Sclerosi multipla fermata grazie ad un farmaco sperimentale

Sclerosi multipla fermata grazie ad un farmaco sperimentale

Test condotti sui topi, ma il team avvierà ora una sperimentazione sull’uomo

Sclerosi multipla fermata grazie ad un farmaco sperimentale

Un team di scienziati della University of California di San Francisco, che si è avvalso della collaborazione di alcuni membri della American Academy of Neurology, ha individuato un farmaco sperimentale in grado di bloccare la progressione della sclerosi multipla. Il farmaco, stando a quanto pubblicato sulle pagine della rivista Neurology: Neuroimmunology & Neuroinflammation, si chiama Laquinimod e, sebbene per il momento sia stato testato sulle sole cavie animali, avrebbe rallentato la progressione della malattia e in diversi casi lo sviluppo della stessa.

La sclerosi multima in Italia e nel mondo

La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa demielinizzante che colpisce circa 2,5 milioni di persone in tutto il mondo. Soltanto in Italia si contano 113 casi ogni 100 mila abitanti. Attualmente nel nostro Paese si contano circa 68 mila soggetti affetti da questa patologia, per un totale di 1800 nuovi casi ogni anno. Particolarmente colpita è la Sardegna, con un tasso d’incidenza di gran lunga superiore alla media nazionale. In Europa i Paesi che presentano una maggiore diffusione della malattia sono Danimarca (227 casi ogni 100 mila abitanti), Svezia (189) Ungheria (176), Regno Unito (164). In Europa dell’est, Francia, Spagna e Portogallo i dati sulla prevalenza di Sm sono inferiori rispetto a quelli degli altri Paesi.

Una scoperta importante che accende la speranza

“Abbiamo ottenuto dei risultati estremamente promettenti che ci danno speranza anche per le persone con sclerosi multipla progressiva, una versione avanzata della malattia per la quale non esiste attualmente alcun trattamento”, spiega l’autore dello studio Scott Zamvil, ricercatore presso la University of California e Fellow della American Academy of Neurology. Laquinimod è un farmaco in fase di sviluppo per la sclerosi multipla recidivante-remittente (SMRR) e SM progressiva primaria. SMRR è caratterizzata da inaspettate e ricorrenti ricadute. In circa l’80 per cento di tutti i pazienti la malattia inizia come RRMS. Dopo circa 10 anni, la maggior parte dei pazienti sviluppano la sclerosi multipla secondaria progressiva che aumenta gradualmente la disabilità, senza periodi di recupero.

Compresa l’esatta azione del Laquinimod

Il farmaco, sostanzialmente, altera il comportamento delle cellule del sistema immunitario e impedisce loro di entrare nel cervello e nel midollo spinale, riducendo così i danni alla mielina. Gli studi hanno indicato che Laquinimod può avere sia un’ azione antinfiammatoria che la capacità di proteggere la struttura dei nervi e la loro funzione. I ricercatori hanno testato il farmaco direttamente su un discreto numero di topi che avevano sviluppato la sclerosi multipla. Ad un primo gruppo è stato somministrato il Laquinimod per via orale mentre, al secondo gruppo un normale placebo. Il primo gruppo, che comprendeva 50 ratti affetti da SM, si è dimostrato in grado di contrastare meglio l’insorgenza della malattia: il 29% dei topi trattati con Laquinimod ha sviluppato la sclerosi multipla contro il 58% dei topi che hanno ricevuto il placebo. C’è stata inoltre una riduzione del 96% delle cellule B presenti esclusivamente nei soggetti con SM progressiva. Secondo i ricercatori, i risultati indicano che il farmaco può impedire lo sviluppo e la progressione della patologia.

Presto il via alla sperimentazione sull’uomo

Gli scienziati hanno condotto anche una seconda sperimentazione, somministrando il farmaco su 22 topi che mostravano uno stadio ormai avanzato della malattia. Il team ha osservato una importante riduzione nella progressione della SM. Rispetto ai topi che hanno ricevuto il placebo, i topi che sono stati trattati con Laquinimod hanno presentato una riduzione del 49%  delle cellule dendritiche che aiutano a creare cellule specializzate T, una riduzione del 46% delle cellule T e un calo del 60% di anticorpi dannosi. “Ora sappiamo come agisce il Laquinimod – ha commentato Scott Zamvil -. Ora abbiamo bisogno di condurre ulteriori test sull’uomo, così verificare se il medicinale produce gli stessi effetti”.

Shimon Peres, “sognatore inappagato”

Shimon Peres, “sognatore inappagato”. L’inno di pace cantato con Rabin prima del suo assassinio

Shimon Peres, “sognatore inappagato”. L’inno di pace cantato con Rabin prima del suo assassinio

Mondo
La sera del 4 novembre 1995 i due politici erano insieme sul palco sulla piazza dei Re di Tel Aviv, a fianco della cantante folk Miri Aloni. Poi Rabin venne ucciso. “Non ho mai più dimenticato quella maledetta sera”, disse Peres.

