a L’Aquila”.

Mi conforta che molti cantieri affidati al Ministero stiano partendo. È importante rispettare i tempi per poterli restituire al più presto agli aquilani. Il governo tuttavia dovrebbe assumersi l’impegno di far procedere in parallelo la ricostruzione delle abitazioni civili, perché è importante che i cittadini possano ritrovare la loro vita, le loro case, la loro storia, tutto ciò che fa parte del loro vissuto, che si è spezzato”.

“Vorrei davvero dare un segnale di speranza”, mi dice mentre proseguiamo verso nostro tragitto.

La cultura può essere il collante di una comunità. Ma credo che in questo momento devono essere compiute scelte politiche forti. La politica deve dare risposte al paese e devono essere risposte sicure, ferme. Se si vuole che i cittadini tornino ad avere fiducia nella politica, la politica deve essere capace di ascoltare i cittadini”.

Sono parole energiche, pronunciate con convinzione dalla stessa persona mite e pacata, che nel suo discorso inaugurale de I canteri dell’Immaginario ha più volte fatto riferimento ad Ernesto De Martino, circa il forte legame tra cultura e popolo.

Non si possono tagliare risorse a situazioni come L’Aquila, perché L’Aquila, come altre realtà del paese sono il simbolo di comunità che vogliono credere in uno sviluppo differente. Il Presidente del Consiglio ha preso l’impegno preciso di trovare più risorse per la cultura. Nel caso dell’Aquila si deve andare oltre, perché la cultura è il collante per ricostruire il senso di una comunità. Bisogna garantire risorse e tempi certi”.

“La cultura non può essere un analgesico spirituale, al contrario qualcosa per ricominciare a vivere- conclude il Ministro, mentre imbocchiamo via Verdi, diretti verso il teatro comunale, altro cantiere che dovrebbe partire a breve, forse ad ottobre- Non può esistere L’Aquila fuori dall’Aquila, fuori da tutto quello che rappresenta la storia di questa città”.

La cultura produce ricchezza, ecco i dati

La cultura produce ricchezza, ecco i dati

Di  | il 6 luglio 2013 | Lascia un commento

 

Ogni euro prodotto da un museo o da un sito archeologico si traduce in altri due euro di ricchezza per il territorio. L’artigianato artistico e le altre industrie creative ne generano ulteriori 2,1. La produzione di un audiovisivo, di un libro o una rappresentazione teatrale altri 1,2. Quindi, investire in cultura conviene.

Lo dimostrano le elaborazioni contenute in ‘Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi‘, il Rapporto realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, con la collaborazione e il sostegno dell’Assessorato alla cultura della Regione Marche, presentato oggi a Macerata.

L’analisi evidenzia che i 4 comparti del sistema produttivo culturale hanno differenti ricadute in termini economici sui territori, che moltiplicano la capacità di generare ricchezza del settore in sé in quanto attivano un circuito virtuoso di produzione di beni e servizi anche in comparti non prettamente culturali. Primo tra tutti il turismo, ma anche commercio, trasporti, attività immobiliari, marketing o pubblicità.

La media dei 4 settori è 1,7 (per ogni euro di valore aggiunto che l’intero sistema produttivo culturale realizza, se ne generano altri 1,7 in prodotti e servizi di varia natura), ma il ‘moltiplicatore’ è compreso tra un massimo del 2,1 generato dalle industrie creative a un minimo dell’1,2 derivante dalle performing art e dalle industrie culturali.

Esattamente a 2, invece, ammonta quello prodotto dalla gestione del patrimonio storico- culturale. In termini monetari, gli 80,8 miliardi di euro di valore aggiunto realizzati da tutti i comparti produttivi che si occupano di cultura (inclusa la componente pubblica e quella non profit) nel 2012 sono riusciti ad attivare quasi 133,4 miliardi di euro, arrivando così a costituire una filiera culturale intesa in senso lato di 214,2 miliardi di euro, equivalenti al 15,3% del Pil prodotto dall’intera economia italiana.

