Le leggende del volo: dai fratelli Lumière ai velivoli civili

Le leggende del volo: dai fratelli Lumière ai velivoli civili


Amelia Earhart

Amelia Earhart, la prima pilota donna ad attraversare l’Atlantico

Da sempre la conquista dell’ariaha rappresentato per l’uomo una sfida tanto audace quanto affascinante; l’incapacità di volare è sempre stata un cruccio della specie umana, che volendo sfidare la natura ed essendo impossibilitata a librarsi in aria come i volatili, ha cercato di sfidare le leggi gravitazionali con l’ausilio di mezzi meccanici.

Il desiderio di volare ha radici molto antiche e profonde, una grande quantità di miti e leggende si legano proprio a questo argomento, basti pensare al mito di Icaro, che per cercare di scappare dal labirinto del Minotauro, si fece costruire un paio di ali di cera, ma preso dall’ebbrezza del volo, si avvicinò troppo al sole facendo sciogliere le ali.

Oggi grazie alle nuove tecnologie, e alle scoperte effettuate, l’uomo è in grado di arrivare fino ai confini della stratosfera con una semplice capsula e una tuta (come ha fatto l’austriaco Felix Baumgartner di recente) o semplicemente volare comodamente su un aereo sospesi a più di 10.000 metri di altezza.

Anche grazie alla televisione e al cinema è possibile andare alla scoperta dei cieli e vivere l’ebbrezza del volo: attraverso i documentari ciò è ancor più emozionante e realistico. Una delle ultime uscite che possono essere utili in questo senso, è Leggende del Volo 3D, un documentario in 3D appunto, uscito lo scorso 24 ottobre e distribuito da Universal Pictures, che ripercorrendo cento anni di storia dell’aviazione, vi farà anche scoprire le più importanti scoperte e tecnologie, le avventure e gli sbagli dell’aviazione dagli albori a oggi.

Nel 1783 il francese Jean-François Pilatre de Rozier fu il protagonista del primo volo umano della storia; il 21 novembre 1783, viaggiò per ben 12 chilometri per un volo complessivo di 25 minuti a bordo di un pallone ad aria calda, raggiungendo un’altezza di 1000 metri.

Nel 1785, sempre un francese, Jean-Pierre Blanchard, trasvolò per la prima volta il canale della Manica in compagnia dell’americano John Jeffries. Blanchard è considerato un vero pioniere in quanto eseguì la prima ascensione in pallone del Nord America, partendo da Philadelfia. Purtroppo però la sua passione per il volo gli costò la vita: nel 1808 cadde dal suo pallone durante un volo in Olanda, rimase ferito e morì poco tempo dopo nella sua Parigi.

La storia dell’aviazione moderna si può dire che sia iniziata grazie a due fratelli statunitensi:Wilbur e Orville Wright, due ingegneri e inventori, considerati i primi ad aver fatto volare con successo una macchina motorizzata più pesante dell’aria con una persona a bordo (era il 1903). Un anno più tardi, fu l’Italiano Aldo Corazza a eseguire un’operazione del genere.

Nel 1909, avvenne un evento molto importante per l’aviazione mondiale: Louis Blériotpilotò per la prima volta un monoplano attraverso il Canale de La Manica, impiegando in totale 36 minuti e viaggiando a 64 km/h.

Tra i pionieri dell’aria, figura anche una donna: Amelia Earhart, nel 1929 fu la prima donna ad attraversare l’Atlantico, a bordo di un velivolo chiamato “Friendship” (amicizia). Qualche anno più tardi, nel 1931, stabilì il record mondiale di altitudine, raggiungendo i 5.613 metri di altezza in volo.

Nel 1927 l’aviatore americano Charles Lindbergh, compì la prima traversata aerea dell’Oceano Atlantico in solitario e senza effettuare scali. Partì alle 7.52 del 20 maggio da New York e arrivò a Parigi il giorno seguente alle ore 22.00, dopo 38 ore e 8 minuti di volo. Grazie a questa impresa, entrò per sempre nella storia dell’aviazione mondiale ricevendo riconoscimenti a livello internazione, compresa la Legion D’Onore concessagli dal governo francese. Lindbergh non è solo famoso per questa grande impresa; purtroppo viene ricordato anche per il rapimento e uccisione del figlio Charles, che fu tra i primi casi di rapimento minorile a ottenere risonanza internazionale.