Shimon Peres amava i racconti dei hassidim di Martin Buber, me lo confidò un giorno, quando mi regalò il suo libro “Que le soleil se lève” (in francese, per i tipi di Odile Jacob, 1999), dedicato a Yitzhak Rabin, assassinato da un estremista della destra israeliana la sera del 4 novembre 1995. Chi uccise il premier laburista aveva un obiettivo ben preciso: ammazzando Rabin aveva ammazzato la speranza di pace coi palestinesi, che Rabin e Peresavevano cercato di avviare e per la quale avevano ricevuto nel 1994 il premio Nobel per la Pace, condiviso con Yasser Arafat, il capo dell’Olp.

 

dedica-peresIl libro di Peres è una dolorosa meditazione sull’esercizio del potere, la responsabilità che ciò implica e la sua dimensione profetica, in sintonia con la tradizione hassidica: una storia va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto. Che porti fervore. Che stimoli passione. Che susciti nuovo entusiasmo. Un mix di saggezza e fede: fin dal titolo, il primo verso di un inno della pace. Quella sera di ventun anni fa, sulla piazza dei Re di Tel Aviv, dove Rabin aveva appena concluso un comizio, la folla cantava e ballava. La cantante folk Miri Aloni lo invitò ad intonare con lei l’inno, “che sorga il sole e dia luce al mattino”. Una canzone che all’inizio venne bollata di disfattismo, quando apparve in Israele alla fine degli anni Sessanta, sull’onda lunga di Bob Dylan, Joan Baez e Leonard Cohen, tanto da diventare la colonna sonora del movimento pacifista.

Né Rabin né Peres sapevano cantar bene, “e non ci ricordavamo le parole a memoria dell’inno”, ricordò Peres, “così ci diedero un foglio con il testo”. Con una certa riluttanza, Rabin si mise alla sinistra della cantante, Peres alla destra. Col senno di poi, le parole dell’inno sembrano oggi una sorta di premonizione: “La preghiera più pura non riporterà indietro/ colui la cui candela fu spenta e sepolta nella polvere/ Un pianto amaro non lo sveglierà, non lo riporterà indietro/ Nessuno ritornerà qui da noi dal nero pozzo della morte/ e non serviranno né le grida di vittoria né i canti di preghiera/ così cantate solamente un canto per la pace/ non mormorate una preghiera/ ma piuttosto cantate un canto per la pace, cantatelo forte”.

Dopo aver cantato, Yitzhak piegò meticolosamente – una sua abitudine da generale – il foglietto e se lo infilò in una tasca interna della giacca. Nel frattempo, venne il turno di Avi Geffen, la rock star beniamina delle teenager israeliane. Eseguì “Piangere per voi”, e la dedicò a “tutti quanti non avranno la fortuna di veder albeggiare la pace”.

Sembra la trama di una tragedia, ma Peres era lì. “Non ho mai più dimenticato quella maledetta sera”, mi disse. Mira Aloni sussurrò a Leah Rabin, la moglie di Yitzhak: “Stai attenta a lui”. Leahrispose: “Farò il possibile”. Poco dopo, Rabin scende dal palco. Va incontro alla morte: Yigal Amir esplode a bruciapelo due colpi contro la schiena del primo ministro. Una pallottola centra il cuore, “trapassando il foglio di carta col testo dell’inno e macchiandolo di rosso, il rosso del suo sangue”.

Peres e Rabin si conoscevano da mezzo secolo, avevano militato nello stesso partito laburista, erano stati con Moshe Dayan i prediletti di David Ben Gurion, il fondatore di Israele. Ma non si erano mai molto amati, anzi, spesso avevano rivaleggiato. “La loro relazione poteva essere paragonata a un matrimonio intenso e tormentato”, era il punto di vista del filosofo Avishai Margalit, grande esperto delle realtà complesse (sovente nascoste) della vita politica israeliana. Rabin e Peres, una coppia “passata attraverso molti anni di ostilità e risentimento durante la lotta per il potere all’interno dell’alleanza laburista. Ma l’essersi dovuti avvicinare ha trasformato anno dopo anno la loro relazione da odio attivo in un odio più astratto, quasi platonico, e infine in qualcosa che ricorda un’amicizia. Analisi confermata dallo stesso Peres: “Proprio come ho avuto con lui una rivalità senza pari, così negli ultimi anni ho avuto con lui un’amicizia senza pari. Sono rimasto stupito dalla grandezza di quest’amicizia”. I due si consideravano gli ultimi pesi massimi rimasti a combattere nel ring politico di Israele, gli altri, soprattutto Benjamin Netanyahu per loro erano solo pesi leggeri. Erano, insieme, politicamente formidabili.

