E’ morto nel giorno di nascita di Villeneuve: addio a Poltronieri

E’ morto nel giorno di nascita di Villeneuve: addio a Poltronieri, voce storica della F1

Aveva 87 anni e negli anni Settanta aveva raccontato per la Rai il mondo dei motori. In gioventù era stato anche pilota e collaudatore della Abarth

E’ morto nel giorno di nascita di Gilles Villeneuve. Lui, che con la sua voce pacata, aveva raccontato il duello del canadese della Ferrari contro René Arnoux in una delle pagine più belle della Formula Uno. Il 18 gennaio 2017 è scomparso il celebre giornalista sportvio Mario Poltronieri. La voce storica della Formula 1 e della Rai aveva 87 anni e da qualche mese era ammalato. Su Facebook aveva fatto sapere di essere guarito, ma poi è arrivata la triste notizia.

Prima pilota poi voce storica della F1 in Rai

Poltronieri era nato il 23 novembre del 1929 a Milano. Aveva esordito come pilota e poi come collaudatore della Abarth. In quegli anni stabilì 112 record di velocità sulle curve sopraelevate del circuito di Monza e corse la Mille Miglia dal 1954 al 1957. Aveva poi iniziato la sua carriera in Rai nei primi anni Sessanta curando la rubrica intitolata Ruote e Strade. Successivamente prese il posto di Piero Casucci nel ruolo di commentatore dei gran premi di Formula Uno e motociclismo. Negli anni Settanta divenne “la voce” della Formula Uno. Poltronieri fu poi affiancato da Palazzoli e Zermiani. Non abbandonò mai del tutto il mondo dei motori.

Bettino Craxi, Alfano corre ad omaggiarlo in nome del pregiudicato B.

Bettino Craxi, Alfano corre ad omaggiarlo in nome del pregiudicato B.

Bettino Craxi, Alfano corre ad omaggiarlo in nome del pregiudicato B.

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Giovedì 19 gennaio 2017 doppia data. Ricorre il 17° anniversario della morte di Bettino Craxi, il segretario che corruppe e distrusse il Psi di Turati, Nenni, Pertini per ingordigia di potere. È anche il giorno in cui il ministro degli Esteri del governo ombra Renzi/Gentiloni, al secolo Angelino Alfano, in missione ufficiale in Tunisia, ha deciso di recarsi ad Hammamet a rendere omaggio al caro estinto, amico del suo antico padre/padrino, Silvio Berlusconi, autore di «lodi» per sottrarre il capo alla Legalità e alla Legge, puntualmente affossati dalla Corte Costituzionale. Non sappiamo ancora se farà il gesto da privato o da ministro, quindi in rappresentanza del governo, quindi del Paese Italia. In questo caso sorgono problemi morali e giuridici. Anche se decidesse di andare da privato, i problemi resterebbero perché per un ministro il confine tra pubblico e privato è sottilissimo fino quasi a scomparire a scapito del privato, come è giusto.

La notizia è data sul Corriere della Sera dalla figlia di Craxi, Stefania, anche se «con un pizzico di trattenuta soddisfazione» che fa supporre che per lei è scontato che Alfano vada come ministro, quindi in veste ufficiale. In questo caso Craxi sorride nella tomba e si riprende la rivincita da morto veniente. L’amore filiale, si sa, al pari dell’amore qualunque, è sempre cieco e si ostina a considerare il padre grande statista, anche se ben tre gradi di giustizia l’hanno definito e marchiato come «pregiudicato per sempre». Il suddetto Craxi, infatti, qualche giorno prima di essere ammanettato, scappò in Africa e lì rimase usque ad mortem.

Il povero Alfano è preso tra l’incudine del fratello Alessandro assunto alle Poste senza contratto e il martello della sua identità psico-politica (si considera da sé un grande politico, mentre gli altri lo considerano un mediocre «per caso»). Forse per distrarsi dallo smacco subito dal governo libico di Tobruk di Khalifa Haftar, che rifiuta «qualsiasi aiuto» umanitario offerto dal ministro, prima di tornarsene a casa con la prima sconfitta ufficiale, si consola visitando il pregiudicato Craxi, condannato in contumacia. Se i vivi lo rifiutano, sai che soddisfazione sulla tomba di un pregiudicato. Ad onor suo, bisogna dire che non è il primo nostalgico a recarsi ad Hammamet: nel 2000 ai funerali andarono il ministro Lamberto Dini e il sottosegretario Marco Minniti (sì, sì, proprio lui, il nuovo ministro dell’Interno subentrato ad Alfano: com’è perversa la natura!), del governo D’Alema. Nel 2010 tre ministri del governo Berlusconi, foraggiatore illecito di Craxi e del suo sodalizio, Frattini, Sacconi e Brunetta corsero a commemorare il grande statista condannato dall’ingrata Italia e dalla perfida magistratura. Una corsa ad onorare il merito alla corruzione!

