L’Italia blocca il bilancio Ue

L’Italia blocca il bilancio Ue

No alla proposta di revisione del bilancio pluriennale. “Non prevede risorse per le nostre priorità: sicurezza, immigrazione, disoccupazione giovanile, programmi per la ricerca”

Ultimo aggiornamento: 15 novembre 2016
Sandro Gozi

Sandro Gozi

Bruxelles, 15 novembre 2016 – L’Italia blocca il bilancio Ue. Il governo ha “confermato la riserva”, cioè posto un sostanziale veto, alla proposta di revisione di mid-term del bilancio pluriennale dell’Unione europea. “Il governo – ha spiegato il sottosegretario Sandro Gozi a margine del Consiglio Affari generali a Bruxelles – non considera la proposta accettabile perché mancano garanzie per l’aumento di risorse «a favore delle nostre priorità”: immigrazione, sicurezza, disoccupazione giovanile o programmi per la ricerca.

Nel pranzo dei ministri a porte chiuse (“per noi non indigesto, per altri forse sì” sintetizza Gozi con una battuta) l’Italia ha “tenuto tenuto con coerenza la sua linea”, spiega il sottosegretario agli affari europei. “Quindi – continua Gozi – abbiamo confermato la nostra riserva sull’ adozione del riesame del bilancio multiannuale, che senza l’accordo dell’Italia non può essere adottato perché richiede l’unanimità”. Gozi illustra le ragioni dell’Italia: “Lo abbiamo fatto perché riteniamo che sia una proposta su cui dobbiamo avere ancora molte garanzie sul reale aumento a favore delle nostre priorità: immigrazione, sicurezza, risorse europee per i giovani (siano per la lotta contro la disoccupazione o l’Erasmus), i programmi di successo come Horizon2020 cu cui non possiamo assolutamente accettare dei tagli, e la flessibilità del bilancio europeo per una maggiore capacità di reagire alle crisi. Su tutto questo non ritenevamo che fossimo arrivati ad un compromesso accettabile e quindi abbiamo confermato che l’Italia si oppone al riesame del bilancio multiannuale”. Alla domanda se si tratti un veto, Gozi risponde: “Il veto si pone in una votazione formale. Oggi non c’era una votazione formale, quindi la dizione non è ‘veto’ ma ‘riservà e noi abbiamo posto formalmente la nostra riserva che la presidenza slovacca annuncerà”.

Terrorismo islamico, la Cassazione: “Indottrinare al martirio non è reato”

Terrorismo islamico, la Cassazione: “Indottrinare al martirio non è reato”

La Suprema corte dopo le assoluzione per la moschea di Andria: il reato di terrorismo internazionale non è configurabile senza “l’addestramento di adepti da inviare nei luoghi di combattimento”

Terrorismo islamico, la Cassazione: "Indottrinare al martirio non è reato"

Niente condanna per il reato di terrorismo internazionale di matrice islamica a carico di imam o dei loro seguaci impegnati in attività di indottrinamento e proselitismo “finalizzata a indurre una generica disponibilità a unirsi ai combattenti per la causa islamica e a immolarsi per la stessa”, se la ‘formazione teorica’ degli aspiranti kamikaze non è affiancata anche con “l’addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento”. Lo rimarca la Cassazione nelle motivazioni relative all’assoluzione – emessa lo scorso 14 luglio, suscitando clamore – dei quattro jihadisti della moschea di Andria: un gruppo ritenuto dalla Suprema corte a limitata “operatività”, tale da non costituire una minaccia per la collettività.

Secondo i supremi giudici – si motiva nella sentenza 48001 – l’indottrinamento “può costituire senza dubbio una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un’associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito”. Chi si dedica al ‘solo’ proselitismo, dunque, non rischia condanna ma al massimo viene espulso. Lo scorso agosto l’iman di Andria, il tunisino Hosni Hachemi Ben Hassen, dopo l’assoluzione è stato rimpatriato. A suo carico era rimasta, da rideterminare, soltanto la pena per incitazione all’odio razziale.

Poco tempo dopo è stato espulso, perché inneggiava agli attentati avvenuti in Francia, anche un altro degli imputati – cinque in origine – che dopo la condanna in primo grado non aveva più fatto ricorso. A spingere la Cassazione ad annullare le condanne per i quattro imputati, tre dei quali tunisini e uno di origini magrebine ma nato nel trapanese a Castelvetrano, è stata anche la circostanza che dalle intercettazioni il personaggio che “si distingueva per il tenore particolarmente cruento delle sue espressioni” era un certo Alì, non meglio identificato

Quel che lui diceva, osserva la sentenza, non era sempre ben compreso dagli altri. Che però erano tutti d’accordo nel programma di esaltare “il martirio e l’aspirazione a raggiungere i luoghi di combattimento per conseguire tale obiettivo”. Importanza non è stata data nemmeno al fatto che gli imputati facessero riferimento al “procacciamento e alla visione di filmati”, perché si tratta di “attività strumentali all’indottrinamento”. Per la Cassazione, infine, ‘riprova’ della non pericolosità del gruppo si ricava dal fatto che le intercettazioni sono del 2009 e il loro arresto è avvenuto nel 2013: per tutto quel periodo nessuno è partito per far strage di “infedeli” o ha commesso atti di terrorismo.