E’ morta Margherita Hack

E’ morta Margherita Hack: l’astrofisica aveva 91 anni, era ricoverata da una settimana

 L’astrofisica Margherita Hack è morta la notte scorsa all’ospedale di Cattinara dove era ricoverata da una settimana. Aveva compiuto 91 anni il 12 giugno scorso.
Era ricoverata da sabato scorso – La Hack è morta la notte scorsa alle 4,30 nel polo cardiologico. Era stata ricoverata sabato scorso in seguito al riacutizzarsi dei problemi cardiaci che la affliggevano. Con lei c’erano il marito, Aldo, con il quale era sposata da 70 anni, Tatiana, che la assisteva da tempo, la giornalista Marinella Chirico, sua amica personale, e il responsabile del polo cardiologico, Gianfranco Sinagra.
Era nata a Firenze – Astrofisica di fama mondiale, la Hack era nata a Firenze nel 1922 e si era trasferita a Trieste nel 1963, dove viveva in una casa nel quartiere di Roiano. Senza figli, donna impegnata socialmente, vegetariana da sempre, grande divulgatrice, la Hack era anche una appassionata animalista: aveva otto gatti e un cane. Il suo ricovero era stato tenuto segreto per sua volontà, così come ha lasciato indicazioni di essere sepolta nel cimitero di Trieste senza alcuna funzione né rito ma con una cerimonia esclusivamente privata. Le persone che gli sono state vicine fino alla fine hanno riferito che per rispettare le sue volontà non saranno resi noti né giorno né orario della sepoltura.
“Amica delle stelle” – Toscana Doc e atea convinta, Margherita Hack – ‘amica delle stelle’ come si era essa stessa definita in una sorta di autobiografia pubblicata nel 1998 – ha trascorso buona parte della sua vita a Trieste. Qui ha diretto per oltre 20 anni l’Osservatorio astronomico, portandolo a un livello di rilievo internazionale, ed ha insegnato nell’università dal 1964 al 1992. Nota al grande pubblico soprattutto per le due doti di divulgatrice, nel mondo della ricerca ha occupato una posizione di primo piano fin dall’inizio della sua lunga carriera. Celebri anche le sue battute taglienti ed i modi schietti, conditi dal forte accento toscano che non ha mai abbandonato, così come la sua grande gentilezza.
Laureata sotto il fascismo – Nata da genitori vicini alle dottrine teosofiche, al termine della seconda guerra mondiale si é laureata in astrofisica sotto il fascismo, cui non ha mai aderito, con una tesi sulle Cefeidi, le stelle ‘pulsanti’ che si sono rivelate fondamentali nella misurazione delle distanze delle galassie. A Firenze aveva anche conosciuto il marito Aldo quando avevano, rispettivamente 11 e 13 anni, e al quale è stata vicina per 70 anni. Dopo aver ottenuto alcune collaborazioni in Italia e incarichi in università straniere, tra cui Berkeley, Princeton, Parigi, Utrecht e Ankara, a 42 anni aveva ottenuto la cattedra di astronomia nell’Istituto di Fisica Teorica all’Università di Trieste, assieme all’incarico all’osservatorio. Nel 1978 ha fondato la rivista ‘L’Astronomià ed ha scritto decine di libri divulgativi. Grazie alla sua popolarità ha saputo avvicinare la scienza al grande pubblico negli innumerevoli incontri dal vivo in rassegne e festival, in teatri e auditorium, nelle partecipazioni televisive.
L’amica: “I suoi ultimi giorni sono stati sereni” – Sono stati sereni e “vissuti con leggerezza”, come aveva sempre fatto nella sua vita, gli ultimi giorni dell’astrofisica Margherita Hack. I problemi cardiaci dei quali soffriva da tempo “erano molto pesanti, ma li viveva con una leggerezza assoluta”, racconta Marinella Chirico, molto vicina alla ricercatrice e alla sua famiglia. La malattia si era riacutizzata una settimana fa, tanto da rendere necessario il ricovero. Margherit Hack lascia il marito Aldo, 93 anni, che aveva conosciuto a Firenze, dove erano nati entrambi e dove si erano incontrati ai giardini quando Margherita aveva 11 anni e lui 13. Si erano sposati 70 anni fa, “la prima e l’ultima volta che era entrata in una chiesa”, racconta l’amica di famiglia. Non hanno avuto figli e vivevano con otto gatti e un cane. Della morte non ha mai avuto paura, nemmeno negli ultimi giorni: “quando ci sono io non c’é la morte – le piaceva ripetere – e quando c’é la morte non ci sarò io”.

