PERCHÈ È PECCATO MANGIARE GAMBERI ANCHE DI VENERDÌ

PERCHÈ È PECCATO MANGIARE GAMBERI ANCHE DI VENERDÌ

 

di Sonia Savioli

 

“L’uomo non ha tessuto la trama della vita, in essa egli non è che un filo” disse più di un secolo fa il rappresentante di uno di quei popoli “sottosviluppati” e primitivi che la società  di guerra e progresso ha sterminato, convertito, corrotto e perseguitato in tutta la sua storia: perché erano la testimonianza inoppugnabile di una diversa possibilità di vita e, di conseguenza, la testimonianza dei suoi errori e della sua follia. Questo filo che è l’uomo si è strappato volontariamente dalla trama della vita e ormai, ad ogni suo movimento contribuisce a distruggerla, a renderla sempre più fragile: una rete piena di buchi che non può che cedere e deteriorarsi alla minima pressione.

“Tutto quello che fa alla trama, lo fa a sé stesso”.

Magari non sarà il proverbiale, e un po’ fiabesco, battito d’ali della farfalla a un capo del mondo che provoca un terremoto all’altro capo, ma non c’è niente di fiabesco nel nostro risotto ai gamberetti che ha provocato, per esempio, una buona parte di quei 150.000 e più morti uccisi dallo tsunami del 2004.

Il filo penzolante non vede più i nessi, i legami, le conseguenze dei propri atti. Non vede più la trama della vita.

Quarant’anni fa gamberi e gamberetti erano un cibo di lusso. Costavano molto, non erano sempre a disposizione.

Al massimo, quando andavi al ristorante e ordinavi un fritto misto, nei ristoranti più generosi ti ritrovavi tre o quattro gamberi nel “misto”, e te li dovevi sgusciare.

Adesso gamberi e gamberetti arrivano dagli allevamenti intensivi dei Paesi schiavi del capitalismo occidentale (leggi l’articolo “Gli schiavi dietro i gamberi dell’Asia”). Li ritrovi dappertutto, al supermercato, al ristorante, dagli amici a cena, nei piatti pronti da mesi e rivitalizzati dal microonde del  bar sotto l’ufficio, persino in qualche mensa.

Perché costano quattro palanche e sono anche già sgusciati.

Quando qualcosa costa troppo poco, dovremmo diffidare, almeno domandarci come mai. E dovremmo essere in grado di capire quando una cosa costa troppo poco.

Ai tempi in cui eravamo tutti poveri e io ero bambina, mia madre, che era capace di fare una trattativa di mezz’ora per l’acquisto di un metro di stoffa, non si lasciava tentare a occhi chiusi dall’offerta del negoziante che, vista la sua propensione al risparmio, cercava di rifilarle quella più a buon mercato: pensava che fosse scadente, che si trattasse, insomma, di una fregatura.

Oggi pure, quando una cosa costa troppo poco, c’è dietro la fregatura, solo che non è più ai nostri danni. Chi rimane fregato non è il cliente del mondo ricco, che spende poco e che proprio per questo è ricco; sono quelli dall’altra parte: quelli che vivono o vivevano o lavorano dove la merce a buon mercato si produce.

Nel solo Bangladesh circa 200.000 ettari di foreste di mangrovie e di terre fertili sono state distrutte per far posto agli allevamenti di gamberi dei nostri supermercati. Cocktail di gamberetti! Quante ricette “a buon mercato”! A buon mercato per noi consumatori occidentali ma ad un prezzo altissimo per i contadini del Bangladesh e non solo: la stessa situazione la troviamo sulle coste di mezza Asia e dell’America Latina.

Oltre alle foreste di mangrovie, scrigni di biodiversità, di ossigeno per il pianeta, di protezione delle coste dall’erosione e dalle tempeste e dai maremoti, gli allevamenti di gamberi hanno distrutto i terreni di migliaia di villaggi contadini. Gente che viveva liberamente e decorosamente dei frutti della terra, conservando antiche tradizioni e saperi, senza distruggere, senza inquinare: senza sfruttare né gli uomini né la natura ma in armonia con essa. Gente “arretrata” che ha dovuto soccombere al progresso.

Il progresso sono centinaia di migliaia di ettari di enormi vasche piene di acqua putrida, disinfettanti e antibiotici, in cui i disgraziati gamberi si trasformano da uova o larve in adulti. Non ci nascono, i gamberi, in quelle vasche; la riproduzione è impossibile in tali condizioni, ragion per cui vengono pescate in mare le femmine gravide o le larve, e poi buttate là dentro: nell’inferno dei gamberi innocenti, che produce altro inferno per altri innocenti. Quelle distese di acqua inquinata, realizzate dove prima c’erano i mangrovieti, avvelenano la terra circostante e il mare. Niente più agricoltura, niente più pesca locale. Così si incentivano e alimentano le bidonvilles del terzo mondo e la distruzione, oltre che del pianeta in cui viviamo, della società umana.

Per un piatto di gamberetti? Eh, sì! Per i nostri consumi quotidiani, apparentemente così innocenti, di fatto così ignoranti e incoscienti.

Quanto agli allevamenti, durano al massimo nove anni, poi l’ambiente è così inquinato da rendere impossibile anche la mera sopravvivenza di qualsiasi organismo in quelle vasche-cloache, che vengono abbandonate: l’allevamento si trasforma infine in ettari ed ettari di rifiuti tossici.

Quando nel 2004 lo tsunami uccise più di 150.000 persone in Asia, si poté verificare senza ombra di dubbio che le foreste costiere avevano protetto le coste: dove le foreste, prima dello tsunami, erano ancora intatte, le distruzioni e le vittime furono estremamente contenute.

Ovviamente le foreste non sono state distrutte solo per i nostri gamberetti, anche per i “nostri” villaggi turistici, ecc. E poi perché le città asiatiche si allargano, riempite da tutti quei contadini cacciati dalle loro terre per far posto ai nostri consumi, e diventati servi e schiavi delle “nostre” industrie.

