Pronta la prima milza artificiale, pulisce il sangue dalle infezioni

Pronta la prima milza artificiale, pulisce il sangue dalle infezioni

Pronta la prima milza artificiale: si tratta di un dispositivo extra-corporeo, ispirato alle macchine per la dialisi, che usa microscopici magneti per ripulire il sangue da batteri, funghi e tossine responsabili di pericolose infezioni che possono portare alla morte per setticemia. La ‘biomilza’ è stata sviluppata dai ricercatori dell’università di Harvard, che pubblicano su Nature Medicine i primi successi ottenuti con la sperimentazione sui ratti.
Pulisce il sangue dalle infezioni – La setticemia, che ogni anno uccide otto milioni di persone nel mondo, ”è un problema medico di grande rilevanza che sta diventando sempre più grave a causa della resistenza agli antibiotici”, spiega il coordinatore dello studio Donald Ingber. ”Siamo entusiasti di questa biomilza perchè permetterà di trattare i pazienti velocemente senza dover aspettare giorni per identificare la causa dell’infezione. Inoltre è capace di rimuovere efficacemente anche i microrganismi resistenti agli antibiotici. Speriamo di poter portare avanti la sperimentazione in animali più grandi per arrivare poi all’uomo”.
Positivi i primi test sugli animali – Il dispositivo è formato da due canali principali collegati trasversalmente da piccole aperture: nel primo canale scorre il sangue infetto da depurare, mentre il secondo contiene una soluzione salina in cui vengono confinati i microrganismi man mano che vengono catturati. Il segreto per intrappolarli sta nell’uso di microscopiche perline magnetiche (500 volte più piccole di un capello) rivestite con una speciale ‘esca’, ovvero una versione geneticamente modificata della proteina umana Mbl (lectina legante il mannosio) che aggancia gli zuccheri presenti sulla superficie di tossine e microrganismi (vivi e morti). I primi test di laboratorio condotti usando sangue umano infetto hanno dimostrato che la biomilza è in grado di filtrare fino ad un litro di sangue all’ora rimuovendo più del 90% dei patogeni.
Risultati altrettanto promettenti ottenuti sui topi – Il 90% degli animali sottoposti a filtrazione è sopravvissuto, contro il 14% di quelli non trattati. I dati dimostrano che il passaggio attraverso la biomilza non altera la composizione del sangue e non provoca la formazione di coaguli.

Una scintilla “accese” la vita sulla Terra

Una scintilla “accese” la vita sulla Terra: la scoperta a 60 anni dall’esperimento di Miller

Una “scintilla elettrica” ha dato il via a tutte le reazioni chimiche che hanno portato allo sviluppo delle molecole base della vita. Lo ha dimostrato una ricerca nata dalla collaborazione fra Italia e Francia e pubblicata sulla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas). Antonino Marco Saitta, dell’università Sorbona di Parigi, e Franz Saija, dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) a Messina, hanno riprodotto l’esperimento di Stanley Miller, che oltre 60 anni fa ricostruì in laboratorio l’origine delle molecole alla base della vita.
Scariche elettriche innescarono formazione degli amminoacidi – La nuova simulazione dimostra per la prima volta che sono state delle scariche elettriche ad innescare la formazione dei “mattoni” della vita, gli amminoacidi. L’analisi su scala atomica fatta adesso con l’aiuto di modelli computerizzati ha indicato infatti che le reazioni chimiche alla base della vita, finora mai chiarite nei dettagli, sono state innescate da scariche elettriche.
Molecole della vita si formano in ambienti molto semplici – Nel loro esperimento, Miller e Urey dimostrarono che prendendo le sostanze volatili più semplici, come metano, ammoniaca, acqua, idrogeno, e producendo una scarica elettrica, si recuperano amminoacidi, quindi che le molecole della vita si formano da sole in ambienti molto semplici. Nel ripetere quell’esperimento, Saitta e Saija hanno applicato dei campi elettrici sopra i 0,35 volt per Angstrom a queste miscele di molecole semplici, che hanno formato velocemente e spontaneamente delle molecole di acido formico e di formammide.
Ricercatori hanno ottenuto anche un protoaminoacido – Con scariche elettriche di 0,5 volt si è arrivati alla formazione di un protoaminoacido. ”I ricercatori italiani e francesi hanno fornito una base teorica e il dettaglio delle reazioni di chimica quantistica all’esperimento di Miller”, commenta Ernesto Di Mauro, docente di Genetica molecolare dell’università Sapienza di Roma. Due i dati interessanti della ricerca, secondo Di Mauro.
Nella reazione si è formata dalla formalmide – ”Nella reazione – spiega – si è formata dalla formalmide, il prodotto base per la sintesi degli aminoacidi, dei precursori del dna e degli acidi metabolici”. E poi l’uso di scariche elettriche come sorgente di energia, ”che ci riporta al vento solare – conclude – fatto non solo di luce, ma di elettroni e protoni, e perciò di elettricità. L’aver identificato la via biosintetica che porta da sostanze semplici ai precursori della vita, genetica e metabolica, indirizza la chimica di base per applicazioni biotecnologiche, come sostanze antivirali e gli ormoni”.