L’USCITA DAL CAPITALISMO

L’USCITA DAL CAPITALISMO

 

di Bruno Amoroso*

 

intervista a Bruno Amoroso a cura della rivista AltreStorie

 

Fonte: rivista AltreStorie

 

D. L’attuale crisi è qualcosa che si poteva prevedere, oppure si è trattato di un evento i cui fattori molteplici globali lo hanno reso in qualche modo imprevedibile e conseguentemente incontrastabile? Quanto è fondata l’accusa rivolta agli economisti in genere di non aver lanciato l’allarme tempestivamente su quanto si stava preparando?

R. «La crisi finanziaria, la più grande ondata di crimine finanziario organizzato della storia umana, secondo le parole di James K. Galbraith, è stata preparata nel corso di tre decenni durante i quali la globalizzazione ha avuto il tempo di organizzarsi dispiegando tutti i suoi effetti con l’imposizione del “pensiero unico” fino al “potere unico” dell’ultimo decennio. Tra gli economisti, e non solo, è prevalsa la corsa a farsi “consiglieri del principe” sostituendo e riscrivendo i libri di testo sotto dettatura del pensiero neoliberista. Tuttavia, le analisi critiche per comprendere quanto è accaduto non sono mancate: dai contributi premonitori di James K. Galbraith, “Lo Stato Predatore”, a quelli di Paul Krugman e Joseph E. Stiglitz. In Italia le persone e i movimenti che potevano denunciare e interpretare queste tendenze hanno scelto la via opportunistica dell’”inserimento” e dell’”integrazione”, trasformando il piano di apartheid globale della globalizzazione in un’opportunità per arricchirsi nel “villaggio globale”, e interpretando i fenomeni reali della “destabilizzazione politica” e “marginalizzazione economica” come “globalizzazione dal basso” e “globalizzazione del welfare”. Si è cioè pensato di poter predicare il pacifismo portando la guerra altrove, di combattere la speculazione e il crimine “tassandoli” per ricavarne parte del dividendo, di poter costruire la “città ideale” dentro le nicchie di un contesto in sfacelo».

 

D. Si sente spesso sostenere che quella che stiamo vivendo rappresenti non una delle tante crisi cicliche vissute in passato, ma una crisi “sistemica o strutturale”, che può essere superata solo adottando soluzioni estranee al contesto al cui interno è maturata. È d’accordo con questa interpretazione e se sì quali azioni si sentirebbe di proporre?

R. «La crisi attuale è una crisi economica e sociale provocata dal successo della nuova struttura del processo di accumulazione capitalistico, che si è dato a partire dagli anni Settanta con la globalizzazione. Il cuore del processo è la finanza, cioè la trasfigurazione da un sistema basato sul profitto capitalistico a quello basato sull’esproprio dei redditi e la rapina delle ricchezze materiali e intellettuali. La crisi in corso non ha nulla di ciclico, diversamente dalle crisi economiche del capitalismo industriale, e troverà il suo punto di approdo in un potere assoluto coincidente con l’impoverimento di gran parte dei cittadini. Per questo l’uscita dagli effetti della crisi può avvenire solo con l’uscita dal capitalismo che oggi è quello della speculazione finanziaria e della rapina di Stato».