L’assassinio di Rabin non solo è la fine di un progetto politico ambizioso, è la fine di un potere che vedeva pregi e difetti di ciascuno compensati e reciprocamente equilibrati: tanto Peres si lasciava prendere da impulsi e voli pindarici, tanto Rabin ne temperava l’immaginazione col prosaico rispetto per i dettagli. Peres sa che da solo sarà tutta un’altra cosa. Ai funerali di Rabinpartecipano in un milione. Ma poi, l’effetto Rabin si smorza sotto l’impeto di Netanyahu che solo pochi mesi prima aveva aizzato le piazze perché si opponessero a Rabin e al processo di pace. Prevalse l’effetto terrore di Netanyahu. Peres perse le elezioni del giugno 1996: “A guardare indietro la mia vita – disse qualche tempo dopo – mi viene in mente un’espressione coniata da Gabriel Garcia Marquez in un uno dei suoi racconti: “Un sognatore inappagato”.

La settimana in cui perse le elezioni, in una rubrica di un quotidiano spiccava il titolo: “Peres è ancora in testa nei sondaggi”. Infatti era la sua specialità. Andò così nel 1977, 1981, 1984, 1988. Nel 1992 vinse: capo del partito laburista era Rabin. Perse anche la corsa alla presidenza, nel luglio del 2000. Poi, nel 2005 diventa vicepremier nel governo di coalizione guidato da Ariel Sharonche gli affida un ministero di basso rango: lui accetta, anzi, addirittura lascia il partito laburista per entrare nel partito (centrista) Kadima fondato da Sharon. E’ una moneta di scambio: una mossa che rivela il suo carattere pragmatico. Due anni dopo, infatti, Peres è il candidato unico alla presidenza. Ma viene eletto solo al secondo scrutinio. Resta in carica sino al luglio del 2014.

Da presidente, Peres si mostra coerente con la vecchia idea della pace, e rilancia il dialogo coi palestinesi: “Continuerò a costruire il mio paese conservando la convinzione che un giorno conoscerà la pace”, ripete. Si incollerisce (due anni fa) perché viene diffuso il film sulla morte di Rabin, “sotto l’aspetto di un innocentedocumentario, si fa circolare un messaggio destinato a legittimare e a sbiancare un odioso assassinio!”, deplorando che sia stato prodotto anche con contributi pubblici. Tre mesi fa, in un’intervista collettiva concessa ad alcuni giornalisti italiani, ha ribadito le sue speranze di pace coi palestinesi: la porteranno i ragazzi innovatori (lui è sempre stato un gran sostenitore del progresso tecnologico), “mi hanno accusato di essere un utopista. A costoro dico: calcola quanti risultati hai raggiunto e quanti sogni hai avuto. Se i sogni superano i risultati, sei giovane”.

Quando incontrò per la prima volta Ben Gurion, era il 1946 e Peres era solo “un giovane sconosciuto” (parole sue), appena nominato segretario del movimento giovanile laburista. La sua piccola famiglia borghese, di origine polacca – Vishneva, una piccola shtetl ebraica in Polonia, oggi Bielorussia: il suo nome era Shimon Persky – era emigrata in Palestina nel 1933. Il gruppo socialista in cui Peres era entrato fondò il kibbutz Poriya, sul mare di Galilea, per spostarsi pochi mesi dopo in cima ad una collina dei dintorni. Già allora, del “sognatore” Peres si diceva: “Questo kibbutz è troppo piccolo per lui”.

Nel 1947 viene reclutato dall’Haganah, la più grande organizzazione militare clandestina ebraica. Quando nasce Israele, il 5 maggio del 1948, l’Haganah si trasformò nelle Forze di Difesa israeliane. Gli offrirono un posto equivalente a quello di generale di brigata, lo stesso grado che all’epoca avevano Dayan e Rabin. Rifiutò. Preferì arruolarsi “come semplice soldato”. Una scelta che rimpianse, quella di non essere stato ufficiale e che lo perseguitò sempre. Gli avversari glielo rinfacciavano, soprattutto quando Peres voleva accreditare la sua ferma opposizione al terrorismo: la gente diceva che aveva comunque l’aria troppo da civile.

Il grande affare dell’autostrada colabrodo

Il grande affare dell’autostrada colabrodo sotto accusa per la strage di Padre Pio

Nel luglio del 2013 in un incidente stradale morirono 40 persone che tornavano a casa dopo una visita a Pietrelcina. Rinviata a giudizio la catena di comando della Società Autostrade

Il grande affare dell'autostrada colabrodo sotto accusa per la strage di Padre Pio
di Giovanni Maria Bellu

L’incidente stradale che avvenne la notte tra il 28 e il 29 luglio del 2013, quando un pullman precipitò dal viadotto Acqualonga, della autostrada A 16 è uno dei più gravi – morirono 40 persone che tornavano a casa dopo una tappa a Pietrelcina nei luoghi di Padre Pio – della storia delle autostrade italiane. A causarlo – secondo la procura di Avellino che ha rinviato a giudizio quindici persone – le condizioni del mezzo e quelle della strada. Il pullman (che non era in regola con la revisione) aveva l’impianto frenante difettoso e i bulloni che fissavano il guard rail erano usurati: la barriera protettiva non resse all’impatto e il pesante mezzo precipitò per trenta metri. I rinviati a giudizio sono infatti il proprietario del bus, due impiegati della Motorizzazione (per la falsa certificazione revisione) e l’intera catena di comando della Società Autostrade per l’Italia, a partire dall’amministratore delegato,  Riccardo Castellucci.