Sonda Cassini rivela: su Titano si addensano nuvole di metano

Sonda Cassini rivela: su Titano si addensano nuvole di metano

Nuvole di metano si rincorrono sui mari di idrocarburi che punteggiano l’emisfero settentrionale della luna di Saturno, Titano, a conferma di un modello climatico simile a quello terrestre. Sono dieci anni che gli scienziati tengono d’occhio Titano grazie agli strumenti della missione Cassini-Huygens. La sonda ha catturato una serie di immagini dell’emisfero settentrionale della luna dove è possibile vedere un sistema nuvoloso muoversi sulla distesa di idrocarburi liquidi del Ligeia Mare. Questa rinnovata attività meteorologica su Titano – scrive Media Inaf, il notiziario online dell’Istituto nazionale di Astrofisica – potrebbe finalmente confermare le ipotesi dei ricercatori, secondo cui il modello atmosferico della luna non sarebbe dissimile da quello che governa la meteorologia sul pianeta Terra.
Le immagini di Cassini risalgono a fine luglio – Mentre la sonda si stava allontanando da Titano a seguito di un passaggio ravvicinato ha individuato un blocco di nuvole sulla grande distesa di metano conosciuta come Ligeia Mare. Lo sviluppo e la dissipazione dei vapori suggerisce una velocità del vento di circa tre, quattro metri al secondo. Dall’arrivo di Cassini nel sistema di Saturno, nel 2004, gli scienziati non hanno smesso di osservare l’attività meteorologica nell’emisfero meridionale di Titano. A quell’epoca il polo sud della luna stava vivendo la fine della stagione estiva. Un anno su Titano corrisponde a quasi trent’anni terrestri, con ogni stagione che si porta via circa sette anni.
Occhio della sonda Cassini sull’emisfero settentrionale – Oggi l’osservazione dei fenomeni atmosferici e la formazione delle nubi si è spostata all’emisfero settentrionale della luna di Saturno. Ma da quando una grande tempesta ha spazzato il cielo del satellite ghiacciato alla fine del 2010, è stato difficile catturare qualche immagine di piccole nuvole sulla superficie del polo nord. L’osservazione dei cambiamenti stagionali su Titano – sottolinea Media Inaf – continua a essere un obiettivo importante della missione Cassini, specie con l’arrivo dell’estate sull’emisfero settentrionale. Se le latitudini meridionali cadono in un lungo e buio inverno, il polo nord registra un innalzamento delle temperature che non può che favorire l’insorgere di sistemi nuvolosi.
Nuvole si trovano sempre sui mari di idrocarburi – “Siamo ansiosi di scoprire se l’aspetto delle nuvole segni l’inizio di un’estate nel modello meteorologico lunare o se si tratti di un caso isolato”, spiega Elizabeth Turtle, ricercatrice del Cassini imaging team, Johns Hopkins University Applied Physics Lab, Laurel, Maryland. “Ci chiediamo perché le nuvole inquadrate da Cassini si trovino sempre sui mari di idrocarburi. Si tratta di un caso o si formano di preferenza lì?”. Per le previsioni meteo su Titano, insomma, bisogna ancora aspettare.
14 agosto 2014

Trapianto di testa, scienziato torinese lancia la sfida. Viale: “Un folle”

Trapianto di testa, scienziato torinese lancia la sfida. Viale: “Un folle”