Ma una delle personalità che si ricordano più facilmente, anche grazie all’apporto del cinema contemporaneo che qualche anno fa gli ha dedicato un film con Leonardo Di Caprio, èHoward Hughes, che fu un imprenditore, regista, produttore cinematografico e aviatore americano, famoso per aver ideato, progettato e costruito diversi aeroplani importanti. Fu uno degli uomini più ricchi e potenti dell’America degli anni ’30 e 40, tanto da avere la fortuna di stringere legami amorosi con importanti e bellissime attrici come Bette Davis, Ava Gardner e Katharine Hepburn.

Il vero punto di svolta si ebbe dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’aviazione cambiò radicalmente da bellica a civile, fino a diventare il mezzo di locomozione più usato nel mondo e tra il più sicuro
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Londra 2012 Paralimpiadi – L’ultima grande impresa di Alex Zanardi


Londra 2012 Paralimpiadi – L’ultima grande impresa di Alex Zanardi

Il bi-campione olimpico di handbike ha trascinato al traguardo della Venice Marathon un compagno di gara tetraplegico: qualcosa di semplicemente straordinario anche per le condizioni meteo ai limiti dell’impossibile

 

Alex Zanardi non finisce più di stupire. Questa volta, l’ex pilota di Formula 1 non fa notizia per un successo, per un oro o per un record del mondo infranto. Domenica, infatti, il bi-campione olimpico di handbike non ha vinto la 27esima edizione della Venice Marathon. Ma, senza dubbio, si è reso protagonista di un’impresa ancora più grande. In condizioni meteorologiche al limite per la forte pioggia e il vento, Zanardi è riuscito ancora una volta a stupire.

L’impresa è di quelle epiche. Qualche mese fa Zanardi aveva conosciuto Eric Fontanari, un diciassettenne rimasto tetraplegico dopo un incidente domestico. Il sogno del ragazzo era quello di partecipare alla maratona di Venezia e dopo averlo confessato al campione olimpico si sono decisi a provare l’impresa. Con una handike costruita appositamente (una versione modificata di quella utilizzata l’anno scorso per arrivare al traguardo con il malato di SLA Francesco Canali), Zanardi è riuscito a sospingere Fontanari sino al chilometro 25. Quando però l’olimpionico si è accorto delle difficoltà del compagno.

Il primo pensiero è stato quello di abbandonare la gara, visti i problemi fisici di Fontanari. Ma, poi, è arrivata l’idea geniale. “E’ stata un’avventura pazzesca – ha confessato Zanardi una volta giunto al traguardo -. Eric ha iniziato a patire il freddo con degli spasmi muscolari e non riusciva più a tenere la sua handbike che piegava tutta a sinistra. A quel punto ho capito che era troppo rischioso arrivare in queste condizioni a Venezia per cui, memore dell’esperienza dello scorso anno con Francesco Canali, ho deciso di sganciare la ruota anteriore di Eric e agganciare il suo mezzo al mio con una corda trovata quasi per caso sul percorso. Da un bidone della spazzatura è spuntata una corda. Abbiamo smontato la ruota anteriore della carrozzina di Eric, l’ho legato dietro a me e siamo ripartiti. Sembravamo l’A-Team”.

Un atto di generosità incredibile, concluso degnamente. “Siamo ripartiti – prosegue Zanardi -, quando sul Ponte della Libertà iniziava a scendere una pioggia battente e tirava un vento fortissimo. Ma il bello doveva ancora venire: qualche chilometro dopo, infatti, mi si rompeva la guaina del cambio e tutto ciò mi ha costretto ad utilizzare un rapporto durissimo e fare una fatica incredibile. Poi, miracolosamente, ho trovato un nastro e ho ‘steccato’ la guaina rotta attorno al freno. In questo modo sono riuscito a cambiare di nuovo e rendere quindi più facile la mia pedalata. Inoltre, ero troppo incitato da Eric che dietro di me urlava ‘vai trattore che ce la facciamo, arriviamo al traguardo!’. Iniziavano così i 13 ponti di Venezia, dove io facevo fatica a tenere l’handbike perché la ruota anteriore slittava, visto che tutto il peso era sbilanciato all’indietro. Avevamo il pubblico e i volontari ad aiutarci, e sapevamo che il traguardo era vicino e non potevamo mai mollare in quel momento”.