Fatti
che confermano “l’incapacità del gruppo di raggiungere un livello organizzativo tale da affrontare le contingenti e non certo imprevedibili difficoltà di una attività terroristica di carattere internazionale”. In primo grado l’imam di Andria era stato condannato a cinque anni e due mesi e gli altri a tre anni e quattro mesi, ridotti dalla Corte d’assise d’appello di Bari nel 2015 a due anni e otto mesi soltanto per un imputato ‘minore’.

Di Maio fotografato con il fratello del boss pentito. Lui: non sapevo chi fosse

Di Maio fotografato con il fratello del boss pentito. Lui: non sapevo chi fosse

Lo scatto risale al 2 novembre in un ristorante di Napoli, fatta dopo un’iniziativa per il No al referendum

Di Maio insieme a Salvatore Vassallo
Di Maio insieme a Salvatore Vassallo (Foto pubblicata dal Mattino di Napoli)

La fotografia è stata pubblicata dal Mattino di Napoli e ritrae il vicepresidente della Camera e fra i leader del Movimento 5 Stelle, Luigi di Maioabbracciato con un ristoratore di Napoli, Salvatore Vassallo. Chi è costui ce lo dice lo stesso quotidiano: è il fratello del boss pentito dei clan dei Casalesi, Gaetano, a sua volta sotto processo per disastro ambientale, relativamente a “con l’accusa di aver avvelenato il territorio della Terra dei fuochi, in particolare l’area tra Giugliano e Parete”.

Lo scatto fatto in un ristorante dopo un’iniziativa per il No al referendum

Lo scatto risale al 2 novembre scorso, nel ristorante “Zi Nicola” di Cesa, in provincia di Caserta, di proprietà della famiglia. Di Maio era arrivato lì per centa al termine di un evento sul No al referendum. “Mi hanno portato lì gli attivisti del mio Movimento dopo l’iniziativa elettorale”, ha spiegato Di Maio. “Non conoscevo i proprietari – ha aggiunto – e come spesso accade mi hanno chiesto una foto. Avrò fatto centomila foto in questi anni. Non avevo idea di chi fossero. È una foto scattata prima di andare via”.

“Il M5S lotta tutti i giorni contro chi avvelena la nostra terra”

“Io lotto tutti i giorni contro chi ha avvelenato la nostra terra – ha aggiunto l’esponente pentastellato – e non voglio minimamente che una foto possa intaccare anni di battaglie. Il movimento 5 stelle è in prima linea nella lotta alla criminalità. Io la camorra la voglio distruggere e non ho nessun contatto con queste persone”.

Trentamila euro per entrare in Polizia, ecco come si vendono i posti di lavoro

Trentamila euro per entrare in Polizia, ecco come si vendono i posti di lavoro

Sgominata in Campania una banda che garantiva a giovani in cerca di lavoro il superamento di un concorso nella forze dell’ordine in cambio di denaro

Trentamila euro per entrare in Polizia, ecco come si vendono i posti di lavoro

C’era una volta la vocazione. Non solo quella sacerdotale. La vocazione a un mestiere. Sentirselo nello spirito, nella cultura. Da grande voglio fare. E poi crescere con quel principio, quell’obiettivo. Inseguirlo. Impegnarsi. C’era una volta il lavoro che ti identificava, ti caratterizzava. Io sono quello che faccio. Quel sentimento si è smarrito. Oggi, con la crisi, con la disoccupazione galoppante, con l’angoscia di restare senza un lavoro, si insegue il posto – possibilmente pubblico – come una lotteria. Non conta cosa farai, dove andrai, che sarai. Conta raggiungerlo. A qualunque costo.

Violare la legge per indossare una divisa

Così si è disposti a tutto. Anche al più estremo dei paradossi. Cioè, che per entrare nella Polizia penitenziaria o nella Guardia di Finanza o nella Polizia di Stato, ci si renda disponibili alla corruzione. Cioè, un reato per indossare una divisa. Cioè, violare la legge per poi tutelarla. E’ successo in Campania, dove nei giorni scorsi, è stata sgominata una gang che garantiva a giovani in cerca di lavoro, il superamento di un concorso nella forze dell’ordine in cambio di denaro.