Così va il mondo all’apice della società di guerra e progresso, cioè la globalizzazione industrial-consumistica. I “battiti d’ali” dell’Occidente, o più prosaicamente i carrelli della spesa dell’Occidente provocano catastrofi peggiori del terremoto in Asia, Africa, America Latina.

E non è finita qua. Cosa mangiano i gamberi-ergastolani nelle loro vasche di punizione? Di tutto, ma soprattutto altri pesci ridotti in poltiglia.

Ci sono ormai intere flottiglie di pescherecci che razziano tutto ciò che vive anche all’interno delle barriere coralline: quegli splendidi pesci colorati che vediamo nei documentari e che suscitano stupore, ammirazione, gratitudine verso una natura così ricca e colma di bellezza, quei pesci in molti casi preservati dalla distruzione perché “privi di valore alimentare” per gli umani, vengono adesso pescati a tonnellate senza alcun criterio, pressati da grandi benne come si fa con l’immondizia, ridotti in poltiglia e poi in farina per nutrire gli “economici” gamberetti.

Così economici che mezzo chilo di tali gamberi, quando arrivano sul banco del supermercato, ha prodotto, tra l’altro, una tonnellata di anidride carbonica.

E da chi viene finanziata tutta questa criminale distruzione? Per esempio da USAID, sigla che, tradotta in italiano, sta per Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale. Questa agenzia governativa USA dice nella presentazione di se stessa (dopo qualche riga di blabla sui suoi buoni intenti) la verità: il suo proposito è aumentare la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti.

Si tratta infatti di una di quelle agenzie di sviluppo che aiutano il Terzo Mondo a diventare terra di rapina delle multinazionali. E infatti la famigerata USAID si occupa sempre di progetti finalizzati a sviluppare l’agricoltura e l’allevamento intensivi (oltre che geneticamente modificati) nei Paesi in cui ancora non c’erano.

Non dimentichiamoci poi la FAO, che fin dagli anni ’70 promuoveva con tutte le sue forze questo tipo di allevamento. Sempre per “sviluppare” i Paesi poveri, che allora erano meno poveri.

Comunque, a ben vedere, la fregatura nascosta dietro le merci troppo a buon mercato ce la prendiamo anche noi.

Oltre ad avvelenarci con prodotti che non dovrebbero nemmeno essere considerati commestibili, paghiamo tasse e balzelli per finanziare agenzie di sviluppo e istituzioni internazionali che sono solo la longa manu delle grandi imprese transnazionali.

Inoltre, tutta quella gente espropriata delle proprie terre, privata dei mezzi di sussistenza e a volte anche delle proprie case e radici, costretta ad adattarsi a qualsiasi lavoro e salario per sopravvivere, diventano i nostri concorrenti nel mercato globale del lavoro.

Così s’intrecciano tutti i fili della trama, e ciò che distruggiamo involontariamente coi nostri incoscienti consumi, ritorna a noi per distruggerci.

Padre Alex Zanotelli disse che si vota ogni volta che si va a fare la spesa. Dovremmo tenerlo sempre a mente. Ma forse potremmo aggiungere qualcosa: nella guerra che le grandi imprese multinazionali stanno facendo al pianeta, i nostri consumi possono essere le loro munizioni. Se consumiamo quello che ci propinano, partecipiamo attivamente alla guerra che sta distruggendo la trama della vita. E che ci sta distruggendo.

Ma se riuscissimo a scorgerla, quella trama, a vivere responsabilmente, a non sprecare, a soppesare ogni nostro atto, scelta e consumo, forse la guerra sarebbe presto finita.

E i gamberi potrebbero tornare a camminare sul fondo del mare, le foreste di mangrovie a crescere, i contadini del Bangladesh o del Sud-Est asiatico a coltivare i loro campi e a festeggiare i riti della terra.

ALIMENTAZIONE E SALUTE: LE MILLE VIRTÙ DELLE VERDURE A FOGLIA VERDE

ALIMENTAZIONE E SALUTE: LE MILLE VIRTÙ DELLE VERDURE A FOGLIA VERDE

 

di Veronica Ulivieri

 

Se si vanno a vedere la classifica dei libri sull’alimentazione più venduti in queste settimane, insieme alle immancabili guide sulle diete per i ritardatari della prova costume e i classici sul vino o la celiachia, una cosa salta all’occhio: i primi 5 posti sono occupati per almeno un terzo da volumi sulla cucina salutistica.

Tra i libri usciti recentemente sull’alimentazione naturale, vegetale, salutare, uno dei più interessanti e originali è “Le virtù terapeutiche dei frullati verdi” (Macro, 14,50 euro), di Victoria Boutenko, insegnante di Nutrizione all’Università dell’Oregon e nota chef crudista. Se il titolo può spaventare, facendoci pensare a una dieta di strani beveroni dai colori improbabili, il libro si rivela in realtà molto interessante e ben documentato. La proposta dell’autrice, poi, non è di nutrirci solo di miscugli dai colori verdastri, ma di integrare nella nostra alimentazione frullati di verdure a foglia verde, per le loro numerose virtù terapeutiche. Una dieta che introduce questi alimenti, infatti, può aiutare a prevenire depressione, obesità, colesterolo alto, infezioni respiratorie, malattie cardiovascolari, infiammazioni, disturbi intestinali. Il volume è composto da una prima parte esplicativa, di facile lettura, corredata da una sezione dedicata alle testimonianze di persone che hanno già provato questa formula alimentare, e da diverse ricette per frullati con frutta e verdure a foglia verde.