 

D. Quale ruolo hanno giocato i mercati finanziari nella costruzione dell’attuale situazione economica? In che misura sono stati causa della crisi e potrebbero contribuire a sanarla?

R. «I mercati finanziari sono le “fabbriche” che hanno sostituito quelle del fordismo industriale, la culla della rapina e dell’esproprio. Questo percorso di “finanziarizzazione” delle economie capitalistiche inizia negli anni Ottanta con la modifica della legge bancaria negli Stati uniti, ai tempi di Reagan, poi negli anni Novanta con l’introduzione di nuove regole per la finanza che hanno consentito la produzione dei derivati e titoli tossici, con Clinton, il tutto con il consolidarsi di un potere unico finanziario-militare illustrato ampiamente da James K. Galbraith. L’Europa ha seguito per imitazione le stesse politiche con le “direttive europee”, passivamente recepite anche in Italia, che hanno introdotto la banca “universale” e la liberalizzazione dei mercati finanziari. In Italia questo percorso è stato segnato dalla biografia di Mario Draghi, che bene illustra i conflitti d’interessi e le collusioni tra mondo politico e poteri finanziari. Negli anni Ottanta è direttore per l’Italia della Banca Mondiale, negli anni Novanta diventa direttore generale al Tesoro e privatizza il sistema bancario, introduce il Testo Unico del 1993 sulle banche che recepisce tutte le direttive europee, comprese quelle ben note sui derivati speculativi. Poi lascia la mano per andare a dirigere la Goldman Sachs e contribuire così a mettere a punto la “grande truffa” che esplode nel 2008, di cui non era a conoscenza come responsabile della sorveglianza in quanto governatore della Banca d’Italia. Nel mentre la “sinistra” è distratta dalla difesa dell’”autonomia” della Banca d’Italia, dalla denuncia sul conflitto d’interessi di Berlusconi contro il quale, in ogni caso, non fa nulla».

 

D. Che ruolo potrebbe rivestire l’Unione Europea in questo particolare passaggio storico-economico? L’euro può offrire uno scudo contro la crisi?

R. «L’euro doveva essere lo scudo, ma la sua gestione è stata affidata a chi ha messo in moto la crisi, inutile ripetere i nomi delle persone e organizzazioni, ed è quindi divenuto la camicia di forza che impedisce agli Stati e alla stessa UE di reagire e di difendersi. Il ruolo dell’Europa è possibile se negli Stati nazionali si manifestano forze popolari che si facciano carico di riprendere il percorso di “pace” e “cooperazione” che fu alla base dell’idea di Europa nel primo dopoguerra, e poi fatto deragliare prima dalla “guerra fredda” e successivamente, negli anni Novanta, dalla scelta di fare del progetto europeo un piano di “competitività” e di “guerra”. Una ricostruzione dell’Europa a partire dai popoli e dagli Stati deve assumere una forma confederale tra le quattro grandi meso-regioni europee (Paesi nordici, Europea centrale, Europa mediterranea, e Europa occidentale). Uscire dal guscio asfissiante del dominio dell’Europa occidentale e dell’alleanza atlantica è la premessa per queste nuove politiche».

 

D. Una delle affermazioni ricorrenti è che bisogna tagliare la spesa pubblica per creare le condizioni di base utili a contrastare e superare la crisi. Quanto è condivisibile una simile posizione? L’attuale crisi economica costringerà a sacrificare l’attuale modello di Stato sociale?

R. «La spesa pubblica non c’entra con la crisi e invece di guardare al deficit dello Stato e al debito estero si dovrebbe guardare all’occupazione e al deficit della bilancia dei pagamenti come ho spiegato nel mio libro “L’Europa oltre l’euro”. La spesa pubblica aumenta in situazioni di crisi in ragione degli stabilizzatori automatici che hanno il compito di evitare forti conseguenze sociali, ed è per questo che Keynes raccomandava al governo: “Occupatevi dell’occupazione e questa si prenderà cura del bilancio dello Stato”. Chi vuole gli stabilizzatori sociali, cioè il welfare, non intende risolvere la crisi ma scaricarne i costi in modo irresponsabile sui cittadini più deboli e i lavoratori, cioè sul 99% delle persone».