Un ufficiale dell’Esercito

L’indagine è stata condotta dalla procura di Napoli nord, diretta dal magistrato Francesco Greco. A indagare gli uomini della Guardia di Finanza. In manette sono finiti un ufficiale dell’Esercito, poi una donna e suo fratello, considerati la mente del gruppo. Provvedimenti cautelari anche per tre agenti della Polizia penitenziaria. Coinvolte anche altre persone, tra cui un insegnante di scuola superiore, che avrebbe aiutato alcuni ex studenti ad entrare in contatto con la gang.

Le accuse

Tutti sono accusati di truffa, millantato credito e abuso di potere. Per un gruppo ristretto è scattata l’accusa di associazione per delinquere. L’indagine si è focalizzata su 24 episodi. In tutti questi casi, il gruppo avrebbe intascato denaro da ragazzi, o dalle loro famiglie, che desideravano superare concorsi pubblici in particolare nella Polizia penitenziaria, ma in qualche caso anche nella Polizia di Stato e nella Guardia di Finanza.

La modalità

Con una fitta rete di mediatori, il ragazzo o la sua famiglia che voleva superare il concorso entrava in contatto con gli organizzatori del gruppo e a loro doveva versare il denaro, ovviamente prima della prova concorsuale. Gli importi andavano dai 10mila ai 30mila euro, a seconda dell’importanza del ruolo cui si concorreva. Il gruppo avrebbe raccolto circa 282mila euro. Secondo la procura sarebbero circa ottanta i ragazzi truffati. La gang usava tecniche molto persuasive. Esibiva biglietti personali con auguri e messaggi attribuiti ad alte cariche dello Stato, millantava amicizie e aderenze. «Una volta ci invitarono a casa loro per festeggiare il compleanno di nostro figlio – raccontano due genitori al quotidiano Il Mattino –  con una torta a forma di volante di polizia e un manichino che rappresentava un agente».

La denuncia

Il sistema sarebbe saltato in seguito alla denuncia di alcuni ragazzi che non hanno superato la prova e che hanno, subito dopo, preteso la restituzione della cifra versata. «Quando chiedemmo la restituzione del denaro – hanno raccontato i genitori del ragazzo truffato, secondo quanto riportato dal Mattino – ci offrirono degli assegni scoperti».  Al rifiuto del rimborso, alcuni si sono rivolti alle forze dell’ordine – quelle vere, in questo caso – e hanno rivelato tutto. Immediatamente è partita un’indagine, alla ricerca di riscontri e si sono evidenziati decine e decine di episodi di questo tipo. Così, alla fine, sono arrivati i provvedimenti cautelari.

Vittime un po’ colpevoli

La vicenda, nel suo insieme, mette tristezza. Non sono per l’esistenza di una banda di presunti truffatori con l’intento di fare denaro sul bisogno della gente. Ma anche e soprattutto per la spregiudicatezza di tutti gli attori. E’ vero che ci sono colpevoli e vittime, eppure in casi come questi le vittime – se non penalmente, almeno moralmente – sembrano anche loro un po’ colpevoli. Possibile che nessuno si sia fatto uno scrupolo etico? Possibile che nessuno si sia chiesto se fosse giusto pagare una tangente per avere un posto di lavoro? Possibile che si finisca alla denuncia solo perchè il concorso è andato male e non si è ottenuto un rimborso? Ma soprattutto, possibile che si ambisca ad indossare una divisa per tutelare la legge e al tempo stesso si sia disponibili a farsi truccare un corcorso su misura?

Nuova scossa di magnitudo 6.5 in centro Italia: la più forte dal 1980.

Nuova scossa di magnitudo 6.5 in centro Italia: la più forte dal 1980. Gente esasperata contesta il sindaco di Norcia

Epicentro vicino a Norcia. Sisma avvertito anche a Bolzano, danni a Roma. Al momento non ci sono vittime. Renzi: “Ricostruiremo tutto”

 
Nuova scossa di magnitudo 6.5 con epicentro tra Norcia e Preci. Terrore fra la gente che è scesa in strada. A Norcia crolla la cattedrale. Il sisma avvertito da Bolzano alla Puglia. Trema anche Roma