 

Quelle responsabilità che nessuno ha mai voluto prendersi

Secondo i periti, i cavi d’acciaio (il cui nome tecnico è “tirafondi”) che fissano al suolo il guard rail erano gravemente usurati “da almeno un decennio”. Quindi dall’inizio degli anni Duemila. Teniamo a mente questa data perché è decisiva nella storia sconcertante che leggiamo oggi sulle pagine del Fatto quotidiano in un articolo a firma di Giorgio Meletti. Ma diciamo prima che la difesa della società autostrade – affidata a uno dei migliori penalisti italiani, Franco Coppi – contesta la ricostruzione dell’accusa. Sia dal punto di vista tecnico (la tesi è che il guard rail fosse comunque idoneo a reggere urti violenti e che la catastrofe fu provocata da una combinazione di sfortunate e imprevedibili circostanze) sia dal punto di vista delle responsabilità relative alla manutenzione. Quel tipo di manutenzione, sostiene la difesa, non spettava direttamente alla Società Autostrade ma doveva essere realizzato nell’ambito della programmazione generale di interventi sull’intera rete delle autostrade nazionali. Torniamo ora a quei bulloni usurati e all’ultima volta che qualcuno andò a verificarne lo stato. Torniamo all’inizio degli anni Duemila quando l’Iri, fino ad allora azionista di riferimento,  decise di privatizzare la Società Autostrade che fu ceduta per 7 miliardi di euro. Un ottimo affare per gli acquirenti se si considera che oggi la holding che le controlla – Atlantia Spa il cui principale azionista è la famiglia Benetton –  vale in Borsa circa 18 miliardi.

Dei colossali profitti della concessionaria si parla da anni

Nel 2008 il saggio di Giorgio Ragazzi “I signori della Autostrade” (Il Mulino)  spiegò che la logica che inizialmente era stata alla base del sistema tariffario, era stata progressivamente stravolta. Fino agli anni Cinquanta i pedaggi dovevano servire a coprire i costi operativi e l’ammortamento dei debiti, poi cominciano a crescere per dare ossigeno all’Iri. Le concessioni vennero prolungate ben oltre il tempo necessario per il recupero del capitale investito. Le autostrade diventarono “galline dalla uova d’oro”.  E, a quanto pare, queste “uova d’oro”, questi enormi profitti, devono essere garantiti comunque. Anche se, come è accaduto, il numero degli automezzi che varcano i caselli diminuisce.

Comprese le cause di questo strano “miracolo italiano”

L’inchiesta della procura di Avellino sulla strage del viadotto ha consentito finalmente di capire le cause di questo strano “miracolo italiano”. La magistratura ha infatti acquisito il “piano finanziario” sottoscritto il 12 ottobre del 2007 dalla Società Autostrade e dall’Anas. Un documento rimasto fino a ora sconosciuto in nome di una curiosa estensione del concetto di privacy. Bene, questo piano finanziario – che elenca le previsioni di traffico, i costi e i guadagni fino al 2038, data di scadenza della concessione – stabilisce che se il traffico sarà superiore al previsto la concessionaria devolverà il 75 per cento degli ulteriori  introiti allo Stato per nuovi investimenti nel settore autostradale. Già, ma se il traffico invece diminuisce e le tariffe aumentano? Questo caso – che poi è quello che si è realizzato – la convenzione non lo prevede.  Così è successo che la tariffa sia passata dai 6,4 centesimi per chilometro del 2008 agli 8,3 del 2015. Con un aumento del 30 per cento. E che rispetto alle previsioni della convenzione, la Società Autostrade abbia incassato 4,5 miliardi in più senza dover restituire niente allo Stato perché, appunto, sono aumentate solo le tariffe non il traffico.

Stiamo parlando di miliardi di euro

Cifre gigantesche che vanno nelle tasche dei privati. Cifre che fanno ancora più impressione in queste ore, quando il governo è impegnato in un braccio di ferro con Bruxelles  per ottenere – in nome dell’emergenza causata dal terremoto e dagli impegni sul fronte dell’immigrazione – 6,5 miliardi. Eppure, proprio negli anni più pesanti della crisi economica, il gigantesco flusso di denaro prodotto dalle autostrade e dall’aumento dei pedaggi – una vera e propria tassa – è andato avanti senza che nessuno dei governi che si sono succeduti decidesse di intervenire.  Se non altro per definire in modo inequivocabile i doveri della concessionaria in relazione ai vari aspetti della manutenzione. A partire dai bulloni dei guard rail.

Leonard Cohen, artista assoluto!