Non è mancato un finale palpitante: “Dopo l’ultimo ponte mi sono fermato per attendere l’accompagnatore in bicicletta che avrebbe dovuto portarmi la ruota anteriore dell’handbike di Eric, perché volevo fosse lui a transitare per primo sul traguardo. Purtroppo, l’accompagnatore non è mai arrivato, forse fermato dagli addetti alla sicurezza, e così ho deciso di trainare Eric fino a 1 centimetro dall’arrivo, sono sceso dalla mia handbike e, come già fatto lo scorso anno con Francesco, ho fatto in modo che fosse il suo corpo a transitare per primo sotto la linea di arrivo. Adesso, con il senno di poi, dico che è stata durissima ma anche stavolta un’emozione incredibile: non potevo arrendermi, perché Eric ci ha creduto dal primo all’ultimo metro. Mi complimento anche con Fabio Marzocchi, l’altro ragazzo con noi in gara nel progetto Bimbingamba Sport che ci ha staccati al 25 km per portare a termine la sua gara con facilità”. L’ennesimo atto d’eroismo di un campione senza fine.

 

 

 


Foto famose: la linguaccia di Albert Einstein

Foto famose: la linguaccia di Albert Einstein

 

 

La stampa della famosa foto di Einstein, autografata dallo scienziato (AP)

1951, Albert Einstein festeggia i suoi 72 anni e al termine della festa si rifiuta di mettersi in posa per la foto ricordo davanti ai fotografi, sbeffeggiandoli con una linguaccia. Il fotografo Arthur Sasse riesce però a immortalare la buffa espressione dello scienziato premio Nobel e la foto passa alla storia. Questa è la storia dell’immagine più famosa del fisico, diventata iconica e rappresentativa di uno dei geni (per alcuni il più grande) del secolo scorso. Pare poi che Einstein, entusiasta dello scatto, si fece fare nove copie da spedire come cartolina-regalo ai suoi amici. Mentre l’originale è stato venduto all’asta anni dopo per la modica cifra di $72.300.

La domanda nasce quindi spontanea: come mai proprio questa foto è diventata tanto celeberrima? I motivi sono diversi. Intanto è entrata a pieno titolo nella cultura pop e ha contribuito alla popolarità di Einstein. All’epoca era infatti già famoso, ma non così popolare. Questo scatto ha in qualche modo avvicinato la scienza alle persone comuni: Einstein ha un’espressione buffa, fa un gesto impertinente, fuori dalla convenzionalità. È un’immagine che lo rende simpatico e divertente e fa sì che la sua buffa figura di uomo anziano con i capelli lunghi e spettinati e dall’aria trasandata diventi amabile e non ridicola. Nell’immaginario collettivo il nome di Einstein è sinonimo di genialità, siamo d’accordo. Ma se pensate a un’immagine del premio Nobel, quale vi viene in mente? Probabilmente la foto di Sasse. Basti pensare alla diffusione che ha avuto negli ultimi decenni. Ancora oggi viene riprodotta su poster, cartoline, t-shirt; è stata protagonista di pubblicità (dove i sosia di Einstein si sprecano) ed è il primo risultato di Google se si cerca una foto qualsiasi dello scienziato.

C’è poi il soggetto, che rende unica la foto. Albert Einstein è di certo uno di quei personaggi diventati leggenda. E non solo per il contributo dato all’umanità e la rivoluzione scientifica che apportò, ma anche per l’approccio alla vita e la sua aurea di eccentrico candore. Un luogo comune molto diffuso è quello che vorrebbe Einstein bocciato almeno un paio di volte nel corso degli studi. Il che non è del tutto corretto (non venne ammesso al Politecnico di Zurigo per insufficienza nelle materie letterarie), ma ha contribuito nel tempo a renderlo una persona comune e un uomo di innegabile simpatia.