È il livello dell’Italietta ereditata da Renzi, l’altro grande statista che non ne ha azzeccata una, ma ci ha fatto perdere tre anni per alimentare la sua smodata megalomania, lasciando incancrenire l’economia tanto che ora l’ombra Gentiloni deve pagare l’infrazione europea di 3,4 miliardi dopo tanta voce grossa e poco fiato. Il terremoto continuo del centro Italia, dove tutto è fermo alla prima scossa, senza nemmeno un avvio di soluzione, è la foto plastica, tragica dell’immobilismo renzista che si agitava tanto, ma solo per restare fermo e trovare una migliore posizione da seduto per twittare, facebookkare, whatsappare e playstationare.

A tutto ciò si aggiunga che, incurante del ridicolo, l’Europa elegge a suo presidente tale Antonio Tajani, già monarchico, poi berlusconista convinto e con Angelino Alfano collega di servitù leale e devota al comune padrone e padre, Silvio B. cui tutto devono, anche l’esistenza. Tajani è così rispettoso del nome del suo guru che lo omette dal proprio curriculum pubblico europeo, dove Berlusconi non esiste. Alfano è così preso dalla riconoscenza che visita la tomba del protettore di Berlusconi, magari in sua rappresentanza. Come si fa a dividere in morte due condannati in vita? Alfano non separi ciò che la natura ha unito. Con due alfieri di questo calibro, Berlusconi comincia a sperare di fare sentire il suo grido di dolore alla Suprema Corte di Strasburgo, dove pende un suo ricorso.

Con un gesto di eutanasia, eleggendo Tonino Tajani, espressione del vuoto berlusconista, l’Europa ha sentenziato la propria estinzione; con un ministro degli Esteri come Angelino Alfano, una cima di rapa nel circo dell’inverosimile, l’Italia ha preso coscienza che Renzi l’ha fregata alla grande distruggendo quel residuo di dignità credibile che ancora aveva nel mondo civile. Poi tutti danno la colpa al populismo di Grillo e, fatto più drammatico, al congiuntivo di Di Maio. Venghino, siore e siori, ultimi spettacoli del Circus Barnum, prima della chiusura definitiva. Con una differenza: il Barnum in 146 di onorata attività, ha fatto ridere e divertire intere generazioni; l’Italia in 156 anni di vita, dall’unità risorgimentale, ha fatto ridere senza divertire.

Magistrati, diplomatici e burocrati: gli stipendi record della casta

Magistrati, diplomatici e burocrati: gli stipendi record della casta della pubblica amministrazione

Il rapporto della Regioneria dello Stato: paghe bloccate o pochi spiccioli in più per insegnanti, ricercatori e forze armate. Enormi aumenti per i vertici, vicini alla politica

La sede della Ragioneria generale dello Stato
La sede della Ragioneria generale dello Stato
Redazione Tiscali

Il luogo comune vuole che chi lavora come dipendente pubblico sia uno strapagato fannullone a cui nessuno chiede di essere più veloce, più efficiente e con modi migliori nel trattare con il pubblico. Perché va bene così. Nella palude dei piccoli privilegi e degli stipendi garantiti a nessuno interessa che le cose possano cambiare. Dunque non c’è politico che, in nome di una maggiore efficienza dello Stato, non assesti mazzate, tanto negli slogan che nei provvedimenti, ai contratti del settore pubblico. Brutto e cattivo. Le cose stanno davvero così? Non proprio.

Le differenze diventano sempre più marcate

Uno sguardo attento al Conto annuale della Regioneria generale dello Stato permette di vedere chiaramente come esistano categorie di statali con enormi differenze tra loro. E dove le logiche da casta sono sempre più marcate. La comparazione viene fatta tra il 2005 e la situazione alla fine del 2016. E in un mondo dove la meritocrazia non esiste e comandano le logiche di vicinanza al politico di turno e alle sue alterne fortune, la forbice si allarga. A cominciare da chi abita i palazzi del potere. Le cifre dicono che in dieci anni la retribuzione dei burocrati di Palazzo Chigi è cresciuta del 45% con un aumento di 17.870 euro (e stipendi di oltre 57mila euro l’anno). Ancora più priviegiati gli ambasciatori con stipendio che supera i 93mile euro e aumento del 37% (in soldoni sono 25.183 euro), e i magistrati che hanno stipendi giunti fino a quota 138.481 euro (+28,4%). Non se la cava male anche chi è ai vertici delle Prefetture (oltre 94mila euro di stipendio, aumento del 22,3%) e chi lavora in ruoli apicali nelll’amministrazione delle Regioni a statuto speciale (+6.227 euro, aumento del 21,1% e retribuzione annua di 35.345 euro).