Leonard Cohen, artista assoluto!
Poche righe su questo artista assoluto della musica

Leonard CohenLeonard CohenE’ morto un artista assoluto della musica, un visionario, un poeta. Leonard Cohen aveva 82 anni. Una vita in musica, una musica per la vita. Dagli eccessi alla ricerca spirituale, all’amore, al sesso, alla religione, all’antipolitica. Dopo aver imparato a suonare la chitarra, aver avuto ispirazione da Federico Garcia Lorca, intraprese la strada della poesia, ma non ebbe un gran successo, almeno inizialmente. Conobbe molti artisti folk e rock che influenzarono la sua vita d’artista, una vita che lo consacrò nel mondo della Musica.

 

Morto Carlo Azeglio Ciampi, portò l’Italia tra i grandi dell’euro

Morto Carlo Azeglio Ciampi, portò l’Italia tra i grandi dell’euro

Il Presidente emerito della Repubblica aveva 95 anni

FOCUS / I retroscena dell’elezione di Ciampi di E.M. COLOMBO

Carlo Azeglio Ciampi, il presidente di tutti

Roma, 16 settembre 2016 – Carlo Azeglio Ciampi è morto all’età di 95 anni. Primo presidente del Consiglio e primo Capo dello Stato non parlamentare nella storia della Repubblica,  è stato il terzo inquilino del Quirinale a essere eletto al primo scrutinio dopo Enrico De Nicola e Francesco Cossiga. Allievo della Normale di Pisa, Ciampi ha sempre amato ricordare come da quella straordinaria scuola universitaria siano usciti tre premi Nobel (Giosuè Carducci, Enrico Fermi e Carlo Rubbia) e un altro presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. “Dalla quarta elementare alla fine del Liceo — raccontò — studiai dai gesuiti. Subito dopo passai alla Normale e mi trovai in un ambiente estremamente laico, quasi ateo. Nella scuola religiosa mi è stato insegnato l’amore per il prossimo. In quella della Normale, in particolare da Guido Calogero, mi è stato insegnato il rispetto per il prossimo al quale riconosci i tuoi stessi diritti e per il quale devi combattere ancora prima che per i tuoi”.

LA NOTIZIA / E’ morto Carlo Azeglio Ciampi

ALLA FINE della guerra — dove si era impegnato nel nuovo Esercito Italiano e si era iscritto al Partito d’Azione, l’unica forza politica di cui fece mai parte — pensava di fare l’insegnante di latino e greco in un liceo classico, ma gli fu inaspettatamente offerto di entrare, come impiegato, nella filiale di Macerata della Banca d’Italia dove rimase per 11 anni prima di essere chiamato a Roma nell’Ufficio studi.

Ne sapeva poco, Ciampi, di macrosistemi economici e così, ha raccontato, “mi misi a studiare come un matto”, divenendo in poco tempo responsabile del settore che si occupava di economia reale. La carriera non ebbe soste fino a quando divenne Governatore dopo le improvvise dimissioni di Paolo Baffi, ingiustamente accusato da un giudice della Procura di Roma. Non fu un viaggio tranquillo il suo: due crisi valutarie nel 1985 e nel 1992, il fallimento del Banco Ambrosiano, l’omicidio di Roberto Calvi camuffato da suicidio, l’assassinio dell’avvocato Ambrosoli e lo scandalo dello Ior, la banca vaticana.

VIDEO / Ciampi ricorda la nascita della Rai

Ma ecco una nuova, improvvisa svolta alla sua vita: il 26 aprile del 1993 il presidente Scalfaro lo convoca al Quirinale, una passeggiata dalla sede della Banca d’Italia, e lo incarica di formare il governo dopo il crollo della Prima Repubblica. E fu Ciampi, nell’Italia che doveva fare un grande sforzo per riuscire ad entrare nell’Europa dell’euro, a inventare il sistema della concertazione tra il governo e le parti sociali, un sistema che durò per quindici anni. “Quell’accordo — scrisse Ciampi — è stato fondamentale per portare stabilità nell’economia italiana, stabilità che va strettamente collegata con la crescita”. L’ultimo balzo avverrà, il 13 maggio 1999, con l’elezione a Capo dello Stato. Da presidente, ogni settimana andava a fare la prima colazione in Vaticano con Giovanni Paolo II e conversavano per un’ora di tutto. Un’abitudine che durò fino a due mesi prima della morte del Papa.

FACENDO un bilancio del suo settennato, ha raccontato ad Arrigo Levi, che lo ha scritto nel suo bel libro ‘Da Livorno al Quirinale’: “Ho incontrato molti giovani. Spesso sono preoccupati della loro precaria condizione, ma ho osservato che non cadono nel disincanto o nel cinismo. Affrontano la realtà per quello che è e si preparano a cambiarla. Questo è il punto: il ricambio generazionale, che si avrà quando questi giovani chiederanno con vigore ai loro padri ‘Ora fatevi da parte’. E’ ciò che fece la mia generazione all’indomani della guerra. Dicemmo ‘Ora tocca a noi’. Ce la facemmo. Anche loro ce la faranno”.