Si torna a parlare di trapianto di testa. Un anno dopo l’annuncio shock del medico torinese Sergio Canavero, che ha scatenato un lungo elenco di interrogativi scientifici ed etici, la rivista Frontiers in Neurologypubblica un nuovo studio del neurochirurgo, in cui spiega come a suo dire si possano fondere insieme i monconi di midollo osseo tagliato chirurgicamente. Argomentazioni “solide” per la rivista, che cita anche una sperimentazione sui ratti effettuata dall’università di Dusseldorf.
Possibile fondere assieme parti di midollo tagliato – Vietato dalla legge, impossibile e fantascientifico per numerosi medici, il trapianto di testa torna dunque a far discutere, dividendo il mondo scientifico. Lo studio, sostiene Canavero, “dimostra come sia possibile fondere assieme i due monconi di midollo spinale tagliato chirurgicamente e come siano infondate le attuali conoscenze neurologiche sulle vie di trasmissione degli impulsi motori”. Il tutto grazie a speciali materiali chimici, chiamati fusogeni o sigillanti di membrana la cui efficacia, sostiene sempre Canavero, è stata dimostrata dalla sperimentazione sui ratti del Centro Medico dell’università Heinrich-Heine di Dusseldorf, in Germania.
Basterebbe un fusogeno per saldare midollo lesionato – Questo lavoro, secondo il medico torinese, avrebbe dimostrato che “iniettando un fusogeno fra i due monconi in cui era stato tagliato il midollo spinale – spiega – i ratti hanno recuperato pienamente l’uso degli arti”. Fantascienza per chi già lo scorso anno contestò le tesi del neurochirurgo sabaudo evocando un’immagine della medicina estrema come quella di Frankenstein e ricordando il divieto per legge, in Italia, di trapiantare cervello e organi genitali.
Spetta alla società stabilire se utilizzarlo o meno – Qualcosa di inverosimile dal punto di vista tecnico-scientifico e non plausibile dal punto di vista biologico, secondo la scienza tradizionale, anche se per la rivista che ha pubblicato lo studio Heaven/Gemini – questo il nome del progetto – “non sarà impossibile ancora a lungo”. “Fantascienza è soltanto l’incompetenza di chi parla senza conoscere la materia”, ribadisce Canavero, che non entra nel merito dei risvolti etici della sua scoperta, o presunta tale. “Io sono soltanto uno strumento – è la sua posizione – spetta alla società stabilire se utilizzarlo o meno. Credo, però, che i tanti Welby che ci sono in Italia, e non solo, potrebbero avere prospettive ben diverse da quelle di chi cerca l’eutanasia a tutti i costi”.
Viale: “Non si mescoli follia con eutanasia” – Dura la replica di Silvio Viale, presidente del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e ginecologo capofila nell’uso della pillola Ru486. “Un Frankenstein senza testa – scrive su Twitter – gioca al trapianto di cervello. Canavero non mescoli la sua follia con eutanasia, Eluana e Welby. Cose serie”.

Virus Ebola: l’origine, i sintomi e le cose da sapere

Virus Ebola: l’origine, i sintomi e le cose da sapere

L’infezione continua a diffondersi in Africa e fa temere che possa arrivare anche in Europa. Ma come si diffonde? E ci sono davvero rischi anche per l’Italia?

Yahoo NotizieScritto da Andrea Signorelli | Yahoo Notizie – ven 1 ago 2014

Il virus Ebola (LaPresse)Il virus Ebola (LaPresse)L’epidemia di Ebola che ha colpito nuovamente l’Africa e che sta causando numerose vittime preoccupa sempre di più anche in Europa e negli Stati Uniti. A maggior ragione dopo la morte di due cittadini americani, che si trovavano in Liberia per lavorare con una ong. Proprio situazioni di questo tipo non fanno che aumentare l’allarmismo, visto che si teme che persone infette possano raggiungere altri continenti via aereo e portare anche da noi il temibile virus. E il fatto che la Liberia abbia deciso di chiudere le frontiere fa pensare che il pericolo non sia del tutto inventato. È da segnalare però come il ministero della Salute abbia escluso rischi per l’Italia, anche se, ovviamente, non è impossibile che un caso giunga in Europa.