Forze dell’ordine, ricercatori, insegnanti: fanalino di coda

Altro luogo comune è che i peggio privilegi si nascondano tra chi porta la divisa, sta dietro una cattedra o fa ricerca. Le cifre diffuse dalla Ragioneria dello Stato mostrano tutt’altra realtà. In poche parole: o hai un ruolo manageriale, da capo settore, oppure ti tieni uno stipendio che non ha niente a che vedere con il peso di chi sta ai vertici, e che sfugge a qualsiasi regola di valutazione anche positiva del lavoro, dipendendo semmai dalla contrattazione sindacale. In soldoni: gli impiegati pubblici prendono in media 34.146 euro l’anno e in dieci anni gli aumenti in busta paga sono stati del 14,8%. Chi lavora nella scuola si ferma a quota 28.343 euro (+11,8%), chi sta nelle forze armate sta un po’ meglio (39.764 euro l’anno con aumenti in dieci anni dell’11,6%). Chi ha un posto all’Università (al netto di contrattini e incarichi da precari che vanno avanti per anni, come nella scuola) può arrivare a quota 43:085 euro, con aumento dal 2005 al 2016 dell’8%). Differenza siderale con Pm, diplomatici e occupanti del poltronificio politico. In uno scenario in cui i capi troppo spesso non controllano qualità e produttività dei dipendenti che hanno in squadra, e hanno lavori doppi o tripli anche come privati. Giusto per capirsi meglio, ci vuole un attimo a valutare la distanza di rischio di stipendio fra chi sta a Palazzo Chigi e chi ancora in queste ore scava a mani nude nella neve, tra macerie e pericoli di nuove frane, per cavare i sopravvissuti da freddo e sisma da sotto la neve.

I sindacalisti dei Cobas e le tangenti per fermare la protesta dei lavoratori

I sindacalisti dei Cobas e le tangenti per fermare la protesta dei lavoratori. Ecco il video che li incastra

Sono stati fermati dai poliziotti della squadra mobile di Modena. Avrebbero estorto delle somme “per calmierare le attività di protesta verso un gruppo aziendale”

“Estorsione aggravata e continuata”, una brutta accusa per i due sindacalisti nazionali del Sindacato “Si Cobas” arrestati in flagranza di reato dagli agenti della polizia di Modena. I due rappresentanti dei lavoratori avrebbero rivolto le loro pretese estorsive a un noto gruppo industriale modenese che opera nel settore della lavorazione delle carni.

Avevano appena incassato

I due sarebbero stati presi in pratica  con le mani nella marmellata. I poliziotti della squadra mobile avrebbero sorpreso i due responsabili qualche attimo dopo aver messo in tasca una parte della somma di denaro “estorta – stando a quanto si legge sul Corriere della Sera – per calmierare le attività di protesta e di picchettaggio nei confronti delle aziende del gruppo”.

Il terribile sospetto dei carabinieri per i crolli a Pompei

Il terribile sospetto dei carabinieri per i crolli a Pompei. “Ecco chi c’è dietro i danneggiamenti”

“La manina dei custodi potrebbe essere responsabile”. In corso un duro scontro fra sovraintendente e sindacati

Il terribile sospetto dei carabinieri per i crolli a Pompei. 'Ecco chi c'è dietro i danneggiamenti'
Il muro di Pompei crollato qualche giorno fa

Dopo i recenti crolli a Pompei nei pressi della Casa del Citarista, si fa strada un incredibile sospetto sui presunti responsabili. Dietro i pezzi del sito archeologico che tutto il mondo ci invidia, non ci sarebbero solo incuria e segni del tempo ma addirittura la mano umana.

L’accusa arriva da un carabiniere che indaga sul recente cedimento di una porzione di muro di circa 1,5 mq. Secondo quanto riportato da Il Giornale, il militare ha dichiarato: “Nel corso degli anni abbiamo visto troppi cedimenti strutturali sospetti. In alcuni casi ci sarebbero state spintarelle decisive da parte di una manina. E solo gli uomini hanno le mani”.

Il carabiniere, di cui non viene svelata l’identità, precisa che per questo motivo si sta indagando anche sui custodi di Pompei. “Del resto- aggiunge il militare – la zona dove c’è stato il crollo è inibita ai turisti e gli unici che la possono visitare sono i custodi”.

Insomma un sospetto terribile tutto da verificare anche se sembra strano che chi lavora in un sito unico come quello campano possa aver interesse a danneggiarlo. Eppure tra le rovine non tutto va bene e la tensione è alle stelle. Da tempo sono in corso scontri fra il sovraintendente Massimo Osanna e i sindacati.

Il primo sta cercando in tutti i modi di far rendere al meglio il sito. Ma l’opposizione dei sindacati spesso è netta. L’archeologo, fedelissimo del ministro della Cultura Franceschini, non cede di un passo. “Dico no ai ricatti anche se sono stato denunciato per abuso d’ufficio perché voglio tenere gli scavi sempre aperti”. Osanna è arrivato anche ad aprire da solo i cancelli quando era in corso “l’ennesima assemblea sindacale”.

Tutte iniziative che non piacciono ai lavoratori i quali lamentano carenze di personale e rigettano le accuse del sovraintendente. Il mistero sui crolli (tra l’altro sempre in aree prive di telecamere) per ora resta. I carabinieri dovranno capire se dietro la caduta di quelle preziose porzioni di mura ci siano davvero le manine di chi quei posti li conosce benissimo.