Key Crime, l’algoritmo anti-rapine. Incastra i banditi e prevede i colpi

Key Crime, l’algoritmo anti-rapine. Incastra i banditi e prevede i colpi

Milano, adottato dalla questura ha ridotto del 57% il numero dei reati

Mario Venturi, il 'papà' di Key crime

Mario Venturi, il ‘papà’ di Key crime

SI CHIAMA Key Crime e si tratta di un software in uso alla questura di Milano che in otto anni di sperimentazione ha permesso di ridurre del 57% le rapine e di scoprire i responsabili in tre casi su quattro. Risultati sorprendenti che non sono passati inosservati nemmeno all’estero.
Di Key Crime, infatti, ha parlato anche Peter Orszag, già collaboratore di Bill Clinton e di Barack Obama alla Casa Bianca. Trattando degli scarsi risultati ottenuti dalla polizia statunitense nella risoluzione dei delitti, Orszag ha citato il software milanese. «Diminuire il tempo di scoperta dei reati è possibile – ha spiegato – a Milano, in Italia, la polizia usa da quasi un decennio Key Crime, un software che predice le rapine in base a giorno, ora e luogo degli eventi già accaduti correlando dettagli sui criminali coinvolti e sulle loro armi».

I RISULTATI dell’applicativo per la soluzione e prevenzione delle rapine sono stati studiati anche da un ricercatore dell’Università di Essex, in Inghilterra, Giovanni Mastrobuoni, che ha calcolato in 2,5 milioni di euro il danno evitato per i colpi in meno che si sono verificatI e per i bottini recuperati grazie a Key Crime. Dietro all’invenzione di questo applicativo non ci sono gruppi di ricercatori e super esperti di programmazione informatica. A realizzarlo è stato un poliziotto della squadra mobile di Milano, Mario Venturi, che in autonomia ha comincito a pensare e creare il software. Intravedendone le potenzialità, la questura di Milano ha appoggiato le ‘ricerche’ di Venturi e dal 2009 ha adottato l’applicazione per sperimentarla. Il programma può essere utilizzato per tutti i delitti seriali, per ora però è stato adottato solo per le rapine.

MA COME funziona? I poliziotti raccolgono, come hanno sempre fatto, le denunce delle rapine che vengono passate nell’ufficio addetto alla raccolta e analisi dei dati. Qui tutti i dettagli vengono inseriti nel sistema Key Crime e spesso gli agenti richiamano le vittime per chiedere ulteriori particolari, per esempio in che mano il bandito teneva l’arma o descrizioni di travisamento e corporatura. A questo punto entra nel vivo il software. Attraverso algoritmi, trova correlazioni tra i vari colpi e verifica la possibile serialità: se il riscontro è positivo viene dato un nome al presunto bandito ritenuto il responsabile dei vari colpi. Ma Key Crime non si ferma qui. Ha infatti la capacità di prevedere le rapine: sulla base dei dati immessi calcola gli obiettivi più a rischio in una determinata area della città, il giorno e l’ora in cui è più probabile che il bandito entri in azione. In questo modo vengono predisposti servizi mirati, utilizzando anche personale in borghese: il risultato è che i rapinatori molto spesso vengono arrestati in flagranza oppure la presenza della polizia li mette in fuga prima che entrino in azione.

PER QUESTO i risultati ottenuti da Key Crime sono notevolmente significativi. Nel 2008, l’anno prima dell’inizio dell’utilizzo del software, a Milano le rapine ai danni di farmacie, negozi e supermercati sono state 664, nel 75% dei casi l’autore non è stato individuato. In otto anni i numeri si sono invertiti: ora il 74% delle rapine ha un colpevole noto e nel 2015 il numero dei colpi messi a segno è sceso a 283.

La criminalità parla straniero. “Ecco il Belpaese dell’impunità”

La criminalità parla straniero. “Ecco il Belpaese dell’impunità”

L’allarme: colpiscono perché sanno di tornare in libertà entro 48 ore

Grafico su il Resto del Carlino

Grafico su il Resto del Carlino

Bologna, 7 ottobre 2016 – PRESUNTI jihadisti, pirati della strada ma soprattutto ladri, tanti tantissimi ladri. Criminalità e stranieri. La mappa del Paese indulgente non lascia indietro proprio nessuno, da Udine a Palermo. In quest’Italia «che profuma di oleandri e di perché», come cantava Mino Reitano e anche – a sfottò – il georgiano arrestato a Reggio Emilia a luglio e subito scarcerato. Si preparava con due complici a svaligiare una casa. «Italia Italia», ha intonato dopo la direttissima. Per forza era allegro: fuori subito. Uno dei complici, pregiudicato, ha avuto l’obbligo di firma. Stessa soluzione per i nigeriani fermati a settembre dell’anno scorso dopo una guerriglia urbana che aveva lasciato sul campo quattro feriti. Alla fine, hanno patteggiato pene da un anno a sedici mesi. Si capisce come mai qualche giorno fa il questore Isabella Fusiello, appena sfogliata l’annuale statistica del Sole24Ore sui reati – in Italia calano, nella città emiliana aumentano – si è sfogata: «Capita che in 48 ore i ladri tornino liberi. Non c’è una vera sanzione contro i furti. La custodia cautelare in carcere viene sostituita spesso da misure come l’obbligo di firma. Un palliativo».
«Le leggi italiane hanno ucciso mia figlia per la seconda volta», il grido di Nerio Papetti, il papà di Beatrice, che aveva solo 16 anni. stata investita e uccisa nel 2013 a Gorgonzola, nel Milanese, da un pirata della strada, un marocchino che si era costituito una settimana dopo, poi mandato dal gip ai domiciliari.