Nuova fortissima scossa di terremoto in centro Italia alle 7:40 di questa mattina. Il sisma di magnitudo 6.5 è stato registrato nella zona compresa tra i comuni di Norcia, Castelsantangelo su Nera, Preci e Visso, alla profondità di circa 10 chilometri. Panico tra le persone che hanno lasciato le case. Segnalati diversi malori ma al momento non ci sono vittime. Il bilancio provvisorio della Protezione civile è di una ventina di feriti. Testimonianze drammatiche da parte dei sindaci dei paesi colpiti: ci sono crolli ovunque. Scossa avvertita in tutto il resto del Paese, fino a Bolzano. Danni anche a Roma dove si sono aperte crepe nella basilica di San Paolo e in un cavalcavia. Il sisma di oggi è stato più forte dal 1980, più intenso di quelli del Friuli e di L’Aquila dove, a 7 anni di distanza, ci sono stati nuovi crolli. Dopo la scossa delle 7:40 ci sono stati altri 50 episodi di assestamento di magnitudo maggiore di 3, tra cui una alle 13:07 di magnitudo 4.6 con epicentro tra Preci e Norcia. Nel frattempo a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio ha fatto il punto su quanto accaduto. “Ricostruiremo tutto, l’Italia è in grado di farlo” ha assicurato il premier. Sulla stessa linea d’onda il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Dobbiamo assolutamente difendere ed assicurare la ricostruzione del territorio” ha dichiarato da Gerusalemme

Grandi Opere, escort in cambio di appalti. Tra i 21 arresti il figlio di Monorchio, indagato Lunardi Junior

Grandi Opere, escort in cambio di appalti. Tra i 21 arresti il figlio di Monorchio, indagato Lunardi Junior

Terzo Valico e altri grossi lavori, in manette imprenditori e dirigenti in varie regioni per un valore di 324 milioni. Il Gip: “Cemento come colla”

Imprenditori e dirigenti coinvolti in attività di corruzione sugli appalti del Terzo Valico ferroviario Genova-Milano. Ma non solo: coinvolte anche le autostrade e in generale diverse grandi opere, lungo una scia di appalti truccati che va da Nord a Sud. Una vasta operazione della Guardia di Finanza che vede l’emissione di 21 ordinanze di custodia cautelare (tra Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Abruzzo, Umbria e Calabria), con accuse che vanno – a vario titolo – dalla corruzione alla tentata estorsione, concussione e turbativa d’asta fino all’associazione a delinquere. Sono state eseguite anch eperquisizioni in tutte le regioni interessate.

Le inchieste – L’inchiesta sulla Variante ferroviaria ruota intorno all’ingegnere Giampiero De Michelis. In manette anche Michele Longo e Ettore Pagani, presidente e vicepersidente di Cociv, la concessionaria impegnata sul Terzo valico ferroviario tra Genova e Milano e il general manager domestic operation di Salini-Impregilo. Gli indagati nell’inchiesta, nei vari ruoli ricoperti negli anni, avrebbero compiuto una serie di atti di corruzione, concussione e turbativa d’asta in relazione all’aggiudicazione di commesse per un valore di 324 milioni. Nella variante Grandi opere, arrestato anche Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea Monorchio, ex ragioniere generale dello Stato (dal 1989 al 2002). Tra gli indagati Giuseppe Lunardi, figlio dell’ex ministro alle Infrastrutture del governo Berlusconi, Pietro Lunardi. Ai domiciliari anche un manager della società Condotte. Scrive il gip nella sua ordinanza: “Il cemento in alcune opere sembra colla”.

“L’inchiesta nasce dalla scoperta di un circuito di riciclaggio a Roma, legato a fenomeni di stampo mafioso” spiega Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Dda di Roma, e aggiunge: “Attorno a pezzi di Grandi opere si sono create delle organizzazioni di tecnici e imprenditori che si scambiano utilità fra loro, a danno del contribuente perché sono soldi pubblici”. E Paolo Ielo, aggiunto della procura di Roma per i reati contro la pubblica amministrazione: “L’ordinanza del gip è un piccolo atlante della corruzione, attività criminale che diventa anche un ostacolo per la concorrenza del mercato”.

Prestazioni con escort e tangenti per aggiudicarsi gli appalti

Per aggiudicarsi gli appalti dei lavori per il Terzo Valico genovese gli imprenditori non pagavano soltanto tangenti ma offrivano anche prestazioni con escort. In particolare, secondo gli investigatori, la gara di appalto dei lavori per la galleria Vecchie Fornaci sarebbe stata assegnata a due società, la Europea 92 e la Cipa spa in cambio di serate con prostitute oltre che mazzette. Un sistema oliato, secondo gli inquirenti, che andava avanti da almeno un anno e mezzo.

Cos’è il Terzo Valico

La linea ad alta velocità denominata “Terzo Valico di Giovi” è stata definita di “interesse strategico nazionale”: collegherà Genova a Milano e dovrebbe essere pronta per il 2021. Il Tav ligure è un’opera che vale 6,2 miliardi e ha l’obiettivo di potenziare i collegamenti del sistema portuale della Liguria con le principali linee ferroviarie del Nord Italia e il resto d’Europa. Si sviluppa lungo 53 chilometri, di cui 37 in galleria. Il Cipe ha fissato un limite di spesa di 6,2 miliardi per il consorzio Cociv – un colosso di cui fanno parte Salini Impregilo, Condotte e Civ – che dovrà realizzare i sei lotti.