Tennis, a 35 anni Roger Federer vince gli Australian open

Tennis, a 35 anni Roger Federer vince gli Australian open: Nadal battuto in 5 set

Tennis, a 35 anni Roger Federer vince gli Australian open: Nadal battuto in 5 set

TENNIS
Il campione svizzero, a 35 anni e 117 giorni, conquista il suo 18esimo titolo dello Slam dopo tre ore e 37 minuti di gioco. Un’impresa arrivata dopo lo stop per i problemi al ginocchio e a 14 anni dalla prima volta che Roger e Rafa si sfidarono su un campo da tennis

A 35 anni e 177 giorni Roger Federer è ancora il numero uno. Più forte di tutti, più forte del tempo, più forte di tutti i tempi. Batte Rafael Nadal al quinto set dopo quasi 4 ore di battaglia (6-4 3-6 6-1 3-6 6-3), vince l’Australian Open 2017. Conquista fuori tempo massimo a 5 anni di distanza dal suo ultimo trionfo il suo 18° Slam, quello che nessuno pensava potesse più raggiungere. Diventa il più vecchio vincitore dell’era Open dai tempi di Ken Rosewall, campione proprio qui a Melbourne a 38 primavere nel 1972: allora il tennis era praticamente un altro sport.

Era il marzo del 2004 quando Roger Federer e Rafa Nadal si incontravano per la prima volta su un campo da tennis. In un doppio, partita di contorno al Masters di Indian Wells. Lo svizzero era già il numero uno del mondo, ma quel giorno perse contro un 18enne che veniva da Maiorca. Probabilmente perché giocava in coppia con il connazionale Yves Allegro, carneade della racchetta, mentre dall’altra parte c’era Tommy Robredo. O forse già da allora si intuiva quale sarebbe stato il destino di questi due campioni, protagonisti di una rivalità iconica di questo sport come solo Borg-McEnroe è stata. In questi 13 anni ci sono stati altri 34 incontri e 22 finali, quasi sempre vinte da Rafa (14-8 per lo spagnolo i precedenti). La bestia nera, la nemesi, l’antagonista perfetto del tennista più forte di sempre. “Nadal è stato la mia sfida più complicata, mi ha portato al limite e poi oltre”, ha sempre detto di lui Federer. Ed è successo anche agli Australian Open, dove i due hanno scritto l’ennesimo, indimenticabile e imprevisto, capitolo della loro saga. Chissà se davvero l’ultimo. Solo che stavolta ha vinto Federer.

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Lo ha fatto meritatamente, e non solo per la sua storia, per l’impresa di tornare in finale in uno Slam alle porte dei 36 anni dopo 6 mesi di inattività per infortunio. Federer ha tenuto in mano la partita sostanzialmente per tutta la sua durata. Anticipando le risposte anche a costo di giocare spesso di contro balzo, con un coefficiente di difficoltà che solo lui al mondo può permettersi. Accettando (e reggendo) la diagonale sul rovescio, come gli è riuscito poche volte in carriera, senza mai rifugiarsi nello slice. Servendo con una solidità impressionante e accorciando il più possibile gli scambi. Tecnicamente sublime, tatticamente perfetto: vincere bene e vincere subito, per non permettere all’avversario e alla stanchezza di prendere il sopravvento.

Dall’altra parte, però, c’era il solito Nadal, copia appena un po’ sbiadita dell’originale. Sono bastati un paio di passaggi a vuoto, nel secondo e nel quarto set, per riequilibrare la partita nel punteggio e trascinarla al quinto set. Dove lo spagnolo è diventato anche il favorito naturale. E infatti Federer ha accusato il colpo, è andato sotto 2-0, ha visto da vicino l’ennesima beffa contro il rivale di sempre. Ma ha rimontato, sorpassato, è arrivato anche a servire per il set. Qui ha tremato pure lui: è scivolato 15-40, si è aggrappato al servizio per annullare le palle del contro break, ha steccato clamorosamente due match-point. Ma il secondo, come confermato dall’occhio di falco, è rimasto in campo. Ha vinto lo svizzero, 13 anni dopo quella prima volta tra ragazzini, una vita e una carriera fa. Roger oggi ha le guance scavate dell’uomo maturo; Rafa, l’idolo delle teenager per le sue chiome sciolte, nasconde sotto una fascia i capelli diradati, nonostante un trapianto. Sì, il tempo è passato anche per loro. Solo che Federer ha sconfitto pure lui.

Il forestale senza volto

Il forestale senza volto: “Avrei preferito restituire la pistola. Ora siamo precari e senza diritti”
Parla al congresso della Funzione Pubblica Cgil senza potersi mostrare: “Non ho più il diritto di iscrivermi del mio sindacato. Chi prenderà il nostro posto?”

di Luca Telese
Quando ho sentito la sua voce senza corpo, nel silenzio del teatro Brancaccio sono rimasto di sasso: “Siamo stati deportati nei carabinieri. Siamo stati militarizzati a forza, senza il nostro consenso”. All’assemblea della Funzione pubblica della Cgil – sabato mattina – di fronte ad una Susanna Camusso che seduta in prima fila era anche lei stupita e spiazzata da un intervenuto che non poteva essere in alcun modo annunciato, “il forestale anonimo”, il sindacalista che ha perso il suo diritto ad essere sindacalista, ha voluto parlare lo stesso ai suoi ex compagni, forse per l’ultima volta.