Ma perché proprio i frullati? “Le verdure a foglia verde contengono più sostanze nutritive di qualsiasi altro gruppo di alimenti, ma tutte queste sostanze sono immagazzinate nelle cellule delle piante. (…) Per rilasciare tutte le preziose sostanze nutritive contenute all’interno delle cellule, è necessario spezzare le pareti cellulari”, spiega l’autrice all’inizio del libro. Per questo, frullare le verdure è un buon modo per liberare tutto il loro potenziale nutritivo e non rinunciare alle sostanze termolabili si perdono con la cottura: “Frullare è molto meno nocivo di cuocere perché lascia intatte tutte le sostanze nutritive vitali degli alimenti”.

I benefici del consumo di frullati verdi, secondo Victoria Boutenko, sono tanti. Per prima cosa, sono una fonte di proteine, consentendoci di ridurre o eliminare dalla nostra dieta carne e altri grassi animali: “Se manteniamo nella nostra dieta un’ampia varietà di verdure a foglia verde, saremo in grado di coprire abbondantemente tutti gli amminoacidi essenziali”. Esse contengono anche molte fibre insolubili, che “catturano le tossine e le eliminano dal corpo con le feci. Le tossine insolubili sono molto meglio di qualsiasi spugna perché possono assorbire una quantità di tossine più volte superiore al proprio volume. (…) Se non consumiamo fibre, la maggior parte delle scorie tossiche si accumula nell’organismo”. Inoltre le verdure a foglia verde aiutano l’omeostasi – “il processo fisiologico che mantiene tutte le sostanze dell’organismo ai livelli necessari per avere la salute ottimale” – e compensano le carenze alimentari, normalizzando gli acidi gastrici.

Queste verdure contribuiscono anche a mantenere basico il pH del corpo, evitando l’acidificazione, terreno fertile per infiammazioni di vario tipo e, secondo alcuni studiosi, tra le cause dei tumori. Questi alimenti sono anche ricchi di clorofilla – “utile nella prevenzione e nella terapia di molte forme di cancro e di arteriosclerosi” – e omega-3, che “aiutano il cuore a battere al ritmo giusto, il sangue a scorrere liberamente, gli occhi a vedere e il cervello a prendere decisioni rapide e lucide”.

Sugli effetti benefici dei frullati verdi, negli Stati Uniti è stato condotto anche un piccolo esperimento su una ventina di persone nella cittadina di Roserburg, in Oregon. “Dopo aver consumato i frullati verdi soltanto per un mese, i partecipanti allo studio Roseburg hanno notato i seguenti miglioramenti della salute, oltre alla maggior concentrazione dell’acido gastrico (tutti erano affetti da ipoacidità, ndr): aumento dell’energia, alleviamento della depressione e scomparsa dei pensieri suicidi, minor oscillazione della glicemia, movimenti intestinali più regolari, eliminazione della forfora, scomparsa dell’insonnia, completa remissione degli attacchi di asma, assenza dei sintomi abituali di sindrome pre-mestruale, unghie più forti, diminuzione della voglia di caffè, miglioramento della vita sessuale, scomparsa delle impurità della pelle”.

Ma perché, nonostante questi numerosi benefici, consumiamo in media così poche verdure a foglia verde? Una prima risposta è che probabilmente molti di noi non erano al corrente di queste virtù. Ma c’è anche il fatto che “negli ultimi secoli, l’organismo umano è cambiato. Per tutti noi, gli alimenti che hanno un sapore più stimolante sono diventato più appetibili di quelli naturali e non trasformati a livello industriale. (…) La cosa straordinaria è che i frullati verdi non sono solo nutrienti, ma squisiti al palato anche per i bambini”.

L’invito di Victoria Boutenko è dunque andare alla scoperta di quello che è a tutti gli effetti un gruppo di alimenti a sé. “Le foglie verdi non sono state incluse nelle nostre piramidi alimentari come gruppo separato perché ai nostri giorni è raro che le si consideri dei veri alimenti”. In realtà, esse non sono ortaggi, ma “le piante non sono considerate abbastanza importanti da essere opportunamente classificate. (…) Collocare le verdure a foglia verde nella stessa categoria degli ortaggi ha fatto sì che le regole di combinazione alimentare valide per i cibi ricchi di amido venissero applicate anche alle verdure verdi”, mentre queste “sono l’unico gruppo di alimenti che facilita la digestione degli altri cibi stimolando la secrezione degli enzimi digestivi. Di conseguenza queste verdure possono essere combinate con qualsiasi altro cibo”.

LA CARENZA DI VITAMINA D AUMENTA IL RISCHIO DI DEMENZA E ALZHEIMER

LA CARENZA DI VITAMINA D AUMENTA IL RISCHIO DI DEMENZA E ALZHEIMER

 

di Claudio Schirru

 

Una carenza di vitamina D può favorire l’insorgere di demenza e Alzheimer. A sostenerlo alcuni ricercatori guidati dal Dr. David Llewellyn, della University of Exeter Medical School, nel Regno Unito, secondo i quali bassi livelli di questa sostanza corrisponderebbero a una predisposizione al manifestarsi di degenerazioni delle capacità cognitive pari al 125% rispetto agli altri.

Secondo quanto riportato sulla rivista Neurology, interessati dallo studio sono stati 1.658 cittadini USA di età minima pari a 65 anni e mai stati colpiti da demenza, malattie cardiovascolari o ictus. Durante i sei anni di studio i volontari sono stati sottoposti a controlli per monitorare l’eventuale insorgere di demenza o Alzheimer.

Rispetto a coloro che presentavano valori di vitamina D nella norma, i soggetti che mostravano carenze lievi hanno fatto registrare un rischio superiore del 53% di sviluppare demenza mentre la percentuale saliva fino al 125% in caso di carenze gravi. Analogo l’andamento per quanto riguarda l’Alzheimer, con percentuali del 69% e del 122%.