Quattro arrestati legati a Mafia Capitale

Quattro delle persone arrestate legano l’inchiesta dei Carabinieri di Roma e quella della Guardia di Finanza di Genova sulla presunta corruzione negli appalti per le grandi opere. Secondo quanto si apprende, l’indagine dei Carabinieri nasce da uno stralcio dell’inchiesta su Mafia Capitale e riguarda appunto anche quattro soggetti che avrebbero avuto a che fare con i lavori del Tav ligure e che sono anche destinatari del provvedimento della procura di Genova nell’inchiesta sul Terzo valico. In tutto le persone coinvolte sarebbero 21 in varie regioni d’Italia.

Al centro delle indagini c’è una figura, quella dell’ing. Giampiero De Michelis che è stato per lungo tempo direttore di lavori già coinvolti in varie indagini. Secondo l’accusa: avrebbe sorvolato su irregolarità di vari lavori in cambio di favori da parte di imprenditori privilegiati. In una delle intercettazioni si fa riferimento ad “Amalgama” tra dirigenti e imprenditori, da cui poi tra l’altro ha preso il nome l’operazione dei carabinieri del nucleo investigativo del Comando provinciale di Roma.

Il video della tangente

Almeno in occasione di una turbativa, gli investigatori della Guardia di Finanza hanno documentato il pagamento di una tangente. In questo ambito, i militari delle Fiamme Gialle stanno eseguendo una serie di perquisizioni finalizzate all’acquisizione di diversa documentazione in Liguria, Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Molise e Campania. Emesse anche 21 ordinanze di custodia cautelare.

Contro il mal di soldi la grande battaglia del Papa

Il Vaticano, la roba e il mal di soldi. Ecco la madre di tutte le battaglie di Francesco dentro la Chiesa

Amministrare il patrimonio della S. Sede per il Papa resta un grattacapo. Nonostante la riforma, cambiata due volte in due anni, il Pontefice non è soddisfatto

Il mal di soldi, la grande croce del Papa
Contro il mal di soldi la grande battaglia del Papa

Il mal di soldi non si guarisce con la bacchetta magica neppure in Vaticano e Papa Francesco ne sta facendo esperienza diretta. La parte più delicata della riforma avviata dopo la sua elezione riguarda i soldi, motivo di scandalo continuo nell’immaginario della gente che è portata a pensare il Vaticano come il regno dell’intrallazzo finanziario e del paradiso immobiliare. C’è una sigla, APSA (Amministrazione Patrimonio Sede Apostolica) che continua a creare problemi e non da oggi. La nomea terribile che si era fatta lo IOR (Istituto per le opere di religione) ora si è concentrata sull’APSA il vero forziere – si dice – della Santa Sede. Girano cifre importanti su quanto possiede in beni mobili e immobili oltre ad essere la vera banca da cui dipendono i pagamenti degli stupendi e delle pensioni dei dipendenti vaticani insieme alle spese correnti dei vari dicasteri e organismi.

Sembrava che fosse tutto risolto dopo il 2014 l’anno del primo documento di Francesco sulla natura e competenze dell’Apsa. Che invece sono risultate poco chiare anche dopo. Non solo per alcune operazioni economiche ma anche per i rapporti tesi con la Segreteria per l’Economia  (SPE) presieduta dal cardinale australiano Pell. Tanto malumore e confusione che Francesco è dovuto intervenire ancora con un nuovo documento di indirizzo che chiarisce le competenze della Segreteria dell’economia e dell’APSA per evitare doppioni e interferenze reciproche. La riforma prevede ora che l’amministrazione del patrimonio resta all’APSA presieduta dal cardinale Domenico Calcagno mentre il controllo dell’attività di gestione lo detiene per intero e unicamente la SPE.

A questo punto occorre ricordare che la questione della trasparenza dell’economia e del rapporto stesso tra Chiesa e denaro non è roba di adesso, ma è nata con le primissime comunità cristiane.

“Nessuno può servire due padroni”

Ma Già Gesù aveva messo sull’avviso: nessuno può servire a due padroni – Dio e il denaro – perché odierà l’uno e amerà l’altro e viceversa. I discepoli se ne accorsero ben presto di come la questione era importante e non semplice da gestire. Gli Atti degli Apostoli già nelle primissime pagine narrano che la prima comunità di seguaci di Gesù si erano accordati a mettere in comune i beni che venivano amministrati con un occhio di riguardo ai bisogni di tutti ma specialmente dei poveri. Ma ci fu un tale che pensava di fare il furbo vendendo le sue proprietà e portando agli apostoli solo parte del ricavato affermando che si trattava dell’intero. Mal gliene incolse poiché san Pietro svelò la frode fatta con astuzia da Anania e dalla moglie Saffira rimproverandolo di aver mentito a Dio con quell’imbroglio. Anania fu preso da tremore e morì sul colpo. Nei secoli successivi la Chiesa crescendo ed espandendosi in varie parti del mondo aggiornò anche il modo di amministrare donazioni e finanze passando periodi di corruzione e periodi di purificazione. E’ noto a tutti anche il commercio delle indulgenze che porto Lutero ad abbandonare la Chiesa che non voleva dare meno valore al denaro.