Ma che cos’è e come si diffonde il virus Ebola? Precedentemente nota come febbre emoraggica, si tratta di una infenzione che nella maggior parte dei casi, circa il 90%, diventa fatale. L’Ebola colpisce principalmente i villaggi più remoti dell’Africa occidentale e centrale, soprattutto quelli che si trovano vicini alle foreste tropicali; mentre è molto più difficile che colpisca i grandi centri abitati, ragione per cui la sua diffusione, fino a questo momento, è sempre stata abbastanza limitata.

Il virus dell’Ebola si trasmette agli umani attraverso il contagio da animali selvaggi, per poi diffondersi attraverso una trasmissione da uomo a uomo, causata da un contatto ravvicinato con il sangue o altri fluidi corporei di persone infette. L’ospite naturale dell’Ebola è considerato essere la volpe volante, anche nota come pipistrello della frutta, ma la diffusione del virus è stata documentata anche attraverso scimpanzè, gorilla e primati in generale.

Nella diffusione da uomo a uomo hanno invece giocato un ruolo importante le cerimonie funebri, in cui i partecipanti al funerale si sono trovati a contatto troppo ravvicinato con il defunto. Anche le persone che lavorano nel campo della sanità sono ad alto rischio, per il fatto di trovarsi necessariamente a stretto contatto con persone infette, spesso – nelle prime fasi della cura – senza adeguate protezioni. È importante anche sapere che le persone che sono guarite dal virus possono continuare a trasmetterlo attraverso i fluidi corporei per un tempo anche di sette settimane successive alla guarigione.

La prima comparsa del virus Ebola è del 1976, quando colpì a Nzara (Sudan) e a Yambuku (Repubblica democratica del Congo). Quest’ultimo villaggio si trovava vicino al fiume Ebola, da cui la malattia ha preso il suo nome. I sintomi del virus Ebola sono numerosi e possono facilmente essere inizialmente confusi per qualche banale altro virus che causi febbre o diarrea. I primi segnali sono infatti febbre alta e improvvisa, debolezza molto forte, dolori muscolari, mal di testa e mal di gola. Quando la situazione si aggrava, compaiono anche vomito, diarrea forte, insufficienza renale ed epatica, fino ad arrivare a emorragie interne ed esterne.

Il periodo di incubazione dopo la comparsa del virus è molto bassa, può andare dai due ai 20 giorni. Durante il periodo dell’incubazione il paziente non è contagioso, lo diventa solo quando comincia a manifestare i sintomi. Paradossalmente, il virus Ebola non è particolarmente resistente, viene ucciso anche solo con il sapone o la candeggina. In generale sopravvive solo per brevissimo tempo se esposto al sole o su superifici secche.

Uno dei problemi più gravi nel trattamento del virus Ebola è che non esistono trattamenti specifici per curare la malattia, così come non esiste nessun vaccino autorizzato (anche se ce ne sono parecchi in fase di spermentazione). Le persone che vengono colpite dall’Ebola vengono solitamente messe in terapia intensiva e trattati con liquidi immessi nel corpo per via endovenosa per colpire la grave disidratazione che li colpisce. La reidratazione avviene anche per via orale attraverso soluzioni contenenti elettroliti.

Per prevenire l’infezione da virus Ebola, se ci si trova in zone a rischio, è necessario evitare il contatto con animali morti che potrebbero esserne portatori (primati, scimmie, volpi volanti) e cuocere adeguatamente tutti i cibi prima di mangiarli. Se si deve fare visita a persone infette, indossare sempre guanti e mascherina e lavarsi immediatamente le mani dopo la visita. Sono da ritenersi infondate le voci secondo cui ci sono cibi in grado di prevenire l’infezione, l’unico modo di evitarla – se ci si trova in zone a rischio – è quello di prendere tutte le precauzioni del caso.

Fino a oggi, il virus Ebola ha sempre e solo colpito in Africa, causando negli ultimi quarant’anni centinaia di morti (oltre 200 solo nel ’76 e e di nuovo nel ’95 e nel 2000). Le nazioni che sono state colpite con maggiore frequenza sono il Congo, il Sudan, il Gabon, l’Uganda.