Foto famose: Che Guevara, Guerrillero Heroico e La passione del Che

Foto famose: Che Guevara, Guerrillero Heroico e La passione del Che

 

Havana, CubaSono passati 45 anni dalla morte di Ernesto Che Guevara: il 9 ottobre del 1967 viene ucciso a La Higuera, in Bolivia. Era da tempo ricercato dalla CIA, che riesce a tendergli un’imboscata grazie alla missione guidata dall’agente infiltrato Félix Rodriguez: il comandante viene catturato e fatto prigioniero l’8 ottobre insieme ad altri guerriglieri fuggitivi come lui. Si arrende dopo essere stato ferito alla gamba e viene rinchiuso in una piccola scuola pubblica del villaggio senza cure mediche fino al giorno successivo. C’è bisogno di temporeggiare: i generali delle forze armate e i consiglieri della Cia devono decidere il da farsi e, sebbene l’intenzione iniziale era quella di porlo sotto processo, il timore di una rivolta pubblica prevale e la scelta non può che essere una, l’esecuzione. Per confondere le acque e placare gli animi diffondono un comunicato in cui annunciano la morte del comandante sul campo di battaglia e intanto pensano a come giustiziarlo. Chi premerà il grilletto contro il Che? Il caso vuole che sia Mario Téran, un sergente dell’esercito.

Il corpo senza vita di Che GuevaraLe versioni a questo punto sono molteplici: Teran si deve ubriacare per poter premere il grilletto, si rifiuta di assumersi l’incarico per poi essere trascinato dai compagni davanti al condannato, sbaglia mira e lo colpisce alla gola per timore di guardarlo negli occhi. Quel che è certo è che la sua non fu un’azione fredda e istantanea, tanto che viene incitato dallo stesso Guevara: “So che sei qui per uccidermi. Spara, dunque, codardo, stai solo uccidendo un uomo”. Ma il colpo letale arriva da Rodriguez, diretto al cuore. Il suo corpo viene in seguito trasportato a Vallegrande, adagiato su un letto di ospedale e mostrato alla stampa: il simbolo della rivoluzione cubana era morto e il suo cadavere veniva mostrato al mondo. Da qui le immagini si diffusero fino a creare la leggenda di San Ernesto de la Higuera e El Cristo de Vallegrande. In pochi sanno che dopo quegli scatti gli amputarono le mani per rilevare le impronte digitali e assicurarsi che fosse lui, Ernesto Guevara de la Serna, detto Che Guevara.

L’Avana, Cuba
– È il 5 marzo del 1960 e Fidel Castro indice una commemorazione per le vittime delle due esplosioni che il giorno prima avevano distrutto la La Coubre, una nave mercantile francese: 81 morti e oltre duecento feriti era stato il bilancio. Il Líder máximo era convinto che la Cia fosse responsabile dell’attentato e le commemorazioni avevano carattere ufficiale: vi prese parte anche Che Guevara, che all’epoca era Ministro dell’Industria del governo cubano. Ed è qui che nasce una delle foto più famose del mondo, riprodotta su manifesti, bandiere e persino magliette, con un processo che, inevitabilmente, ha reso il “Che” anche un’icona pop: è lo scatto del Guerrillero Heroico.

Guerrillero Heroico – Alberto Korda

Alberto Díaz Gutiérrez (più noto come Alberto Korda) era presente in qualità di fotografo ufficiale di Castro. Con la sua Leica, immortalò anche il Che. Per sette anni, la foto non ebbe grande rilievo: ci voleva un italiano, per renderla immortale. Con una metodologia non proprio ortodossa, Giangiacomo Feltrinelli (sì, proprio lui, l’editore milanese) dopo aver ricevuto in regalo due copie dello scatto da Korda – che non pretese alcun compenso – lo utilizzò per la copertina del Diario in Bolivia di Ernesto Guevara. Si trattava dell’ultimo scritto del “Che”, con il racconto dei suoi ultimi mesi di vita sulle montagne boliviane, dove Guevara viene ucciso l’8 ottobre del 1967. Il governo cubano ricevette una copia del diario, che fu pubblicato anche in Francia, in Germania, in Cile, in Messico, negli Stati Uniti e in Italia. Da Feltrinelli, appunto.

Il quale ebbe un’idea: stampare numerosi poster con l’immagine, tappezzando Milano con il volto del Che. In tutto ciò, Korda non ha mai ricevuto alcun compenso né rivendicato i propri diritti per l’immagine. Di Feltrinelli disse: «Lo perdono, perché mi ha reso famoso». Solo una volta, Korda si oppose all’uso del suo scatto: fu quando la Smirnoff, azienda russa, lo utilizzò per pubblicizzare la propria vodka, nel 2000. Korda ottenne 50mila dollari, utilizzati per acquistare medicinali per bambini cubani.

Korda morì l’anno seguente, all’età di 72 anni. Il suo scatto, del Che che osserva la folla col celebre berretto, gli sopravviverà ancora per molto tempo.