Nessuna meraviglia perciò che il piccolo Stato della Città del Vaticano abbia avuto negli anni seri problemi di trasparenza sulla gestione del denaro e del suo patrimonio. Il percorso di riforma delle finanze vaticane è stato più complesso del previsto. Iniziato negli anni Ottanta del secolo scorso, non si è ancora concluso. Tutti hanno potuto assistere a passi sempre più importanti per portare a termine non una rivoluzione ma una riforma a tappe a motivo della complessità della materia e del cammino da fare per aggiornare il modo di gestire il denaro secondo i criteri accettati a livello internazionale. Molto è stato fatto, ma non tutto. Anche la migliore riforma se non coinvolge il cuore delle persone non darà mai i frutti sperati. Francesco ne è cosciente e insieme alla fermezza delle decisioni pratica anche la pazienza senza arretrare di un millimetro. Nel campo economico è notorio che si possono preparare le trappole più incredibili specialmente se non si ha una pratica finanziaria necessaria. E questo ha permesso a diversi personaggi del clero alto e basso, in vaticano e nelle diocesi, di combinare pasticci e abusi creando difficoltà enormi a sanare i buchi e a rendere credibile la proposta spirituale della Chiesa.

Francesco che da subito aveva chiarito di volere una Chiesa povera per i poveri si è messo all’opera con molta lena e altrettanto prudenza sapendo che si trattava di uno scoglio davvero difficile. E così sta avvenendo. Non a caso ha messo per iscritto sulla destinazione dei beni della Chiesa che – ha chiarito nel recente documento di indirizzo e disposizioni – sono destinati al culto divino, al sostentamento del clero, all’apostolato e alle opere di carità, specialmente al servizio dei poveri. E ha sottolineato la responsabilità di porre la massima attenzione affinché l’amministrazione delle proprie risorse economiche dell’APSA sia sempre al servizio di tali fini. Si tratta di criteri tassativi e vincolanti a cui deve attenersi anche l’ente di controllo, la SPE perché ogni atto di alienazione, di acquisto o di straordinaria amministrazione posto in essere dall’APSA  dovrà essere verificato in base ai criteri stabiliti dalla superiore autorità, ossia dal Papa. Da questa indicazione di principio non si scappa, ma sbavature possono ancora accadere come è successo di recente con la stipula di un affitto chiacchierato con Mac Donald quasi adiacente al Vaticano in locali di proprietà dell’Apsa.

Pare che anche il Consiglio dei 9 cardinali che aiutano da vicino il Papa sia rimasto sconcertato. In nessun ambito come in quello dei soldi perdura una grande distanza tra il dire e il fare.

L’ansia di Francesco per mettere punto all’emorragia di credibilità della Chiesa  a causa dei soldi mal amministrati è apparsa anche nel suo incontro di maggio con i vescovi italiani esortati a ”mantenere soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio”.

Non è un caso se nelle diocesi si va diffondendo la buona pratica di affidare a dei laici credenti la gestione delle finanze delle parrocchie e delle stesse diocesi. Anche questo uso si richiama alla Chiesa primitiva. Gli Apostoli a un certo punto, con l’aumentare il numero dei fedeli, decisero di tenere per sé solo la preghiera e la predicazione del Vangelo affidando a dei fedeli di fiducia l’amministrazione dei beni e della carità verso i poveri. Nacque in tal modo la figura del diacono. Figure di grande prestigio tanto che il primo fra loro chiamato Stefano venne ucciso per la sua fedeltà al nome di Gesù divenendo il protomartire cristiano.

Chissà quante volte Papa Francesco portando avanti la riforma economica abbia pensato alla necessità per la Chiesa dei nostri giorni a fedeli laici capaci di amministrare come Stefano.

Torna a splendere dopo un anno la Scalinata di Trinità dei Monti

Torna a splendere dopo un anno la Scalinata di Trinità dei Monti

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La sindaca di Roma Virginia Raggi ha riaperto la Scalinata di Trinità dei Monti, restituendola ai romani, dopo quasi un anno di lavori di restauro finanziati dalla maison Bulgari per 1,5 milioni di euro. Ma la Scalinata più famosa del mondo, dopo essere stata sbiancata “va preservata da ulteriori situazioni che possano causare danni”, per cui Raggi è categorica: “vietati i bivacchi”. 