Costruiti gli spermatozoi robot utili per la fecondazione assistita

Costruiti gli spermatozoi robot utili per la fecondazione assistita

Non potrebbero avere compito più adatto dell’essere di aiuto nella fecondazione artificiale, i primi spermatozoi robot mai costruiti. Ma questi microrobot in grado di viaggiare nell’organismo umano guidati da un campo magnetico potranno essere utili anche per molti altri compiti, come somministrare farmaci o aiutare i biologi a smistare le cellule. Si chiamano “MagnetoSpermatozoi”, hanno una testa di silicio incapsulata in un ‘casco’ di cobalto e nichel e la coda libera di muoversi. Descritti sulla rivista Applied Physics Letter, sono nati dalla collaborazione fra l’università olandese di Twente e l’Università Tedesca de Il Cairo.
Spermatozoi robot sono controllati dai campi magnetici  – Lunghi 322 millesimi di millimetro (micron), gli spermatozoi robot sono controllati da debolissimi campi magnetici dall’intensità di circa cinque millitesla, all’incirca quella di uno dei magneti decorativi che si attaccano sul frigorifero. Per effetto dal campo magnetico la testa gira su stessa, imprimendo un movimento di torsione alla coda, che di conseguenza comincia ad oscillare. In questo modo i ricercatori riescono a guidare l’automa-spermatozoo con precisione e in modo del tutto controllato, fino a un obiettivo prefissato.
MagnetoSpermatozoi di ispirano alla natura – ”I nostri microrobot si ispirano alla natura, che ha progettato strumenti di locomozione molto efficienti nella micro-scala”, ha detto il responsabile scientifico della ricerca, Sarthak Misra, dell’Università di Twente. Tuttavia, ”i MagnetoSpermatozoi possono anche essere utilizzati per manipolare e assemblare oggetti microscopici”, ha aggiunto Islam Khalil, dell’Università Tedesca del Cairo.
Robot potranno essere usati per altri importanti compiti – Non si esclude, per esempio, che un giorno gli spermatozoi robot possano essere introdotti all’interno delle arterie per liberarle dai trombi che ostacolano il regolare flusso del sangue. Sempre guidati da debolissimi campi magnetici, potranno portare all’interno dell’organismo farmaci da ‘recapitare’ con precisione, o rendere più semplici gli interventi di fecondazione assistita. Nel frattempo i ricercatori sono al lavoro sugli sviluppi futuri del programma e il prossimo obiettivo è rendere i MagnetoSpermatozoi ancora più piccoli, con una coda fatta di nanofibre magnetiche.
03 giugno 2014

La Terra è più antica del previsto: ha 60 milioni di anni in più

La Terra è più antica del previsto: ha 60 milioni di anni in più

La Terra è più antica di quanto si è creduto finora: ha 60 milioni di anni in più, vale a dire che si è formata quando il Sole aveva solo 40 milioni di anni e non 100, come finora ipotizzato. A ricalcolare l’età del nostro pianeta sono Guillaume Avice e Bernard Marty, dell’università francese di Lorraine, a Nancy, che hanno presentato la ricerca alla conferenza Goldschmidt di geochimica in corso in California, a Sacramento.
A rivelare l’età della Terra sono state le ‘firme del tempo’, ossia i cambiamenti nelle proporzioni dei diversi gas che sopravvivono dai tempi della Terra primordiale. Avice e Marty hanno analizzato in particolare il gas xeno incastonato in dei quarzi presenti in Sudafrica e in Australia, che erano stati datati, rispettivamente, 3,4 e 2,7 miliardi di anni. Il gas sigillato in questi quarzi si è conservato come in una ‘capsula del tempo’, permettendo così ai ricercatori di confrontare quei valori antichi dello xeno con quelli attuali. Questa è stata la base per ricalibrare la tecnica di datazione in modo da risalire all’epoca in cui la Terra era giovanissima.
”Non è possibile avere un’idea esatta della formazione della Terra. Tutto quella che la nostra ricerca è in grado di indicare – rileva Avice – è mostrare che la Terra è più anziana di quanto si pensasse di circa 60 milioni di anni”. I dati basati sulle misure degli isotopi dello xeno permettono infatti di risalire a quello che è considerato l’evento più drammatico nella storia della Terra, ossia l’impatto con il pianeta grande all’incirca come Marte, chiamato Teia, che ha portato alla formazione della Luna. Ciò che emerge è che l’impatto è avvenuto circa 60 milioni anni prima del previsto.
12 giugno 2014