Il valore soglia di vitamina D al di sotto del quale crescono i rischi di sviluppare degenerazioni cognitive significative è di 50 nanomoli (nmol) per litro mentre al contrario, superando tali quantitativi, il cervello è di solito associato a stati di buona salute.

Vitamina D che ricordiamo può essere prodotta dall’organismo umano in seguito all’esposizione alla luce del sole o integrata ad esempio attraverso il ricorso all’olio di fegato di merluzzo e in minori quantità consumando pesce o uova. Secondo quanto ha dichiarato nelle sue conclusioni il Dr. Llewellyn: “Ci aspettavamo di trovare un’associazione tra bassi livelli di vitamina D e rischio di demenza e Alzheimer, ma i risultati sono stati sorprendenti. Abbiamo di fatto riscontrato che tale associazione era due volte più stretta di quanto ipotizzato”.

Studi clinici sono ora necessari per stabilire quali cibi, come ad esempio l’olio di pesce, o integratori di vitamina D siano in grado di ritardare o prevenire il manifestarsi dell’Alzheimer o della demenza.

Dobbiamo essere cauti e i nostri ultimi risultati non dimostrano che un basso livello di vitamina D causa la demenza. Detto questo, i nostri risultati sono davvero incoraggianti e se anche solo un piccolo numero di persone potrà trarne beneficio, questo potrebbe avere enormi implicazioni per la salute pubblica considerata la natura devastante e dispendiosa della demenza.

Virus Ebola: l’origine, i sintomi e le cose da sapere

Virus Ebola: l’origine, i sintomi e le cose da sapere

L’infezione continua a diffondersi in Africa e fa temere che possa arrivare anche in Europa. Ma come si diffonde? E ci sono davvero rischi anche per l’Italia?

Yahoo NotizieScritto da Andrea Signorelli | Yahoo Notizie – ven 1 ago 2014

Il virus Ebola (LaPresse)Il virus Ebola (LaPresse)L’epidemia di Ebola che ha colpito nuovamente l’Africa e che sta causando numerose vittime preoccupa sempre di più anche in Europa e negli Stati Uniti. A maggior ragione dopo la morte di due cittadini americani, che si trovavano in Liberia per lavorare con una ong. Proprio situazioni di questo tipo non fanno che aumentare l’allarmismo, visto che si teme che persone infette possano raggiungere altri continenti via aereo e portare anche da noi il temibile virus. E il fatto che la Liberia abbia deciso di chiudere le frontiere fa pensare che il pericolo non sia del tutto inventato. È da segnalare però come il ministero della Salute abbia escluso rischi per l’Italia, anche se, ovviamente, non è impossibile che un caso giunga in Europa.

Ma che cos’è e come si diffonde il virus Ebola? Precedentemente nota come febbre emoraggica, si tratta di una infenzione che nella maggior parte dei casi, circa il 90%, diventa fatale. L’Ebola colpisce principalmente i villaggi più remoti dell’Africa occidentale e centrale, soprattutto quelli che si trovano vicini alle foreste tropicali; mentre è molto più difficile che colpisca i grandi centri abitati, ragione per cui la sua diffusione, fino a questo momento, è sempre stata abbastanza limitata.

Il virus dell’Ebola si trasmette agli umani attraverso il contagio da animali selvaggi, per poi diffondersi attraverso una trasmissione da uomo a uomo, causata da un contatto ravvicinato con il sangue o altri fluidi corporei di persone infette. L’ospite naturale dell’Ebola è considerato essere la volpe volante, anche nota come pipistrello della frutta, ma la diffusione del virus è stata documentata anche attraverso scimpanzè, gorilla e primati in generale.

Nella diffusione da uomo a uomo hanno invece giocato un ruolo importante le cerimonie funebri, in cui i partecipanti al funerale si sono trovati a contatto troppo ravvicinato con il defunto. Anche le persone che lavorano nel campo della sanità sono ad alto rischio, per il fatto di trovarsi necessariamente a stretto contatto con persone infette, spesso – nelle prime fasi della cura – senza adeguate protezioni. È importante anche sapere che le persone che sono guarite dal virus possono continuare a trasmetterlo attraverso i fluidi corporei per un tempo anche di sette settimane successive alla guarigione.

La prima comparsa del virus Ebola è del 1976, quando colpì a Nzara (Sudan) e a Yambuku (Repubblica democratica del Congo). Quest’ultimo villaggio si trovava vicino al fiume Ebola, da cui la malattia ha preso il suo nome. I sintomi del virus Ebola sono numerosi e possono facilmente essere inizialmente confusi per qualche banale altro virus che causi febbre o diarrea. I primi segnali sono infatti febbre alta e improvvisa, debolezza molto forte, dolori muscolari, mal di testa e mal di gola. Quando la situazione si aggrava, compaiono anche vomito, diarrea forte, insufficienza renale ed epatica, fino ad arrivare a emorragie interne ed esterne.

Il periodo di incubazione dopo la comparsa del virus è molto bassa, può andare dai due ai 20 giorni. Durante il periodo dell’incubazione il paziente non è contagioso, lo diventa solo quando comincia a manifestare i sintomi. Paradossalmente, il virus Ebola non è particolarmente resistente, viene ucciso anche solo con il sapone o la candeggina. In generale sopravvive solo per brevissimo tempo se esposto al sole o su superifici secche.

Uno dei problemi più gravi nel trattamento del virus Ebola è che non esistono trattamenti specifici per curare la malattia, così come non esiste nessun vaccino autorizzato (anche se ce ne sono parecchi in fase di spermentazione). Le persone che vengono colpite dall’Ebola vengono solitamente messe in terapia intensiva e trattati con liquidi immessi nel corpo per via endovenosa per colpire la grave disidratazione che li colpisce. La reidratazione avviene anche per via orale attraverso soluzioni contenenti elettroliti.