MOLTO RICCO anche il filone jihadista. Storia di pochi giorni fa: a Trieste il giudice non accoglie la richiesta di misura cautelare per due dei cinque macedoni accusati di «atti di apologia in relazione a delitti di terrorismo». Alfano decide l’espulsione. Il procuratore, amaro: «Speriamo di non ritrovarceli qui, sotto mentite spoglie». A Pisa la Corte d’Assise assolve un marocchino accusato di aver istigato alla jihad su Facebook. «Il fatto non sussiste». Il pm annuncia: farò appello. Procura contro gip a Palermo per due scafisti africani assolti – è l’accusa – con «motivazioni illogiche e contraddittorie». Erano stati arrestati un anno fa, avevano sulla coscienza 12 morti.
Ma sono i reati predatori a imporsi. Un occhio alle statistiche. Mettiamoci pure la «percezione asimmetrica della sicurezza», che preoccupa il ministro Alfano. Ma in Italia c’è un furto in casa ogni 2 minuti. Ce lo dice il Censis nell’ultimo rapporto disponibile (2014). Il vero terreno di guerra è il nord-ovest. Nelle statistiche dei reati, gli stranieri sono protagonisti: il 54% tra i denunciati, il 62% tra gli arrestati (con un aumento superiore al 31%). Immigrato è un detenuto su tre: 18.462 su 54.465, al 30 settembre. In cima alla lista marocchini, romeni, albanesi e tunisini.

«VENITE in Italia, qui si ruba», l’invito che i predoni delle ville romane mandavano al telefono ai compari in Romania, è cronaca di un anno fa. Un poliziotto bolognese si sfoga: «Io sinceramente non arresto da un bel po’. Se proprio non è obbligatorio… Vado a denunce. Siamo talmente sconfortati». Nella testa ha una sequenza: «Spaccata in un bar, rubano slot machine e fuggono su un furgone rubato. Dopo un inseguimento, con un collega arrestiamo due slavi. Arriviamo davanti al giudice. Vede uno dei due stranieri che si tocca la spalla e gli chiede: è stato picchiato dai poliziotti? Lui nega, non viene creduto. Udienza sospesa per verificare se ha lesioni. Quel giorno io e il collega siamo morti di paura per aver fatto il nostro dovere». Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, ci mette il carico: «Gli arresti facoltativi sono crollati. Il sistema ci dà addosso. Per questo vogliamo le spy pen su ogni auto, in ogni cella di sicurezza. Quello è uno strumento che non perdona nessuno».

Milena Gabanelli lascia la conduzione di ‘Report’

Milena Gabanelli lascia la conduzione di ‘Report’

Addio dopo 20 anni dell’anima e fondatrice del programma d’inchieste di Rai3. “Ma non smetterò di fare la giornalista”

Roma, 10 ottobre 2016 – Dopo venti anni Milena Gabanelli lascia la conduzione di ‘Report’. L’annuncio è stato dato al Tg1 dalla stessa fondatrice e anima del programma di inchieste di Rai3. “E’ la cosa più bella che ho fatto dopo mia figlia”, ha spiegato Gabanelli. Tuttavia “questa, dopo 20 anni, è la mia ultima stagione di conduzione di ‘Report’ – ha detto -, ma non smetterò di fare il mio mestiere” di giornalista. “Se è un addio? È una brutta parola… Smetto – ha aggiunto – perchè voglio che ‘Report’ vada avanti per altri 20 anni”.

Aprendo poi la nuova stagione del programma con un’inchiesta sul biologico, Gabanelli ha spiegato più approfonditamente le ragione della sua decisione. “E’ una stagione storica per Report, che compie vent’anni. Se c’è una cosa di cui sono orgogliosa è questa squadra bella e fortissima che si è formata nel corso di questi anni: è tempo di premiare la loro professionalità, per questo ho deciso di lasciare la conduzione di Report”, ha detto la conduttrice. “Il direttore generale e il direttore di rete – ha aggiunto – le hanno provate tutte per farmi cambiare idea, ma dopo tanto tempo penso che sia giusto che siano loro, i miei inviati, a portare avanti un programma che hanno contributo a costruire e a farne una trasmissione di successo, a partire da Bernardo Iovene, il nostro ‘tenente Colombo’. Stiamo preparando la successione. Io continuerò a fare il mio mestiere, dentro questa Rai dove sono stata sempre libera di raccontare ciò che ho ritenuto utile e doveroso. E magari torno a fare l’inviata, proprio per Report”.