Foto famose: la bandiera di Iwo Jima

Foto famose: la bandiera di Iwo Jima

 

 

La bandiera di Iwo Jima (AP)


Sei marines issano la bandiera americana
su un crinale del monte Suribachi a Iwo Jima, in Giappone. È il 23 febbraio 1945 ed è in corso la battaglia di Iwo Jima, una delle più sanguinarie della seconda guerra mondiale. L’autore dello scatto è Joe Rosenthal, che grazie a questa foto vinse il premio Pulitzer. Nemmeno s’era accorto, Rosenthal, di aver scattato la fotografia che sarebbe diventata per gli americani il simbolo stesso della guerra e della vittoria. Sbarcò sull’omonima isola insieme ai 30.000 soldati impiegati per la guerra contro il Giappone (l’isola stessa avrebbe fatto da ponte e luogo strategico per gli attacchi), passata alla storia come una delle più atroci: la stima approssimativa dei morti nella battaglia è di circa 6.800 uomini (solo da parte americana), 40 i carri armati impiegati e 216 i prigionieri.

la foto ‘posata’ con la bandiera più grande (AP)Più volte l’autenticità della foto di Iwo Jima è stata messa in discussione: in molti sostengono che sia stata creata a tavolino mettendo in posa i militari, altri affermano che quando arrivò Joe Rosenthal, la bandiera fosse già issata e il reporter fece rifare la posa con una bandiera più grande, diventata poi la fotografia ufficiale. Per anni, insomma, il fotografo su accusato di aver manipolato l’immagine, ma lui si difese fino alla morte così: “Se ci avessi provato, l’avrei rovinata”. E racconta la dinamica: “All’inizio non volevo neppure salire, perché mi avevano detto che la bandiera a stelle e strisce era stata già alzata. Poi, però, decisi di andare lo stesso. Una volta in cima, vidi con la coda dell’occhio che i marines stavano sostituendo la prima bandiera, giudicata troppo piccola, con una più grande. Puntai la macchina e scattai”.

Al rientro di Rosenthal negli Stati Uniti, la foto era già famosa e molto diffusa. In tempi più recenti basti pensare che ha ispirato il film di Clint Eastwood, Flags of Our Fathers e che venne riprodotta per il Memoriale di Iwo Jima, vicino al cimitero nazionale di Arlington in Virginia.

Ai piedi del surfista uno squalo o un delfino?

Ai piedi del surfista uno squalo o un delfino?

Nel corso della Hurley Pro il surfista californiano Kolohe Andino ha vissuto un brutto quarto d’ora: un grosso animale con pinna è comparso a pochi passi dalal sua tavola mentre il surfista stava cavalcando l’onda

Kolohe Andino, Pro Surfer

Per un surfista, non c’è nulla di peggio che vedere nei pressi della propria tavola, un animale grosso grigio pronto a mandare in fumo tutti gli sforzi dell’atleta. In quel breve istante nel quale il cervello cerca di elaborare le informazioni per cavalcare al meglio l’onda, la vista minacciosa di un pericolo può mandare tutto all’aria.

Martedì nel secondo round dell’Hurley Pro sulla costa di San Diego il surfista californiano Kolohe Andino ha vissuto un momento di panico quando a pochi passi dalla sua tavola da surf ha visto avvicinarsi un grosso cetaceo con pinna.

SQUALO O DELFINO? – Subito le migliaia di persone che stavano assistendo alla gara e i giudici presenti a riva si sono allarmati e si sono subito chiesti se quell’animale con pinna fosse un temibile squalo oppure un più simpatico delfino. Per fortuna tutto è andato per il meglio e Andino è riuscito a completare la propria performance tra gli applausi del pubblico, una esibizione che non gli ha però permesso di passare il taglio delle eliminazioni. Poco male per il surfista che ancora non sa rispondere alla domanda: quello ai piedi della tavola era uno squalo o un delfino?

Piante grasse, le più amate dagli italiani

 
Piante grasse, le più amate dagli italiani
Apertura cactus

Grasse, succulente e cactacee

Che siano gigantesche oppure minuscole attirano subito lo sguardo: slanciate oppure panciute, carnose o spinosissime, nude o lanose, magari ornate da qualche fiore coloratissimo, sono le piante più diffuse nelle case italiane.