Per prevenire l’infezione da virus Ebola, se ci si trova in zone a rischio, è necessario evitare il contatto con animali morti che potrebbero esserne portatori (primati, scimmie, volpi volanti) e cuocere adeguatamente tutti i cibi prima di mangiarli. Se si deve fare visita a persone infette, indossare sempre guanti e mascherina e lavarsi immediatamente le mani dopo la visita. Sono da ritenersi infondate le voci secondo cui ci sono cibi in grado di prevenire l’infezione, l’unico modo di evitarla – se ci si trova in zone a rischio – è quello di prendere tutte le precauzioni del caso.

Fino a oggi, il virus Ebola ha sempre e solo colpito in Africa, causando negli ultimi quarant’anni centinaia di morti (oltre 200 solo nel ’76 e e di nuovo nel ’95 e nel 2000). Le nazioni che sono state colpite con maggiore frequenza sono il Congo, il Sudan, il Gabon, l’Uganda.

MAGNESIO: TUTTE LE SUE PROPRIETÀ

MAGNESIO: TUTTE LE SUE PROPRIETÀ

 

di G. C.

 

Il magnesio è un essenziale per la nostra salute: è un minerale importante per l’attività e l’equilibrio del sistema nervoso. Indispensabile nel metabolismo di lipidi, proteine e glucidi, permette anche la produzione di energia. Scopriamolo meglio. Fortunatamente tanti sono i cibi che lo contengono: basta una dieta equilibrata per introdurne, giornalmente, la giusta quantità.

Ma quali sono tutti i benefici e le proprietà del magnesio?

Aiuta a contrastare il diabete.

Previene la degenerazione delle cartilagini e la comparsa di malattie come l’artrosi.

Previene crampi, contratture, formicolio, intorpidimento, tremori.

Regola le anomalie del ritmo cardiaco.

Combatte l’ipertensione arteriosa.

Contrasta il mal di testa e altri dolori.

Apporta energia e combatte la stanchezza.

Contrasta nausea e vomito.

Regola la stitichezza, facilitando il movimento intestinale in maniera del tutto naturale.

Contrasta la voglia di mangiare prodotti salati o cioccolato.

Contrasta insonnia, ansia, iperattività, inquietudine, attacchi di panico, fobie.

Favorisce la formazione di collagene, fondamentale per lo scheletro, i tendini e le cartilagini.

COLESTEROLO: 10 CIBI PER RIDURLO E TENERLO A BADA

COLESTEROLO: 10 CIBI PER RIDURLO E TENERLO A BADA

 

di Marta Albè

 

Colesterolo alto? Alcuni cibi possono contribuire ad abbassarlo. In linea di massima, seguire una dieta ricca di verdura, legumi, frutta e cereali integrali dovrebbe aiutarci a mantenere i livelli di colesterolo sotto controllo.

Certi alimenti più di altri, in base a specifici studi scientifici, sono considerati utili allo scopo.

Ecco quali sono alcuni dei nostri migliori alleati naturali per abbassare il colesterolo grazie ad un’alimentazione più sana.

1) Fragole

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università Politecnica di Ancona ha evidenziato che le fragole aiutano a ridurre i livelli di colesterolo LDL e di trigliceridi. Ad un gruppo di volontari in buona salute è stato richiesto di consumare mezzo chilo di fragole ogni giorno per un mese. Il merito sarebbe delle antocianine, i pigmenti che donano al frutto il caratteristico colore rosso.

2) Pomodori

I pomodori sono un rimedio naturale per contrastare il colesterolo alto e l’ipertensione, soprattutto se mangiati cotti e con regolarità. Il merito è del licopene, un carotenoide antiossidante che contribuisce inoltre a ridurre il rischio di infarto e di ictus. Secondo gli esperti che hanno condotto lo studio in questione, il licopene può ridurre il colesterolo LDL fino al 10% se assunto ogni giorno in dosi superiori a 25 milligrammi.

3) Anguria

L’estate si avvicina e presto sarà tempo di anguria, una vera e propria alleata per il cuore e per ridurre il colesterolo LDL. Lo ha rivelato uno studio condotto presso l’Università americana di Purdue. Un gruppo di ricercatori ha evidenziato che l’anguria protegge il cuore grazie alla citrulina, una sostanza già nota alla comunità scientifica per le sue proprietà benefiche contro ipertensione e malattie cardiache. Secondo alcuni studiosi, basterebbe una fetta di anguria al giorno per aiutare il nostro organismo a ridurre i livelli di colesterolo cattivo.

4) Pistacchi

I pistacchi potrebbero rappresentare l’arma segreta per combattere pressione alta, stress e colesterolo. Secondo gli scienziati che di recente hanno condotto una ricerca in proposito, mangiare con regolarità dosi contenute di pistacchi aiuterebbe in modo concreto a tenere sotto controllo alcuni problemi di salute, compresi il colesterolo alto e l’ipertensione. I pistacchi se assunti in piccole quantità e con regolarità, aiutano a ridurre il colesterolo cattivo e ad aumentare i livelli di colesterolo buono e di antiossidanti nel sangue.

5) Legumi

Una porzione di legumi al giorno aiuta ad abbassare il colesterolo. Via libera dunque a ceci, fagioli, piselli e lenticchie. Secondo uno studio pubblicato in Canada, i legumi ci aiutano a ridurre i livelli di colesterolo LDL del 5% se consumati una volta al giorno. Nello stesso tempo si ridurrebbe il rischio di contrarre malattie cardiovascolari. Sono sufficienti 130 grammi di legumi al giorno per avere effetti positivi. I legumi inoltre offrono al nostro corpo un ricco apporto di proteine e di sali minerali. Tra i legumi troviamo anche la soia, che secondo la Harvard Medical School avrebbe però effetti più modesti rispetto a quanto comunemente si creda. Chi preferisce non consumare soia, dunque, può scegliere tra gli altri legumi.