Originaria di Nibbiano (Piacenza), classe 1954, Gabanelli è stata a lungo inviata di guerra per ‘Speciale Mixer’ di Giovanni Minoli. Nel 1994 è approdata alla guida di ‘Professione Reporter’, che tre anni dopo è diventato Report e ha esordito su Rai3 in terza serata, conquistando nel 2003 il prime time e collezionando ascolti e premi, querele e richieste di risarcimenti record, tanto che negli anni in diverse occasioni la Rai ha tentato di togliere la copertura legale al programma. Ma Milena ha vinto sempre le sue battaglie, diventando un simbolo del giornalismo ‘con la schiena dritta’. Nel 2013 è stata la più votata dagli iscritti al Movimento Cinque Stelle nella consultazione per individuare il candidato al Quirinale: pur dicendosi “onorata”, ha rinunciato ritenendo di non avere le competenze necessarie.

Scoperto nuovo pianeta nano nel Sistema solare

Scoperto nuovo pianeta nano nel Sistema solare

‘2014 UZ224’ misura appena 530 chilometri di diametro ed è lontano dal Sole 13,7 miliardi di chilometri

Ultimo aggiornamento: 12 ottobre 2016
Spazio, nuovo pianeta nel sistema solare (Ansa)

Spazio, nuovo pianeta nel sistema solare (Ansa

Roma, 12 ottobre 2016 – Lo Spazio si popola di nuove presenze. L’astrofisico David Gerdes, dell’Università del Michigan, ha appena scoperto un nuovo pianeta del Sistema solare. Si chiama  2014 UZ224, ed è un pianeta nano, un sasso spaziale che misura solo 530 chilometri di diametro, meno di un quinto di Plutone. Si trova a 13,7 miliardi di chilometri dal Sole, oltre lo stesso Plutone che è lontano invece 5913,5 milioni di chilometri: per completare un’orbita impiega  ben 1.100 anni terrestri.

Il pianeta 2014 UZ224 è stato individuato grazie al Dark Energy Camera (DECam), uno strumento in grado di mappare galassie distanti che è stato commissionato dal Dipartimento per l’Energia del governo statunitense.  Gerdes, che lavora per il progetto Dark Energy Survey, stava analizzando le mappe della DECam insieme a un gruppo di studenti, quando ha individuato un nuovo oggetto celeste in movimento nel Sistema solare non ancora identificato.

C’è riuscito con l’aiuto di un nuovo software che permette di mettere a confronto osservazioni fatte a intervalli di tempo irregolari. Il Minor Planet Center, la massima autorità internazionale in materia che opera presso lo Smithsonian Astrophysical Observatory, ha già legittimato la scoperta. Ora si attende il riconoscimento ufficiale dell’Unione astronomica internazionale (Iau) perché 2014 UZ224 diventi ufficialmente il sesto pianeta nano del Sistema solare, dopo Plutone, Eris, Haumea, Makemake e Cerere.

2014 UZ224 non è l’ultimo inquilino del Sistema solare: gli scienziati ritengono infatti che nella nostra galassia fluttino altri pianeti nani, almeno un centinaio, ancora sconosciuti.

GOMME da NEVE – dal 15 novembre sono obbligatorie!

GOMME da NEVE – dal 15 novembre sono obbligatorie!
Tra pochi giorni scatta l’obbligo di montare le gomme da neve
Tutti pronti per le gomme da neve?Puntuale con la stagione autunnale, ecco arrivare l’obbligo delle gomme invernali; al di sotto dei 7° anche le gomme estive iniziano a essere meno prestanti, pertanto anche tutti quelli che non abitano in montagna dovrebbe prendere in considerazione il montaggio di questi speciali pneumatici.
COSA DICE LA LEGGE – La norma che introduce l’obbligo di montare gomme invernali sulle auto e sui mezzi pesanti è regolata dall’articolo 6 del Codice della Strada, introdotto dalla legge n.120 del 29 luglio 2010: spetta agli enti che gestiscono le singole tratte decidere se imporre o meno l’obbligo, segnalato attraverso il segnale di catene da neve obbligatorie.
LE DATE – L’obbligo di montare gomme invernali scatta a partire dal 15 Novembre, ma in alcune regioni soggette a climi più rigidi vi possono essere delle deroghe che anticipano tale periodo. L’obbligo termina il 15 Aprile.
SANZIONI – Circolare senza gomme invernali quando vige l’obbligo è punito con una sanzione pecuniaria: nei centri abitati è prevista una multa minima di 41 euro, al di fuori si parte da un minimo di 84 euro.
In autostrada la multa va da un minimo di 80 ad un massimo di 318 euro.