Chiamarle piante grasse,o succulente, è molto generico, perché raccoglie famiglie molto diverse tra loro. Si va dalle “pietre vive” (Lithops) alle calancoe (Kalanchoe blossfeldiana), dal fico d’india (Opuntia ficus-indica) ai “cuscini della suocera” (Echinocactutus grusonii). La carnosità dei tessuti è l’unico dato che veramente le accomuna: nei fusti o nelle foglie si raccoglie una riserva d’acqua, necessaria per la sopravvivenza negli ambienti siccitosi.

All’interno di questo vasto gruppo, le Cactacee sono la famiglia che riunisce tutte le succulente a forma di cactus, come Echinocactus, Ferocactus, Notocactus, Echinopsis, Cereus, Mammillaria, ma anche gli Epiphyllum, dalle foglie allungate e sinuose, per citare solo i generi più noti. Di origine messicana o sudamericana, sono fra le piante più facili da mantenere durante tutto l’arco dell’anno e spesso ci ripagano con splendide e relativamente lunghe fioriture.

L’importanza del riposo

Pur essendo tra le piante a più bassa manutenzione del regno vegetale, esistono poche ma indispensabili cure devono essere ben conosciute.

Da fine settembre sino a marzo inoltrato, il loro stato ideale è il riposo vegetativo, durante il quale le funzioni vitali vengono ridotte al minimo. Il luogo ideale per trascorrere questo periodo è un ambiente chiuso, asciutto e non riscaldato, con temperature sempre superiori allo zero, senza alcun apporto d’acqua.

Nelle nostre case, però, spesso vengono mantenute in locali con temperatura compresa fra 12 e 20 °C, entrando, quindi, in una fase di ‘semi-letargo’ e continuando in minima parte a vegetare: in questo caso bisognerà irrigarle moderatamente ogni 20-30 giorni.

Attenzione a freddo e umidità

Le grasse sono più resistenti di quanto comunemente si pensi: anche al Nord possono essere coltivate in piena terra, purché vengano adeguatamente protette durante l’inverno. Alcuni generi, come le opunzie, resistono senza seri danni fino a –20 °C, ma la maggior parte delle succulente e i cactus tollerano rispettivamente minime termiche fino a 0 °C e –2 °C, al di sotto delle quali non c’è speranza di vederle sopravvivere. Benché associate ad ambienti desertici, le Cactacee tollerano bene la salsedine e i venti salmastri, e anzi traggono giovamento dalla vicinanza del mare.

I cactus prosperano felici negli ambienti asciutti e ventosi, come le coste tirreniche e insulari, particolarmente amate dagli echinocactus, le opunzie e i ferocactus.

Viceversa, soffrono molto l’umidità. Il segreto del successo in questo caso è fornire ai cactus un ottimo drenaggio: per esempio coltivandoli su un terreno in leggera pendenza o su un suolo prevalentemente sabbioso e sciolto, situazioni che favoriscono lo scorrimento rapido dell’acqua.

Le cactacee sono invece poco esigenti riguardo al tipo di terreno, anche se conviene migliorare un suolo pesante o argilloso incorporando sabbia e terriccio per renderlo più arioso.

Piante a risparmio idrico

Considerazioni di carattere ecologico, oltre che estetico, rendono i cactus sempre più importanti guardando a un futuro in cui l’acqua diventerà un bene via via più prezioso: la loro carnosità, deriva proprio dalla loro capacità di immagazzinare la poca acqua di cui necessitano per sopravvivere. Per lo stesso motivo, hanno trasformato le loro foglie in spine: soprattutto per diminuire la superficie fogliare esposta al sole e quindi la perdita d’acqua per evaporazione ed essudazione. Le spine, inoltre, schermano i raggi solari mantenendo la pianta relativamente fresca.

Il giusto nutrimento

Poco golose di acqua, le cactacee sono anche poco golose di nutrimento: un moderato apporto di

fertilizzante adatto (con buone percentuali di fosforo, potassio e microelementi) stimola la fioritura, mentre un eccesso di azoto sviluppa la vegetazione a scapito della fioritura un eccesso di concime in generale deforma le piante.

Piccoli segreti di coltivazione

• Le Cactacee e le succulente richiedono molta luce, ma non il pieno sole, tanto che oltre i 35 °C l’attività fotosintetica si blocca. Durante estate è dunque consigliabile collocarle a mezz’ombra, in modo da non esporle a temperature troppo elevate: quelle ottimali sono comprese fra 25 e 32 °C.