L’unico modo che aveva a disposizione per raccontare la sua storia, se non voleva essere licenziato, era questo. Un corpo celato dietro un paravento, e la voce amplificata, un atto d’accusa pronunciato solo con le sue corde vocali: “Siamo stati smembrati – ha detto l’ex forestale riconvertito in modo coatto al ruolo di carabiniere – per un capriccio di Matteo Renzi. Siamo stati messi in condizione di non poter più operare come prima. In questi giorni drammatici non abbiamo avuto disposizioni e istruzioni efficaci per agire nell’emergenza: siamo un patrimonio disperso. Non ho più diritti civili – attacca l’ex forestale – nemmeno quello di poter parlare a voi, qui, stamattina, con il mio volto”.

Il colpo di scena durante l’assemblea della funzione Pubblica è arrivato in tarda mattinata è andato in onda quando questo sfogo di un ex iscritto, obiettore di coscienza, conquista l’ascolto di tutti. Prima di lui avevano parlato delegati di tutte le realtà del pubblico impiego. Non sembrava una assemblea sindacale, ma una sorta di Hyde park della grande crisi. Discorsi pronunciati in piedi, davanti ad un microfono, grande compostezza, e persino eleganza: pompieri, dipendenti, assistenti sociali. E poi è arrivato lui: l’ex forestale, trasferito d’ufficio nell’Arma dopo la soppressione della sua struttura. L’anonimo parlava davanti ai suoi ex compagni con questo artificio, perché se la sua identità venisse resa nota potrebbe essere punito con provvedimenti disciplinari, visto che oggi è diventato a tutti gli effetti un militare. Nel teatro lo sanno tutti, ovviamente, ma l’effetto è ugualmente straniante: “Dopo 18 anni da dirigente sindacale – ha spiegato l’ex forestale – se avessi potuto scegliere, avrei preferito riconsegnare la pistola, piuttosto che la tessera della mia organizzazione! Sono venuto qui a raccontarvi la mia storia, quello che stiamo facendo nella mia regione, l’Abruzzo, per rispondere all’emergenza. Ma sono venuto qui – aggiungeva l’ex agente – a dirvi che senza i forestali con questa riforma che non esiste in nessun paese d’Europa, rischiamo che molto reati ambientali non siano più perseguiti”. E ancora: “Vengono chiusi sulla base di accorpamenti non funzionali molti comandi, soprattutto nei piccoli comuni: erano quelli che formavano una rete capillare sul territorio. Una rete che evitava e aiutava a perseguire molti reati ambientali. Avevamo saperi, conoscenze, esperienza. Chi prenderà il nostro posto?”.

La domanda resta senza risposta. Ma per me – che di questo spettacolo surreale ero spettatore e cronista – la voce del Forestale senza volto racconto molto più della sua storia, e si fa simbolo. Il pubblico impiego, il mitico “postofisso” immortalato da Checco Zalone nel suo “Quo vado” non esiste più. È una memoria del passato. Oggi, nel tempo in cui non esiste più nessuna garanzia per nessuno, tutti possono diventare particelle, variabili dipendenti di un gioco più grande. Un giorno puoi perdere lo stipendio, un altro il tuo posto, la la città o la tua famiglia – come è accaduto ai professori questa estate – un altro ancora il tuo volto, o addirittura (come in questo caso) la tua identità. La flessibilità e la precarietà scompongono le nostre vite, e talvolta perdono i nostri corpi. Il forestale diventa senza volto perché la sua condizione cambia senza che il parere di nessuno di coloro che sono travolti dal presunto cambiamento possa contare. L’uomo che vede stravolta la sua vita per colpa di un algoritmo, o con un tratto di penna, oppure con un codicillo burocratico, ci racconta una storia che non parla solo di lui. Parla del mondo in cui stiamo vivendo: non esistono case sicure, non esistono conquiste perenni, non esistono condizioni pacificate o conquiste irreversibili. Ci avevano raccontato che la Forestale era uno un costo inutile, uno spreco da cancellare. Sabato al Brancaccio, sentendo quella voce carica di rabbia e di fierezza, ho capito che ad un uomo, con un decreto, puoi togliergli quasi tutto: ma non la sua dignità.