 

D. Cosa ha comportato e cosa comporterà per l’Europa lo spostamento del baricentro mondiale fuori dall’Occidente industrializzato?

R. «Significa che l’Europa deve ripensarsi e ritrovare il suo spirito di pace e di cooperazione con le nuove aree mondiali emergenti, lasciandosi alle spalle i vecchi mercati ricchi dell’Occidente. Insistere sul modello della guerra e della competitività significa condannarsi al suicidio e alla marginalità sia verso l’Occidente che verso l’Oriente. La cooperazione con le nuove aree in crescita non si ottiene con la competitività ma con rapporti diretti e di cooperazione tra Stati, cioè sullo scambio reale di capacità e di beni e con la messa in comune delle risorse disponibili».

 

D. Nel dibattito pubblico spesso si attribuisce la colpa dell’attuale stato di cose, almeno in Italia, a una classe dirigente incolta, poco lungimirante e fautrice di ripetute scelte sbagliate. Condivide questa posizione e se sì come ritiene si possano conciliare fra loro due ambiti apparentemente così distanti quali istanza politica e azione tecnico-scientifica?

R. «La classe dirigente politica e imprenditoriale che abbiamo è quella che è sopravvissuta alla guerra condotta contro il sistema italiano dagli anni Cinquanta in poi dagli Stati Uniti, Francia e Germania, e che continua oggi. Questa guerra è stata vinta finora prima con l’eliminazione fisica dei personaggi scomodi (Mattei, Olivetti ecc.), poi con la distruzione del sistema politico italiano negli anni Novanta e ancora oggi. La corruzione, esistente è la causa di questi sviluppi e di come, attraverso i fiumi di denaro riversati sui politici e sulle istituzioni, se ne è ottenuto il silenzio e la collusione alla realizzazione dei piani di costruzione del consenso su un progetto italiano ed europeo squilibrato. La reazione popolare degli ultimi anni, e espressa dalle ultime elezioni, dimostra che il limite della sopportazione è stato raggiunto, ma anche il fallimento di questi piani di destabilizzazione politica e di marginalizzazione economica del Paese».

 

D. Fra gli effetti della lunga crisi che stiamo vivendo vi è anche l’aumento considerevole di giovani senza lavoro, costretti a vivere in condizioni di precarietà e a fare i conti con un futuro dai contorni molto incerti. In che modo tutto ciò potrà influire sulla nostra futura società?

R. «A chi avanzava riserve critiche sulle forme dell’integrazione europea si rispondeva che queste volevano far “sprofondare” l’Italia nel Mediterraneo. Ebbene, è proprio l’adesione acritica alle strategie della globalizzazione e dell’UE che sta facendo sprofondare l’Italia nel “sottosviluppo”. Ma l’Italia è un Paese forte e le reazioni sociali e politiche che si annunciano lo dimostrano. Il successo di questa tendenza è anche la sola speranza offerta ai nostri giovani».

 

D. Dal suo punto di vista quando ritiene si possa immaginare un’inversione di tendenza dell’attuale dinamica recessiva? E quando ciò dovesse accadere, passato il peggio, che insegnamenti potremmo e dovremmo trarne da quanto accaduto?