BISFENOLO A: DOVE SI TROVA, COS’È E PERCHÉ È PERICOLOSO

BISFENOLO A: DOVE SI TROVA, COS’È E PERCHÉ È PERICOLOSO

 

di Gianluca Rini

 

Il bisfenolo A è un materiale che viene utilizzato soprattutto per la produzione di materie plastiche. Si tratta di una sostanza pericolosa, perché si configura a tutti gli effetti come un interferente endocrino, in grado di alterare il funzionamento consueto del sistema ormonale. Secondo alcuni studi, potrebbe indurre anche alla comparsa di cellule cancerogene. La maggiore esposizione a questo materiale avviene attraverso le bottiglie di plastica, le quali contengono proprio il bisfenolo.

Cos’è

Il bisfenolo A è un composto organico, il cui nome tecnico è 2,2-bis(4-idrossifenil)propano. Questo composto viene usato soprattutto nella sintesi di materie plastiche e di additivi plastici. Si rivela fondamentale nella produzione di resine epossidiche e nel policarbonato. Per la salute umana è dannoso, se assunto in dosi notevoli rispetto al peso corporeo, perché interviene sul sistema endocrino e sul sistema nervoso, comportandosi come un estrogeno. Da notare che il BPA può essere rilasciato anche dal policarbonato o da resine epossidiche in presenza di calore o di liquidi acidi.

Dove si trova

Il bisfenolo A si può trovare in tutte le materie plastiche. Comunemente lo ritroviamo nelle bottiglie di plastica e nei biberon, ma anche nel rivestimento di diversi prodotti alimentari, che vengono contenuti all’interno di strutture di alluminio, al pari delle lattine per le bibite. I risultati di numerose ricerche in questo senso mettono in evidenza che specialmente i bambini che mangiano più porzioni al giorno di cibi in scatola dovrebbero essere oggetto di attenzione, perché finiscono con l’assorbire una dose massiccia di questa sostanza. Anche l’Unione dei Consumatori si è occupata della questione, rintracciando disfunzioni ormonali, danni all’apparato cardiovascolare e diabete. In certi casi viene usato come antiossidante nei plastificanti, anche se nei vari Paesi ci sono delle disposizioni molto differenti, soprattutto sui livelli che la legge stabilisce che non si dovrebbero superare.

Perché è pericoloso

Diversi studi effettuati sul bisfenolo A, come, per esempio, una ricerca della Duke University, hanno messo in evidenza che il composto avrebbe un ruolo non secondario nello sviluppo del tumore al seno e nella sua resistenza alla chemioterapia. I ricercatori hanno sottolineato che non soltanto il BPA potrebbe rappresentare uno dei fattori di rischio per la comparsa del cancro, ma interverrebbe anche sull’azione svolta dai farmaci, rendendoli inutili a mettere in atto una terapia efficace, permettendo alle cellule malate di svilupparsi. La sostanza in questione interviene sul sistema nervoso, potrebbe provocare lo sviluppo del diabete ed interferisce con il funzionamento normale del sistema ormonale. In particolare questo composto potrebbe danneggiare il processo di segnalazione cellulare, perché, quando viene assorbito dal nostro organismo, tende a disattivare alcuni enzimi, che hanno un ruolo chiave nel controllare e raccogliere tutti i segnali cellulari. Il risultato è quello di un’accelerazione del processo di produzione delle cellule, che potrebbe evolvere proprio nello sviluppo di un tumore.