Passava informazioni all’amico imprenditore: in manette il Procuratore che arrestò la Franzoni

Passava informazioni all’amico imprenditore: in manette il Procuratore che arrestò la Franzoni

Pasquale Longarini, capo della Procura di Aosta, è accusato di induzione indebita a dare o promettere utilità

Longarini e Anna Maria Franzoni
Longarini e Anna Maria Franzoni
Redazione Tiscali

Per ‘induzione indebita a dare o promettere utilità è finito agli arresti domiciliari il procuratore capo di Aosta facente funzioni, Pasquale Longarini. Una misura cautelare chiesta dalla procura della Repubblica di Milano, competente su quella aostana. Ai domiciliari è finito anche Gerardo Cuomo, titolare del caseificio valdostano, azienda leader nella distribuzione di prodotti alimentari in Valle d’Aosta. Secondo l’accusa Longarini gli ha fornito informazioni per risolvere problemi di tipo giudiziario o amministrativo in cambio di utilità o di promesse di utilità.

“Le indagini hanno consentito di accertare come a fronte di questa sollecita disponibilità nei confronti dell’amico imprenditore, Longarini abbia ricevuto dallo stesso, oltre a forniture di prodotti caseari, quantomeno favori se non delle vere e proprie remunerazioni, come nel caso del viaggio in Marocco”. A scriverlo il gip del Tribunale di Milano Giuseppina Barbara nell’ordinanza di custodia cautelare.

“Abusando della sua qualità di Pubblico Ministero, Pasquale Longarini ha indotto Sergio Barathier (socio titolare di riferimento dell’Hotel Royal & Golf di Courmayeur, ndr), indagato per reati fiscali e riciclaggio in un procedimento assegnato allo stesso Longarini, a concludere con Gerardo Cuomo (titolare della ditta Caseificio valdostano, ndr), a lui legato da solidi rapporti di amicizia ed assidua frequentazione, un contratto di fornitura di prodotti alimentari per l’hotel e ad effettuare ordini di prodotto” che hanno portato “allo stesso Cuomo un’utilità nell’ordine di 70-100.000 euro all’anno”, ha scritto il gip.

“Le attività di intercettazioni delle utenze in uso a Longarini hanno poi consentito di verificare come lo stesso svolga le sue funzioni di pubblico ministero presso la Procura di Aosta in modo che appare quantomeno disinvolto e inopportuno, dando suggerimenti ai suoi interlocutori, con in quali intrattiene rapporti confidenziali, su come comportarsi o che strategie processuali adottare nell’ambito di procedimenti penali iscritti presso quell’ufficio giudiziario ed assegnati allo stesso Longarini o ai suoi colleghi in un intreccio di rapporti che certamente dovrà essere approfondito dagli inquirenti”, continuato Giuseppina Barbara.

Secondo il gip sarebbe “più che concreto, oltre che attuale, il pericolo che, se lasciato libero Longarini continui ad abusare della sua funzione di pubblico ufficiale commettendo reati contro la pubblica amministrazione o contro l’amministrazione della giustizia in violazione dei doveri di imparzialità e correttezza su di lui incombenti”.

Il nome emerso nelle intercettazioni di Cuomo

Il nome di Longarini è emerso nelle intercettazioni su Gerardo Cuomo e i suoi contatti con alcune famiglie ‘ndranghetiste, in particolare con il pluripregiudicato Giuseppe Nirta. Nel corso di un’intercettazione ambientale tra Di Donato e Strati, “due soggetti che consideriamo ‘ndranghetisti di vertice” – hanno riferito i carabinieri agli inquirenti, come si legge nell’ordinanza del gip Giuseppina Barbara – “Strati si lamentava in dialetto del fatto che Longarini ‘era in stretta con tutti’ ma non aveva aiutato lo stesso Strati in un processo”. L’inchiesta riguardante Cuomo e Longarini è scaturita da un’indagine dei carabinieri coordinata dalla Dda di Torino “in merito alla presenza di esponenti di un gruppo criminale ‘ndranghetista nella regione Val d’Aosta” da cui “era emerso quale soggetto di interesse investigativo anche il noto imprenditore locale Gerardo Cuomo, titolare della ditta Caseificio valdostano”.

Indagini su legami con altri imprenditori

Oltre ad approfondire la natura dei rapporti tra Gerardo Cuomo e Pasquale Longarini le indagini ancora in corso del nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Milano si concentrano anche sulle relazioni del magistrato con altri imprenditori. Lo si apprende dall’ordinanza di custodia cautelare. I pubblici ministeri dovranno approfondire “se il magistrato – scrive il gip – abbia asservito la propria funzione non solo a vantaggia dell’amico coindagato ma anche di altri imprenditori valdostani, quali Claudio leo Personettaz (anch’egli partecipe alle spese del viaggio nel Maghreb), Francesco Muscianesi (autore dei due bonifici bancari per complessivi 45 mila euro) e/o di altri soggetti indirettamente intercettati, in cambio di qualche utilità per sé o per altri”.

Il delitto di Cogne

L’inchiesta – coordinata dal pm Roberto Pellicano e dal procuratore aggiunto Giulia Perotti – è stata condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Milano. Da sostituto procuratore, Pasquale Longarini aveva collaborato con la collega Stefania Cugge all’inchiesta che in primo grado, nel 2004, portò alla condanna a 30 anni di reclusione per Anna Maria Franzoni, accusata dell’omicidio del figlio Samuele, di tre anni (pena ridotta a 16 anni dalla corte d’Assise Appello di Torino e confermata poi in Cassazione).