R. «Questa crisi si fermerà quando i 4/5 della popolazione saranno ridotti in condizioni di povertà e marginalizzazione. Un percorso avviato ma che richiede tempo. La “ripresa” sarà una stabilizzazione e istituzionalizzazione della povertà e della dipendenza politica del Paese dai centri finanziari. Che questo possa avvenire in forma “pacifica” è da dimostrare. La vera ripresa ci può essere solo se il 99% degli esclusi riprende il controllo sulla macchina del potere politico ed economico. Le forme in cui questo avverrà, se avverrà, non saranno indolori per le vecchie classi dirigenti e per questo si oppongono con tutti gli strumenti a disposizione. La forza obiettiva di questo cambiamento dipende dal fatto che l’alternativa a una vera ripresa è lo scenario dell’implosione dell’Europa sul modello jugoslavo, a noi ben noto. La preferenza per una soluzione, anche europea, negoziata e con un cambio di indirizzo dovrebbe apparire ovvia e di buon senso, oltre che più giusta. Ma raramente l’equità e la giustizia prevalgono sugli interessi costituiti».

 

 

* Bruno Amoroso, presidente del Centro Studi Federico Caffè e collaboratore di Comune-info, è stato uno degli allievi del noto economista Federico Caffè (nel libro «La stanza rossa», per Città aperta, traccia il significato dell’avventura intellettuale e umana dell’amico e maestro). Docente presso l’Università di Roskilde (Danimarca) e quella di Hanoi (Vietnam), Amoroso è tra i promotori dell’Università del Bene Comune ed è autore di numerosi articoli e libri (tra cui «Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro» per Dedalo edizioni; l’ultima pubblicazione è «L’Europa oltre l’Euro», edita da Castelvecchi). Altri articoli di Amoroso sono QUI.

La ministra Kyenge: “Sono nera, non sono di colore, lo dico con fierezza”

La ministra Kyenge:
“Sono nera, non sono
di colore, lo dico
con fierezza”

 

“Sono italo-congolese: appartengo a due culture. Gli insulti mi feriscono ma non mi fermeranno I Cie? Da cambiare. E racconta la sua vita in una famiglia di 38 fratelli. Letta e Alfano: “Fieri di averla nel nostro governo”

 
Il ministro per l'Integrazione Cecile Kyenge (Imagoeconomica)

Il ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge (Imagoeconomica)

Roma, 3 maggio 2013  – “Sono nera, non sono di colore”. Cosi la ministra per l’Integrazione Cecile Kashetu Kyenge nella sua prima conferenza stampa, indetta nella giornata per la libertà di stampa.

Segui le notizie su Facebook Condividi

“Sono italo-congolese: appartengo a due culture, a due Paesi- aggiunge- ho una doppia identità. Non sono di colore, sono nera, lo dico con fierezza”. Sottolineando che “bisogna iniziare ad usare la terminologia giusta”.

Kyenge ha poi ricordato la propria appartenenza al Pd (un partito che ha nei confronti dell’immigrazione “un approccio di politica dell’accoglienza e non un atteggiamento in termini di sicurezza”), la sua lunga esperienza nell’associazionismo e la sua prima professione: “Sono medico oculista e penso che chi ha delle competenze le debba mettere a servizio degli altri”.

“L’Italia non è un paese razzista, ha una tradizione di accoglienza e di ospitalità”.

Per la ministra bisogna “valorizzare questa tradizione. Si parla di razzismo- sottolinea- perché c’è molta non conoscenza dell’altro, bisogna abbattere i muri o aumentano le differenze. L’immigrazione è una ricchezza”.

Rispetto agli attacchi che ha ricevuto Kyenge osserva che “era una tappa necessaria. Ho apprezzato le parole di Enrico Letta e di Josefa Idem. Il razzismo è stato condannnato dalla società, la società civile ha reagito bene contro gli attacchi, è quello che volevo vedere”.

“Non ho risposto personalmente a questi attacchi – ha sottolineato – anche perché mi sono sentita abbastanza tutelata e ho avuto il sostegno di tutti i componenti del governo”. E inoltre, ha precisato, “si tratta solo di singole voci che non sono la maggioranza ma solo di chi urla di più”. 