Fotografata per la prima volta l’onda azzurra della morte

Fotografata per la prima volta l’onda azzurra della morte

Al momento della morte una onda di luce fluorescente azzurra si sprigiona dalla cellule e, da una cellula all’altra, si propaga nell’intero organismo: lo ha scoperto una ricerca internazionale che per la prima volta ha fotografato ”l’onda della morte”. Descritta sulla rivista PLoS Biology, l’onda azzurra della morte è stata fotografata in un organismo semplice, come un minuscolo verme, dal gruppo coordinato dal britannico University College London.
E’ un passo importante per comprendere come la morte cellulare si diffonda in tutto il corpo, anche nel caso di organismi complessi come l’uomo, dal momento che i meccanismi cellulari nei mammiferi sono simili a quelli dei vermi. La scommessa di questa ricerca, ha detto il coordinatore del lavoro, David Gems, è indentificare i geni che controllano l’invecchiamento e le malattie collegate.
Quando le singole cellule muoiono si innesca una reazione chimica a catena che porta alla rottura dei componenti cellulari e a un accumulo di detriti molecolari. Ma se queste reazioni sono ben comprese a livello cellulare, si sa molto poco invece, su come la morte raggiunge tutte le cellule dell’organismo. Il sopraggiungere della morte è stato osservato al microscopio in uno degli organismi più semplici e studiati nei laboratori di biologia e genetica: il minuscolo verme Caenorhabditis elegans. La morte appare come un’onda fluorescente azzurra che si diffonde in tutte le cellule. Un effetto, questo, che dipende da una sostanza chiamata acido antranilico e la sua diffusione avviene tramite il calcio, che agisce come un messaggero di cellula in cellula.
Inizialmente si sospettava che la fonte della fluorescenza blu fosse una sostanza chiamata lipofuscina, che emette luce di un colore simile ed è anch’essa collegata all’invecchiamento perché si accumula con l’età, causando danni molecolari. Ma poi è stato osservato che la lipofuscina non è coinvolta. I ricercatori hanno anche provato a bloccare il percorso chimico che propaga la morte cellulare, ma sono riusciti a ritardare solo la morte indotta da uno stress come un’infezione e non la morte per vecchiaia.
Ciò suggerisce che la morte dovuta a un’infezione è più facile da rallentare perché è innescata da un numero minore di processi, mentre la morte dovuta all’invecchiamento è più difficile da ritardare perché entrano in gioco numerosi processi che agiscono in parallelo e che sono più difficili da contrastare. ”Dobbiamo concentrarci sugli eventi biologici che si verificano durante l’invecchiamento e la morte – ha concluso Gems – per comprendere correttamente come interromperli”.

GRAVIDANZA: LE DIECI REGOLE DA SEGUIRE PER ANDARE IN SPIAGGIA

GRAVIDANZA: LE DIECI REGOLE DA SEGUIRE PER ANDARE IN SPIAGGIA

 

di Claudio Schirru

 

Il mare anche in gravidanza. Le future mamme possono godersi il mare e la spiaggia al pari delle altre donne secondo Nicola Surico, presidente della SIGO (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia). L’importante è attenersi in maniera scrupolosa ad alcune indicazioni e avvertenze.

Secondo il decalogo SIGO particolare attenzione deve essere prestata per l’alimentazione, l’igiene e gli eventuali sbalzi di pressione. Opportuno per le donne in gravidanza non sedersi mai sulla battigia, sulla spiaggia o sul lettino senza avervi posto in precedenza un telo da mare, che deve essere personale.

Ecco le 10 regole SIGO per le future mamme, indicate per trascorrere una giornata al mare senza rischi:

1. Evitare l’esposizione al sole nelle ore più calde della giornata, comprese tra le 11 e le 16;

2. Spalmare sul viso una crema del giusto livello di protezione, per evitare la formazione di macchie sulla pelle, destinate poi a rimanere;

3. Idratare il proprio organismo bevendo circa 2 litri d’acqua ogni giorno;

4. Evitare le bevande alcoliche, anche il semplice aperitivo;

5. A tavola non consumare pesce o frutti di mare crudi per non correre il rischio di epatiti;

6. Il nuoto può essere un buon modo per mantenere attiva la circolazione sanguigna degli arti inferiori;

7. Non sovraccarica lo stomaco con pasti molto pesanti o difficili da digerire. Preferire un’alimentazione leggera divisa in molteplici momenti della giornata. Opportuno consumare soprattutto frutta e verdura, evitando però quei frutti troppo zuccherini come ananas e fichi;

8. Considerate il mal di testa come un campanello d’allarme e allontanarsi quanto prima dalla spiaggia, potrebbe trattarsi di un effetto dell’eccessiva esposizione solare;

9. Attenzione anche a possibili cali di pressione, provocabili anche come conseguenza dell’esposizione solare;

 

10. Stendere sempre un asciugamano personale sulla sabbia o sulla lettino/sdraio prima di poggiarsi, onde evitare infezioni.