6) Avena

La Harvard Medical School indica l’avena tra gli alimenti che possono aiutare ad abbassare il colesterolo. Potrete, ad esempio, scegliere i fiocchi d’avena per arricchire la vostra colazione ed accompagnarli a della frutta fresca e di stagione. L’avena aiuta ad abbassare il colesterolo grazie alla sua ricchezza di fibre. Secondo gli esperti, dovremmo assumere da 20 a 35 grammi di fibre ogni giorno, tra cui 10 grammi di fibre insolubili.

7) Orzo

Anche l’orzo e altri cereali integrali, per via della loro ricchezza di fibre possono contribuire ad abbassare il colesterolo. Nei negozi di prodotti biologici potrete acquistare sia cereali integrali in chicco da utilizzare per la preparazione di primi piatti e di insalate che fiocchi di cereali integrali per la colazione, oppure le relative farine da utilizzare per la preparazione casalinga del pane o della pasta.

8) Noci

Noci, ma anche mandorle e arachidi, insieme ad altre tipologie di frutta secca, secondo gli studi più recenti sono benefiche per abbassare il colesterolo. Consumare circa 50 grammi di frutta secca al giorno, secondo quanto indicato dalla Harvard Medical School, aiuterebbe ad abbassare il colesterolo del 5%. Inoltre la frutta secca contiene altri nutrienti benefici per il cuore, perciò il suo consumo viene consigliato per la prevenzione dei disturbi cardiaci.

9) Mele

Una mela al giorno toglie il medico di torno e aiuta ad abbassare il colesterolo. Le mele sono davvero un toccasana per la nostra salute e secondo alcune ricerche condotte nel Regno Unito, mangiare una mela al giorno ridurrebbe le morti dovute al rischio cardiovascolare proprio come assumere una statina al giorno, ma senza effetti collaterali. Le statine sono farmaci che vengono prescritti proprio per abbassare il colesterolo. Le mele sono ricche di pectina, che contribuisce al loro effetto benefico. Altri tipi di frutta particolarmente utili sono uva, agrumi e le già citate fragole.

10) Melanzane

Ancora da Harvard, ecco la segnalazione di un ortaggio particolarmente indicato per abbassare il colesterolo. Si tratta delle melanzane, che hanno un basso contenuto di calorie e che allo stesso tempo sono ricche di fibre. Dunque ricordiamo di consumarle spesso, soprattutto quando sono di stagione.

ATTENZIONE A NON SCIVOLARE SULL’OLIO ASSASSINO

ATTENZIONE A NON SCIVOLARE SULL’OLIO ASSASSINO

 

di Francesca Fugazzi

 

Frigge le patate e scalda gli animi. L’olio di palma è uno dei nuovi mostri che contribuiscono a distruggere il pianeta. Una versatile ed economica materia prima ricavata dalla polpa del frutto della palma, coltivata in immense piantagioni nel Sud-Est asiatico, ma anche in alcune zone africane e sudamericane, e presente in una stupefacente moltitudine di prodotti, dai cosmetici ai saponi, dalle margarine ai dolciumi confezionati, dalle paste pronte ai prodotti da forno. Pochi sapranno che, nell’elenco degli ingredienti, spesso non compare neppure con il suo vero nome; viene genericamente indicato come olio (o grasso) vegetale (talvolta idrogenato). In forte crescita, anche l’utilizzo dell’olio come biocarburante. Ma da dicembre 2014 sarà obbligatorio riportare sull’etichetta, stando al regolamento UE 1169/2011, la tipologia di olio o grasso vegetale contenuto in ciascun prodotto. Sarà quindi più facile decidere come e cosa acquistare.

La produzione globale di olio di palma è mastodontica. Dai dati di oilworld.biz si evince che nel 2006 ne sono state prodotte quasi 37 milioni di tonnellate, mentre nel 2009, appena 3 anni dopo, la produzione è aumentata di circa un quinto superando i 45 milioni di tonnellate; per il 2013 l’Agriculture Department Database statunitense stima una produzione di più di 58 milioni di tonnellate. Per comprendere meglio gli ordini di grandezza, ricordiamo che gli oli di girasole e colza vengono prodotti rispettivamente in ragione di 10 e 20 milioni di tonnellate annue. L’olio di oliva, invece, si attesta, per lo stesso anno, su poco più di 3 milioni di tonnellate: un’inezia. L’olio di palma è quindi l’olio più prodotto al mondo, avendo guadagnato questo primato nel 2005, quando ha doppiato l’olio di soia, grazie a un tasso di crescita dell’8% annuo, come si evince da uno studio globale sulla produzione di oli vegetali. Con questi dati si possono comprendere, seppur in estrema sintesi, i termini di questo enorme flagello di dannosità sempre maggiore: distruzione di ecosistemi, sterminio di animali, emissione di gas serra, lesione di diritti umani.

Le principali nazioni produttrici sono Indonesia e Malesia, che insieme ne producono quasi l’86%, Paesi il cui grado di biodiversità è sempre più minacciato dal continuo disboscamento di foresta primaria: proprio l’Indonesia si aggiudica un tristissimo record, comparendo nel Guinness dei Primati del 2008 come il distruttore più veloce di foresta al mondo: all’ora viene raso al suolo l’equivalente di 300 campi da calcio, come ci documenta l’associazione Say No to Palm Oil. La distruzione delle foreste di torba su cui poi impiantare le coltivazioni viene attuata con incendi sistematici: ciò porta con sé, proprio per la natura di questa particolare foresta, il rilascio di grandissime quantità di anidride carbonica che costituiscono una quota del 4% annuo sulla quota globale planetaria.