Krsko come Fukushima: alto rischio sismico per la centrale nucleare alle porte dell’Italia

Krsko come Fukushima: alto rischio sismico per la centrale nucleare alle porte dell’Italia

L’allarme degli esperti per il reattore si trova in Slovenia, non lontano da Trieste. Lubiana lo vuole raddoppiare: “Intervengano l’Ispra e l’Ensreg”

Krsko come Fukushima: alto rischio sismico per la centrale nucleare alle porte dell'Italia

Krsko come Fukushima. Alto rischio sismico e possibilità non così remota che da un evento eccezionale possa derivare un disastro come quello che ha riguardato la centrale nucleare dell’isola giapponese di qualche anno fa. E stavolta il rischio reale riguarda anche l’Italia. Perché è vero che la centrale nucleare di Krsko (che rimarrà in attività fino al 2043) si trova in territorio sloveno, ma è anche vero che in linea d’aria dalla località balcanica a Trieste ci sono pochi chilometri. Anche se in Italia la produzione di energia atomica da centrali nucleari è proibita dalla legge, non per questo il nostro territorio va esente da conseguenze potenzialmente catastrofiche. Che, stando a quanto hanno raccontato i ricercatori Kurt Decker dell’università di Vienna, Livio Sirovich dell’istituto nazionale di Oceanografia e geofisica sperimentale di Trieste e Peter Suhadolc dell’università di Trieste, durante l’audizione in commissione Ambiente, la possibilità è tutt’altro che remota.

A Fukushima il rischio fu ignorato

Del resto, hanno sottolineato gli studiosi, anche a Fukushima era noto il rischio sismico che scientemente era stato ignorato.Fino al terribile epilogo. “Si sa che a Krsko possono ripresentarsi terremoti forti almeno quanto quello già verificatosi nel 1917 (magnitudo Richter circa 6), ma probabilmente anche ben più forti; e si sa che un terremoto così, proprio sotto la centrale, potrebbe avere conseguenze gravissime”, hanno sostenuto gli studiosi citati dal Piccolo di Trieste. “Ma si spera. E per alimentare queste ‘speranze’ si producono montagne di documenti e analisi, secondo noi in parte addomesticate”, precisano.

In programma il raddoppio della centrale

Una prospettiva non certo rassicurante, visto che Lubiana pare abbia in agenda il raddoppio della centrale (la cosiddetta Krsko-2, di potenza tripla). Secondo la senatrice goriziana del Pd, Laura Fasiolo, che ha organizzato l’audizione a palazzo Madama, questo fatto è gravissimo e deve destrare nelle istituzioni italiane una particolare attenzione. All’ipotesi del raddoppio è necessario opporsi. “I principali motivi di preoccupazione per la sicurezza sismica del reattore di Krsko-1 e la non opportunità di costruirvi accanto il reattore Krsko-2 si riassumono in due dati”, scrivono gli esperti.

Il primo è il seguente: “In Europa c’è un solo reattore nucleare in zona sismica di livello medio alto: quello di Krsko. Il sito è nella direzione in cui soffia la Bora”. Dettaglio che ne fa un sito piuttosto pericoloso per l’Italia in caso di incidente. Inoltre c’è da sottolineare che quando è stato realizzato il sito negli anni ’70, della sismicità dell’area non si sapeva nulla. Oggi però si sa, e questo rende necessaria una valutazione più ampia e completa sull’opportunità di raddoppiare l’impianto.

Anche l’Europa chiamata in causa

Gli studiosi, che precisano di parlare a titolo personale e non a nome degli istituti nei quali lavorano, sottolineano però come con ogni evidenza l’ente sloveno che si occupa della verifica dei rischi connessi al raddoppio della centrale tendano a sminuire. All’idea bisogna opporsi con forza, dicono gli studiosi. E chiamano in causa l’Istituto per la sicurezza nucleare francese che già si è espresso contro Krsco e l’Ispra, l’ente competente italiano, che dovrà farsi carico di raccogliere le osservazioni dei tecnici italiani e convogliarle poi all’ente europeo Ensreg.

L’odissea di Alessandro Ruffilli: “Io trasferito perché non mi son fatto corrompere”

L’odissea di Alessandro Ruffilli: “Io trasferito perché non mi son fatto corrompere”

Ha rifiutato una licenza a un locale senza i requisiti e quando è arrivata una provvidenziale “sponsorizzazione” ha detto no. E’ stato l’inizio dei suoi guai

Alessandro Ruffilli, il funzionari del Comune di Forlì
Alessandro Ruffilli, il funzionari del Comune di Forlì

Durante una recente trasmissione televisiva di successo del Martedì il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo e il presidente di Garzanti Libri Gherardo Colombo, ambedue ex magistrati del pool di Mani pulite, concordavano su un fatto: oggi l’Italia è un Paese in cui risulta spesso più conveniente essere disonesti che onesti. Da questo punto di vista la storia di Alessandro Ruffilli, riproposta da La Stampa, è quanto mai emblematica.