In manette i vertici della Regione

Alcune inchieste di Longarini, nella prima metà degli anni ’90, portarono in carcere l’attuale presidente della Regione Valle d’Aosta, Augusto Rollandin (carica che aveva ricoperto anche all’epoca); i fascicoli riguardavano in particolare il voto di scambio, l’illecita concessione di contributi regionali ad aziende di autotrasporto pubblico, la partecipazione – in forma occulta – del governatore al capitale azionario di una di queste società. Pasquale Longarini è diventato procuratore capo facente funzioni il 13 dicembre scorso, dopo il passaggio al vertice della procura di Novara di Marilinda Mineccia. Ad Aosta lavora ininterrottamente dai primi anni ’90, quando ricoprì incarichi anche in pretura.

Trump, prepotente e inetto.

Trump, prepotente e inetto. Per lui la Casa Bianca è un reality show

Trump, prepotente e inetto. Per lui la Casa Bianca è un reality show

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Giornalista
Fu un pessimo profeta, Barack Hussein Obama (uno che, con quel nome, avrebbe oggi serie difficoltà a passare i controlli d’immigrazione). Ma nell’errore è riuscito a regalarci, per negazione, quella che è forse la più compiuta – ed effettivamente profetica – definizione della stagione politica appena apertasi. Donald Trump, disse Obama lo scorso maggio quando apparve chiaro che il “tycoon” color arancia sarebbe stato il “nominee” repubblicano – “non diventerà presidente”. Non lo diventerà, aggiunse, perché “la presidenza degli Stati Uniti d’America non è un reality show”. Orbene: oggi tutti sappiamo come sono andate a finire le cose (o, più esattamente, come sono andate a cominciare). A dispetto delle previsioni del presidente uscente (e di pressoché tutti gli altri, compreso, parecchi ne sono convinti, lo stesso Trump) il palazzinaro newyorkino è diventato presidente. E la presidenza degli Stati Uniti d’America è in effetti diventata – con conseguenze ancora tutte da misurare – un reality show.

Molti, nel commentare il turbinio di “ordini esecutivi” firmati a raffica del neo-presidente nelle ultime ore ne hanno sottolineato la natura reazionaria, xenofoba, vendicativa e crudelmente “bullistica”, da un lato; e, dall’altro, il loro essere superficiali, dilettanteschi, tanto teatrali nella presentazione quanto, nella maggioranza casi, giuridicamente impresentabili e, non di rado, praticamente inapplicabili.

Tutto vero, tutto corretto. Donald Trump ha chiaramente firmato ordini su ordini non solo senza valutarne le conseguenze con le agenzie governative interessate, ma anche senza consultare esperti di sorta (per non dir della Costituzione o della sua coscienza, due entità a lui palesemente ignote). E – come non pochi sostengono – più che possibile è che lo spettacolare miscuglio di prepotenza e d’inettitudine messo in mostra da Trump in questo suo frenetico debutto non sia a conti fatti che una distrazione, il classico specchietto per le allodole, la follia dietro la quale va crescendo e prosperando la “rasputiniana” influenza “alt-right” di Steve Bannon, il più a destra (vale a dire: il più razzista e xenofobo, il più “nazionalista bianco”, il più “America first”) dei consiglieri del neo-presidente. Essendo tuttavia i confini tra forma e sostanza assai labili tanto nella teoria quanto nella prassi del trumpismo, impossibile risulterebbe cogliere la vera natura degli eventi senza partire proprio da quella molto specifica forma di spettacolo che, ingenuamente, Obama aveva pensato fosse, per Trump, un insormontabile ostacolo lungo le vie che portano alla Casa Bianca. Per l’appunto: il reality show.

Ma quale reality show? Il più immediato dei riferimenti è ovviamente quello di The Apprentice, il programma del quale Trump è stato, fino a ieri, produttore e conduttore nelle vesti d’un super-boss che licenziava o assumeva gli “apprendisti” – o gli aspiranti manager – che a lui si presentavano come sudditi al cospetto del sultano. E di quel “format” televisivo qualcosa in effetti traspare nei comportamenti d’un presidente che proprio così interpreta i poteri che la carica gli conferisce: come lo specchio delle sue brame, il luogo nel quale saziare la sua quotidiana, inappagabile fame d’adulazione, il suo costante, infantile bisogno d’esibire la propria forza come un’entità assoluta. E questo in un mondo binario dove non esistono – in entrambi i casi nella più brutale delle forme – che due possibilità: vincere o perdere, comandare o servire.