Come se tutto ciò non bastasse, tale conversione alla monocoltura, già di per sé gravissima, si trascina dietro la devastazione permanente di ecosistemi e l’uccisione di moltissimi animali. Per esempio, ad essere colpiti sono gli oranghi che vivono proprio nelle foreste del Borneo e Sumatra. Negli ultimi dieci anni la popolazione degli oranghi è diminuita di un terzo, passando da 60.000 a 40.000, l’80% del loro habitat è già stato distrutto e questi meravigliosi animali potrebbero, se si resta a guardare, estinguersi, secondo gli esperti, in circa 25 anni, addirittura meno per altri. Si è calcolato che all’anno vengano uccisi tra i 1.000 e i 5.000 oranghi. E con loro a farne le spese si annoverano tigri, rinoceronti, elefanti, scimmie, leopardi. Basti dire che l’ecosisistema locale conta circa 300.000 specie. Un’ecatombe. Per non parlare di tutte le comunità locali che vivono in armonia con la natura e che, è facile presumerlo, vengono per sempre soppiantate dai luoghi che abitano per far spazio alla cieca avidità delle multinazionali oppure vengono sfruttate come manodopera a basso costo.

Si fa credere che siano stati fissati dei paletti per tentare di regolamentare la produzione. Nel 2001 alcune organizzazioni internazionali, di concerto, fondano la Roundtable on Susainable Palm Oil (RSPO), un gruppo in cui sono rappresentati produttori, trasformatori, ONG, banche ed esponenti del settore commerciale che si occupa di certificare la produzione sostenibile di olio di palma. Al contrario di rari casi di effettiva regolamentazione, molte certificazioni sono risultate di fatto fasulle, nel caso in cui a dare la certificazione fossero le stesse società proprietarie delle piantagioni, come è successo per la prima certificazione rilasciata per esempio.

La questione è dunque assai delicata innanzitutto perché, ancora una volta, il controllato è anche il controllore e perché non è possibile parlare di sostenibilità senza prendere in considerazione la quantità. Si parla sempre di diverse modalità, ma mai di riduzione delle produzioni e dei consumi. Cosa fare? Presto detto: innanzitutto smettere di comprare quel prodotto “X” che si è scoperto contenere olio di palma e diffondere l’informazione. L’europeo medio è il più grande consumatore di olio di palma con quasi 60 chili annui pro capite ed è un produttore a dichiararlo in un suo studio. Se ogni singolo cinese o indiano consumasse olio di palma con la stessa intensità, delle foreste primarie di Indonesia e Malesia non ci sarebbe più traccia. Occorre leggere attentamente le etichette e depennare dalla lista della spesa prodotti anche solo sospetti.

Ma non finisce qui. L’olio di palma viene anche utilizzato come biocarburante e l’obiettivo, di questo si è parlato tanto a Jakarta, è quello di aumentarne la quota per questo utilizzo, ora solo in fase iniziale. Una materia prima che porta con sé moltissime criticità. Dal sito biofuel-news, si apprende che i responsabili che presiedono i vari enti che gravitano attorno alla produzione di questo olio hanno intenzione di sviluppare la piena potenzialità produttiva e perciò economica di tale sostanza. Stringente in questo senso la denuncia, per quanto riguarda la realtà italiana, del gruppo Earthriot, che aveva già manifestato dissenso contro ENI che per motivi energetici importa olio di palma da Indonesia e Malesia. Il gruppo di attivisti porta avanti una costante attività di sensibilizzazione anche attraverso una campagna di raccolta firme indirizzata al Parlamento Europeo per bloccare le importazioni in territorio europeo di olio di palma.

L’economia globalizzata basata sulla libertà di mercato poggia sulla monotonia della monocoltura, che si nutre grazie ad una elefantiaca catena di distruzione. È ora di dire basta.

Dalla paprika al peperoncino, le spezie piccanti allungano la vita

Dalla paprika al peperoncino, le spezie piccanti allungano la vita

Mangiare pietanze con le spezie, in particolare quelle piccanti, può allungare la vita. Grazie alla paprika, al peperoncino ad altre erbe aromatiche forti si genera infatti nell’organismo un effetto positivo che blocca la percezione del dolore, cosa che fa in generale aumentare la sopravvivenza. E’ quanto emerge da una ricerca dell’Università della California, negli Usa, pubblicata sulla rivista Cell.
Gli studiosi hanno svolto delle analisi su topi di laboratorio, basandosi su quanto accadeva a quelli a cui veniva bloccato un particolare recettore del dolore chiamato Trpv1 e scoprendo che risultavano vivere più a lungo (il 14% in più) ed erano più in salute. Sviluppavano meno casi di tumore e avevano un metabolismo migliore.
“Abbiamo ipotizzato che bloccare il recettore del dolore servisse non solo per porre fine a delle sofferenze, ma anche per allungare la vita” spiega Andrew Dillin, ricercatore dell’Università della California, sottolineando che “quando si invecchia aumentano i casi in cui si prova dolore, cosa che fa pensare che il processo di invecchiamento del corpo sia direttamente collegato al dolore stesso”.
Nello studio è stato bloccato il recettore del dolore tramite un procedimento di ingegneria genetica ma come spiega l’esperto lo si può fare semplicemente mangiando spezie piccanti che sono una naturale fonte di capsaicina, principio attivo che blocca il dolore oltre ad avere molte altre proprietà. “Un’ingestione regolare di capsaicina può prevenire problemi metabolici legati all’età e aumentare la longevità” assicura infatti Dillin.