“La violenza sulle donne è un tema che non riguarda solo gli italiani o solo gli immigrati. La violenza non ha etnia. Quello che bisogna cambiare è la cultura sulle donne”. Lo ha affermato il ministro dell’Integrazione, Cecile Kyenge, commentando le parole del presidente della Camera, Laura Boldrini, sul rischio di messaggi razzisti e sessisti sul web.

“Sono fiera di fare parte di questo Governo. Per me è una sfida. Ci sono diversi partiti politici, tutti devono imparare a trovare un terreno condiviso, usando un linguaggio che non offenda l’altro, dando risposte alle priorità del paese, a partire dalla crisi economica, dalla mancanza di lavoro e dalle nuove povertà. Sono sicura che, cambiando il linguaggio e l’approccio, molte cose possono essere fatte”.

La ministra Kyenge non è entrata, nelle risposte alle domande dei giornalisti, nel dettaglio di questioni come il diritto di cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia o i Cie (Centri di identificazione ed espulsione nei cui confronti in passato non ha lesinato critiche). “Sono all’interno di un gruppo, la mia sensibilità è massima, il mio impegno c’è, ma bisogna trovare un terreno comune per raggiungere i risultati”, ha detto la responsabile dell’Integrazione, auspicando di poter incontrare nuovamente in futuro la stampa per fare il punto della sua attività di governo.

Quella dei Cie è di sicuro un’emergenza e non la dimentico, ma la risposta migliore la dobbiamo dare con l’Europa, non si può trovare solo in Italia. La politica sui flussi – ha spiegato il ministro – può essere affrontata solo con gli altri paesi, solo oltre le frontiere”.

LETTA-ALFANO: NOI FIERI DI LEI – “Cecile Kyenge è ‘fiera di essere nera’ e noi siamo fieri di averla nel nostro governo come ministro per l’Integrazione”. Lo affermano in una nota congiunta il presidente del Consiglio Enrico Letta e il vicepremier e ministro dell’Interno Angelino Alfano.

“A fronte degli attacchi razzisti che ha ricevuto, a Lei va, anche pubblicamente – spiegano Letta e Alfano – la nostra piena solidiarietà. Come sottolineato in sede di insediamento dell’esecutivo alle Camere, bisogna fare tesoro della voglia di fare dei nuovi italiani, e la presenza di Cecile Kyenge nel governo riteniamo dia una nuova concezione del ‘confine’, che da barriera diventa speranza. La speranza di costruire, a partire da scuole e università, una vera comunità dell’integrazione”.

UNA FAMIGLIA DI 38 FRATELLI – Alcuni aspetti della storia personale del ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge sono emersi, pur in un contesto di grande pudore, nell’intervista che Gad Lerner le ha fatto durante la registrazione della trasmissione ‘Zeta’.
Mi sono pagato da sola gli studi – ha spiegato il ministro -. Mio padre ha studiato e tutte le donne nella mia famiglia hanno studiato. Abbiamo sempre avuto il ‘messaggio’ dell’importanza dell’istruzione anche per le donne. La mia è una famiglia numerosissima, siamo 38 fratelli, da tante mamme – ha proseguito Cecile Kyenge – e ne sono molto fiera. E’ un concetto di famiglia difficile da capire, un grande rispetto ci accomuna. Per mantenermi come studentessa di medicina facevo lavoro di cura nelle case”.

SUGLI INSULTI – “Non mi aspettavo tanto insulti. Essendo una persona umana sono rimasta ferita, ma non credo che gli insulti possano fermarmi”, ha detto Cecile Kyenge.

AUL CIE – Le persone non possono essere trattenute per 18 mesi nei Centri di identificazione ed espulsione, ha detto il nuovo ministro all’Integrazione Cecile Kyenge. “Non si possono trattenere 18 mesi le persone perchè non hanno un documento o perchè sono irregolari”, ha spiegato Kyenge, “vanno cambiate molte cose. La maggior parte di quelli che sono li’ sono persone che vengono dal carcere e quindi sono già identificate”.