Non è tuttavia l’onnipotente boss di “The Apprentice” il personaggio che con più forza emerge dal muscolare spettacolo del Donald firma-decreti, bensì quello di “The Heel”, il tallone, prodotto d’un reality show molto più antico della tv, che la tv ha rigenerato in nuove e più rozzamente spettacolari dimensioni. Parlo del wrestling. E più in particolare della “WrestleMania”, non per caso uno show-business nel quale Trump ha impegnato non solo il proprio denaro, ma anche se stesso. Nel moderno wrestling televisivo, “The Heel” è il provocatore, la vera anima dello show, il “cattivo” che mostrando i muscoli eccita la folla promettendo sfracelli e ossa rotte, menando colpi proibiti e insultando i rivali. The Heel è la forza bruta, la forza che piega, che umilia. L’unica forza che Donald conosca, come vanno apprendendo quanti pensavano che i doveri dell’Ufficio – quelli di presidente – fossero infine destinati a cambiarlo. Non è stato così. Tallone era ieri il Trump candidato, tallone è rimasto il Trump presidente.

Si dice che un’immagine valga più di mille parole. Guardate questo video. E capirete meglio – vedendo the Heel Donald Trump in azione – quale sia la mentalità, la cultura che muove l’uomo che oggi siede sullo scranno che fu di Abraham Lincoln. L’American horror show è appena cominciato. Prepariamoci al peggio…

Buste paga, allo studio delle novità a tutela dei lavoratori

Buste paga, allo studio delle novità a tutela dei lavoratori: ecco cosa cambierà se il Ddl diventerà legge

Per i datori di lavoro nuovi obblighi e pesanti sanzioni nel caso violino le norme

Buste paga, allo studio delle novità a tutela dei lavoratori: ecco cosa cambierà se il Ddl diventerà legge
Redazione Tiscali

Stipendi versati solo in banca o in posta e la firma sulla busta paga non costituirà prova dell’avvenuto pagamento. Sono queste le principali novità introdotte dal disegno di legge (c1041) recante “disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori” che questa settimana è all’esame della commissione lavoro della Camera in sede referente, si legge su Studiocataldi.it. Ratio del provvedimento, che vede come prima firmataria la dem Titti Di Salvo e relatrice Valentina Paris (Pd), è quella di offrire una soluzione a un problema che colpisce moltissimi lavoratori italiani. “È infatti noto – si legge nella relazione al testo – che alcuni datori di lavoro, sotto il ricatto del licenziamento o della non assunzione, corrispondono ai lavoratori una retribuzione inferiore ai minimi fissati dalla contrattazione collettiva, pur facendo firmare al lavoratore, molto spesso, una busta paga dalla quale risulta una retribuzione regolare”. I punti chiave del Ddl:

Stipendi solo in banca o in posta, scelta al lavoratore

Il provvedimento che si compone di 5 articoli introduce un semplice meccanismo che consiste nel rendere obbligatorio il pagamento delle retribuzioni ai lavoratori (nonché ogni anticipo), attraverso gli istituti bancari o gli uffici postali. La scelta del sistema di pagamento è rimessa direttamente al lavoratore, il quale potrà optare per l’accredito diretto sul proprio conto corrente, per l’emissione di un assegno (consegnato direttamente al lavoratore o in caso di comprovato impedimento a un suo delegato) oppure per il pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale. Viene vietato in sostanza ai datori di lavoro il pagamento della retribuzione a mezzo di assegni o contante qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato. Si stabilisce, inoltre, che la firma della busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione.

Gli obblighi del datore di lavoro

Il provvedimento fissa l’obbligo per il datore di lavoro, al momento dell’assunzione, di comunicare al centro per l’impiego competente gli estremi dell’istituto bancario o dell’ufficio postale che provvederà al pagamento delle retribuzioni al lavoratore, nel rispetto delle norme sulla privacy. Allo stesso modo, l’ordine di pagamento potrà essere annullato soltanto trasmettendo alla banca o alle poste copia della lettera di licenziamento o delle dimissioni del lavoratore.

La convenzione

La proposta di legge prevede, inoltre, la stipula di una convenzione (entro tre mesi dall’entrata in vigore) tra il Governo e l’Associazione bancaria italiana e la società Poste italiane Spa che individua gli strumenti bancari e postali idonei per consentire ai datori di lavoro di eseguire il pagamento della retribuzione ai propri lavoratori, con l’importante previsione che ciò non deve determinare nuovi oneri né per le imprese nè per i lavoratori.

Le esclusioni

Il ddl esclude dagli obblighi introdotti i datori di lavoro che non sono titolari di partita Iva, i quali spesso non sono neanche titolari di un conto corrente. In ogni caso sono esclusi dalla pdl, i rapporti di lavoro domestico e familiare (nei quali i datori spesso sono persone anziane o disabili), così come i rapporti instaurati dai piccoli o piccolissimi condomini (ad es. per pulizia scale o manutenzione verde condominiale).

Le sanzioni

Sono, infine, previste pesanti sanzioni pecuniarie (da 5mila a 50mila euro) per i datori di lavoro che non ottemperano agli obblighi introdotti dalla legge. Chi non comunica al centro per l’impiego competente per territorio gli estremi dell’istituto bancario o dell’ufficio postale che effettuerà il pagamento delle retribuzioni è soggetto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di 500 euro e al successivo accertamento della direzione provinciale del lavoro, che procederà alle conseguenti verifiche.