Sale, occhio a quello nascosto, consumarne troppo favorisce l’obesità

Sale, occhio a quello nascosto, consumarne troppo favorisce l’obesità

di Brigida Stagno

Consumiamo troppo sale: secondo dati recenti, il 97 per cento degli uomini e l’87 per cento delle donne ne farebbe un uso eccessivo, con conseguenze negative sulla salute. L’abitudine ai piatti saporiti, dovuta anche all’entrata prepotente dei cibi confezionati, più appetibili perché addizionati con sale, oltre che più veloci da preparare, ha fatto perdere il gusto per i sapori semplici e naturali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità però è severa in proposito: mai superare i 5 g al giorno, pari a circa un cucchiaino raso da caffè e 2 g di sodio, ma gliitaliani ne consumano il doppio, circa 10 g.
I rischi del consumo eccessivo di sodio? Ipertensione, malattie cardiovascolari, aterosclerosi, maggiore perdita di calcio con le urine, con conseguenze negative sull’osteoporosi, eccessiva ritenzione di liquidi nelle malattie cardiache, renali ed epatiche e, se la brutta abitudine inizia fin da piccolissimi, anche obesità e ipertensione nelle età successive. Il rischio di obesità vale comunque anche più avanti. Una ricerca pubblicata sulla rivista “Pediatrics” e condotta da ricercatori statunitensi del Medical College of Georgia Regents University di Augusta , condotta su 766 adolescenti, ha dimostrato come apporti elevati di sodio siano associati ad adiposità e alla presenza nel sangue di una citochina prodotta dalle cellule immunitarie, che contribuisce all’infiammazione cronica, anche se le calorie introdotte sono nella norma. Il sale, insomma, non favorirebbe solo la ritenzione idrica, ma potrebbe facilitare anche l’accumulo di grasso.
Abituarsi a consumare poco sale e ai cibi “insipidi” non è poi così complicato: basta ridurlo gradualmente, evitare di tenere la saliera in tavola, non aggiungerlo (o aggiungerne molto poco) nell’acqua di cottura di pasta e verdure, usare per insaporire aceto, limone, spezie e erbe aromatiche.
Ma attenzione: il sale si trova naturalmente anche nell’acqua, nella carne, nella frutta e verdura, non solo nei cibi precotti e conservati e addirittura nei dolci, dove esalta il sapore dello zucchero.Quando si fa la spesa è consigliabile quindi orientarsi verso prodotti a basso contenuto di sale ( pane o crackers senza aggiunta di sale, come il pane umbro o toscano), preferire i formaggi freschi a quelli stagionati, inserire latte e yogurt, poveri di sale, ma ricchi di calcio, e reintegrare con la semplice acqua i liquidi persi con la sudorazione. A tavola è fondamentale limitare l’uso di condimenti contenenti sodio (dado da brodo, ketchup, salsa di soia, senape), evitare snack e insaccati, non aggiungere sale nelle pappe dei bambini per abituarli ad apprezzare da subito cibi poco salati. Quanto al sale dietetico, contiene certamente meno sodio, perché parte del cloruro di sodio è sostituito con cloruro di potassio, ma non bisogna eccedere. Se proprio bisogna usare il sale, meglio allora ricorrere a quello iodato, raccomandato dall’OMS anche per prevenire la carenza di iodio, diffusa in Italia soprattutto nelle aree montane e responsabile di malattie della tiroide.
 

28 luglio 2014

ALIMENTI A BASSO INDICE GLICEMICO: L’ELENCO COMPLETO

ALIMENTI A BASSO INDICE GLICEMICO: L’ELENCO COMPLETO

 

di Antonella Navilio

 

Conoscere gli alimenti a basso indice glicemico è importante non solo per chi vuole tornare in forma, ma anche per prevenire il diabete e, in alcuni casi, anche per tenerlo sotto controllo. Tali alimenti in virtù della loro composizione chimica determinano un innalzamento moderato della glicemia. La glicemia è la quantità di glucosio nel sangue ed è responsabile della secrezione pancreatica dell’insulina, ormone responsabile dell’aumento dell’accumulo adiposo.

L’indice glicemico è la velocità con la quale si alza la glicemia dopo un pasto, ovvero è la capacità di carboidrati e proteine di innalzare la quantità di glucosio nel sangue dopo che son stati digeriti, assorbiti e trasformati dal fegato. Ma se è vero che gli alimenti a basso indice glicemico hanno un impatto metabolico migliore di quello dei cibi a medio o alto IG, è più giusto parlare di indice glicemico di un pasto dal momento che l’eventuale associazione con altri alimenti e il tipo di cottura possono provocare variazioni. Sicuramente, gli alimenti a basso-medio indice glicemico, anche previo cottura, non supereranno mai la soglia di 50-55 punti.

Alimenti a basso indice glicemico: quali sono?

Innanzitutto, sempre meglio optare per i cibi integrali piuttosto che per quelli raffinati, in modo da evitare picchi glicemici. Gli alimenti ricchi di grassi non hanno effetto immediato sulla glicemia, ma nel tempo ne determinano un aumento, mentre quelli che, invece, ne determinano un rallentamento dell’innalzamento sono ricchissimi di fibre, hanno alto contenuto di acqua e agiscono sull’assorbimento del glucosio a livello intestinale. Tra gli alimenti con IG basso sicuramente i cibi ricchi di omega 3 come il salmone e vari crostacei, i semi oleosi come mandorle, nocciole, noci, semi di lino, di sesamo e di girasole, le spezie, in particolare la curcuma e lo zenzero, le erbe aromatiche, il peperoncino e poi ancora le zucchine, la zucca e i suoi semi, che sembra abbia la proprietà di riparare i tessuti danneggiati del pancreas dal diabete, l’avocado, il tofu e in generale la soia e tutti i suoi derivati. Tutti i tipi di legumi, come le lenticchie, i fagioli, i ceci e i piselli secchi, che prevengono i picchi glicemici, il diabete e aiutano a contrastare il colesterolo.

Ancora: spinaci, scalogno, sedano, ravanello, ribes nero, rabarbaro, porri, pinoli, pistacchio, peperoni, pesto alla genovese, l’olio di oliva, ricco di composti fenolici che riducono l’attività infiammatoria dei geni coinvolti nello sviluppo del diabete di tipo 2, insalata, indivia, germogli, funghi prataioli, finocchi, farina di carrube, farina di ceci, crusca, cipolla, crauti e l’elenco potrebbe continuare ancora.