Siamo a Forlì. L’anno è il 2013.

Ruffilli, 50 anni, è un funzionario amministrativo comunale incaricato di rilasciare le licenze per l’apertura degli esercizi pubblici. Un giorno arriva la richiesta di un locale che risulta non avere tutti i requisiti previsti dalla legge. Ovviamente l’atto amministrativo non può essere rilasciato.

Per quel nuovo locale tuttavia hanno già fissato l’inaugurazione. Non si può attendere. Così alla associazione di danza di cui l’impiegato è presidente – stando all’accusa – arrivano, per le strade imperscrutabili della divina provvidenza, 2mila euro a titolo di “sponsorizzazione”. Sotto altri versi si potrebbe parlare di tentativo di corruzione, anche se l’ultima parola è demandata ai giudici.

Un chiaro segno di buona volontà destinato – verrebbe da dire – a oliare la pratica e garantire il risultato voluto.

Ruffilli però si dimostra un uomo e dipendente pubblico onesto. Non solo rifiuta quella “gratificazione” ma denuncia immediatamente tutto alle autorità. Alessandro viene assistito dalla Guardia di Finanza che terrà gli occhi vigili sulla vicenda e sui soggetti coinvolti. E la licenza comunque non viene ancora concessa, mancando le condizioni necessarie al rilascio.

Qui scatta il fatto sconcertante.

Quando il funzionario del Comune si trova in ferie la licenza viene sbloccata da un dirigente. Non solo. Ruffilli viene trasferito in men che non si dica in un altro ufficio e sottoposto – come lui stesso racconta nel libro “Ordinaria corruzione” – a una vera e propria attività di mobbing.

“Mi hanno messo in una stanza piccolissima, di fronte a quella dove stavo prima. Di fatto poi non mi danno più nulla da fare”, racconta. Scattano anche ritorsioni di vario tipo, e l’uomo viene accusato di voler intralciare e rallentare il rilascio dell’autorizzazione per l’apertura del famoso locale.

Inevitabile l’intervento del giudice del lavoro che dichiara illegittimo il trasferimento.

Il processo sul tentativo di corruzione tuttavia non è ancora concluso, nonostante siano trascorsi 3 anni dai fatti, e siano stati compiuti dei passi importanti. Un testimone – per esempio – pare abbia ammesso che “furono fatte delle pressioni politiche sugli uffici per rilasciare la licenza”.

Intanto però i colleghi, volontariamente o involontariamente, finiscono con l’isolare il funzionario reo di troppa trasparenza. “Si contano sulle dita di una mano quelli che mi hanno dimostrato solidarietà”, dichiara Ruffilli sul giornale. Attorno a lui si crea un clima da ostracismo. “Anche quelli che mi esprimono vicinanza – dice – lo fanno di nascosto”.

Una delle cose più umilianti comunque è la mancanza di un vero carico di lavoro.

“Nei primi giorni dell’anno mi sono state date 7 o 8 pratiche su cui lavorare, che ho smaltito in poche ore e lunedì 2 maggio mi è stato consegnato un fascicolo da esaminare per successivi sviluppi. Nient’altro. Dal 19 aprile 2016, poi, sono stato nuovamente trasferito. La situazione per me è invivibile”, dichiara in una intervista concessa a Fanpage il 5 maggio 2016. Nel frattempo “ci sono colleghi che mi hanno tolto il saluto”, spiega.

Chissà se qualche volta si è pentito di essere tanto integerrimo.

I prezzi da pagare in nome dei propri sani principi sono sicuramente alti. “Con una moglie casalinga, gli avvocati da pagare e uno stipendio di 1500 euro è davvero dura sbarcare il lunario”, sospira sconsolato.

Anche per questo, all’interno dell’autorità anticorruzione, si è cominciato a parlare di un fondo da istituire per aiutare le persone oneste che, come Ruffilli, hanno il coraggio di dire no. Per pagarsi le spese legali o trovare un sostegno in caso di perdita del posto di lavoro.

A chi dovesse trovarsi nella sua situazione Alessandro consiglia di “denunciare subito”.

Per ricevere suggerimenti e aiuto dalle forze dell’ordine e, soprattutto, non rendersi complici. Non agire in questo modo del resto “significa accettare l’esistenza di un sistema che schiaccia l’imprenditoria sana e gli onesti”, afferma.

Perché Alessandro Ruffilli, uomo retto in un Paese difficile punteggiato di furbetti (per usare un eufemismo), ne è convinto: “E’ vero che si pagano dei prezzi ma si finisce col diventare anche più forti e in pace con sé stessi”. E forse è proprio vero. Ogni piccolo atto di coraggio rende migliori e  contribuisce a cambiare il mondo.