• Le succulente di origine sudamericana o messicana in inverno entrano in dormienza e vanno conservate fra 0 e 15 °C senza bagnarle, mentre quelle sudafricane hanno il ciclo biologico invertito rispetto al nostro emisfero: riprendono a vegetare in autunno (come la calancoe e alcune euforbie) e vivono bene in una serra calda a 15-18 °C (in casa c’è troppo calore e poca luce).

• La maggioranza delle Cactacee e succulente in genere resiste bene in esterno fino ai primi freddi invernali, quando vanno spostate in serra fredda. L’apporto idrico va ridotto man mano che il freddo aumenta: con terriccio umido, il gelo farà molti danni, mentre all’asciutto la pianta tollera fino a –2 °C.

L’eruzione solare e la stupenda aurora boreale del 31 agosto

L’eruzione solare e la stupenda aurora boreale del 31 agosto

 

La dimensone dell’eruzione solare e la Terra a confrotnoIl Solar Dynamics Observatory (SDO) della Nasa ha ripreso un’enorme eruzione solare avvenuta sulla superficie del Sole il 31 agosto da mezzogiorno alle 01:45 del mattino successivo. L’esplosione e il successivo collasso hanno scagliato sulla Terra uno sciame di particelle che ha generato una tempesta geomagnetica, arrivata sul nostro pianeta il 3 settembre sotto forma di aurora boreale.  Il lungo filamento di materiale solare che è stato lanciato nell’atmosfera solare, la corona, è esplosa nello spazio alle 4:36 pm. L’espulsione di massa coronale, o CME, ha viaggiato a più di 900 chilometri al secondo entrando in contatto solo marginalmente con la magnetosfera della Terra e dando vita così a uno dei fenomeni più rari (e quindi più attesi dai fotografi), l’aurora boreale.

L’aurora boreale generata dal vento solareApparsa nella notte di lunedi 3 settembre a Whitehorse, nello Yukon, è stata prontamente immortalata da David Cartier per conto dell’agenzia spaziale americana: il cielo notturno ha mostrato un’aurora boreale con colori sgargianti e tutte le sfumature del verde e del rosa, in un contesto così suggestivo da sempre quasi irreale. Quindi niente panico: gli effetti per la Terra sono stati di intensità “poco grave e moderata”. L’immagine dell’eruzione solare non è il solo materiale che l’agenzia spaziale americana ha pubblicato in relazione al fenomeno: utilizzando quattro frequenze diverse di ultravioletto, la Nasa ha pubblicato  anche un montaggio di quattro immagini diverse del fenomeno solare, tutte ad alta definizione.

La foto che ha commosso il mondo

La foto su Facebook che emoziona il mondo: il padrone cura l’artrite del cane in acqua

Lo scatto che ritrae un uomo e il suo amico a quattro zampe in un lago fa furore sul social network

 

Milioni di persone si sono emozionate alla vista della foto scattata e postata su Facebook dalla fotografa Hannah Stonehouse Hudson, che ritrae un cane di 19 anni, affetto da artrite, fare il bagno nel Lake Superior, nel Nord America, con il suo padrone, John. Ogni sera Schoep, questo il nome dell’animale, si addormenta così, perché l’acqua, tanto più quando è calda, lenisce il dolore. Una storia commovente, che corona un lungo rapporto tra padrone e animale: John Unger ha accolto il cane da cucciolo, quando aveva 8 mesi. Sono trascorsi 19 anni in cui hanno condiviso tutto. La foto, postata su Facebook la scorsa settimana, è stata vista 2 milioni di volte, e ha ricevuto più di 200.000 “mi piace”. 

E tanto successo ovviamente dà soddisfazione anche all’autrice dello scatto, da sempre attenta neldocumentare nelle foto le relazioni umane, siano esse un matrimonio o un rapporto come quello tra cane e padrone. Un rapporto di conoscenza, quello fra i tre soggetti della vicenda, sublimate appunto da questa foto, in cui il pubblico non ha avuto difficoltà a immedesimarsi, per la gioia della stessa professionista. Il consenso è pur sempre una cosa rara, e in questo caso sembra unanime. Schoep cura l’artrite grazie all’acqua e all’amore del suo padrone, mentre Hudson a suo modo fa business: vende infatti lo scatto sul sito personale e dona una percentuale delle vendite per pagare i lauti conti del veterinaio del “vecchio” Schoep.