Allatta alle poste e viene allontanata: è polemica

Allatta alle poste e viene allontanata: è polemica

La denuncia su Facebook. Interviene il ministro Madia: “Mai vietare. Subito una direttiva per tutta la Pa”

Ultimo aggiornamento: 27 gennaio 2017
Flash-mob in favore dell'allattamento al seno (foto Germogli)

Flash-mob in favore dell’allattamento al seno (foto Germogli)

Torino, 27 gennaio 2017 – La mamma allatta il figlio di tre mesi all’ufficio postale e viene allontanata. E’ accaduto a Biella e l’episodio ha provocato l’intervento del ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, che ha twittato: “In alcun luogo dovrebbe essere vietato l’#allattamento. Subito una direttiva per tutta la #PA”.

“Subito una direttiva”

Il fatto è stato raccontato dalla stessa mamma, che ha denunciato su Facebook:

E l’episodio nel dettaglio: “Entro nell’ufficio postale, aspetto il mio turno, e mentre sono allo sportello mio figlio si sveglia e inizia a lamentarsi. Pago e mi metto in un angolo per sfamarlo. Come spesso accade nel mentre si sporca, al che chiedo per cortesia di indicarmi il bagno”, racconta la neo mamma.

Ma la risposta non è quella che la donna si aspettava, le dicono che “che non è un bar e che non posso cambiarlo in mezzo ai clienti”. “Alla fine siccome ero visibilmente scocciata e non mollavo – prosegue -…mi invita a mettermi dietro ad un cartellone”. Ma non è finita: “L’avrei cambiato e me ne sarei uscita. Peccato sia arrivato il direttore, accusandomi di aver fatto una richiesta assurda e che loro hanno anche l’obbligo di far mettere museruole ai cani e non possono far appoggiare alle persone anziane/bisognose il bastone al bancone perché multabili, e che se mi avessero fatto appoggiare ad una scrivania era una multa di 1.700 euro per uso improprio. Non contento mi dice che è vietato allattare al seno, che si può solo col biberon. Alla richiesta di mostrarmi la legge ovviamente è andato negli uffici dietro agli sportelli e non s’è più fatto vedere”, conclude.

Vendetta privata: uccide uomo che investì la moglie

Vendetta privata: uccide uomo che investì la moglie

Il 34enne di Vasto ha poi lasciato la pistola sulla tomba della donna e si è costituito. Il suo legale: “Il ragazzo non si è mai scusato”

“È un momento difficile, una vicenda che ha sconvolto per sempre tre famiglie”. Parlano così Giovanni Cerella e Pierpaolo Andreoni, legali di Fabio Di Lello, il 34enne che si è costituito dopo aver ucciso a colpi di pistola il giovane che con l’auto aveva travolto e ucciso sua moglie sette mesi prima.

Di Lello in carcere dopo essersi costituito
Di Lello da ieri sera è rinchiuso in una cella del carcere di Torre Sinello a Vasto, dopo diverse ore trascorse nella caserma dei Carabinieri. Prima di costituirsi, l’uomo si è recato sulla tomba della moglie e ha lasciato lì la pistola utilizzata (in foto). Gli avvocati sono ora in attesa delle decisioni della Procura, per conoscere il capo di imputazione, la data e il luogo dove sarà tenuto l’interrogatorio di garanzia. Il magistrato dovrà consegnare in giornata l’incarico dell’autopsia a Pietro Falco, responsabile di medicina legale dell’Asl Lanciano Vasto Chieti.

“D’Elisa non ha mai chiesto scusa”
“Italo D’Elisa – dice l’avvocato Cerella, già legale di parte civile per il procedimento che riguardava l’incidente – dopo aver ucciso Roberta, nell’incidente, non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito di Roberta. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi”. “D’Elisa – continua l’avvocato ai microfoni di Radio Capital – tre mesi dopo l’incidente aveva ottenuto il permesso per poter tornare a guidare la moto, perché gli serviva per andare a lavorare”. “Fabio era sotto shock, era depresso per la perdita della moglie, andava molto spesso al cimitero – spiega ancora il legale – pensava giustizia non fosse stata fatta ma incontrandolo non ho mai avuto l’impressione che stesse ipotizzando una vendetta. Sono rimasto sbalordito quando ho saputo. Lui non aveva dimestichezza con le armi”. In queste ore la città è sconvolta, alcuni cittadini stanno portando dei fiori nel luogo della sparatoria. Per il parroco, questa tragedia nella tragedia “si sarebbe potuta evitare con una giustizia più veloce”.

Romania, ritirato il decreto sulla corruzione dopo le proteste

Romania, ritirato il decreto sulla corruzione dopo le proteste

Il premier fa marcia indietro sul controverso provvedimento che depenalizzava l’abuso d’ufficio e altri reati. Ma la manifestazioni non si fermano

Ultimo aggiornamento: 4 febbraio 2017
Romania, ancora proteste contro il governo

Bucarest, 4 febbraio 2017 – Dopo quattro giorni di continue e imponenti manifestazioni di piazza, il premier socialdemocratico romeno, Sorin Grindenau, ha capitolato e revocato il controverso decreto sulla depenalizzazione dell’abuso di ufficio e di altri reati di corruzione.  Un provvedimento varato ad personam, secondo l’opposizione, perché il leader dei socialdemocratici Liviu Dragnea è al momento sotto processo per un abuso di 24mila. “Non voglio dividere la Romania. Il paese non può essere diviso in due”, ha spiegato Grindenau, annunciando la riunione del governo per l’abrogazione.

Solo due giorni fa, il primo ministro aveva ribadito la sua intenzione di andare avanti con il progetto: “Abbiamo preso una decisione all’interno del governo e la porteremo avanti”. Il decreto, approvato d’urgenza e a sorpresa martedì notte, depenalizza i casi di corruzione se causano perdite allo Stato di somme inferiori ai 44mila euro. Un indulto correlato inoltre riguarda 2.700 detenuti per reati minori, anche per corruzione, motivato dal governo con l’esigenza di svuotare le carceri sovraffollate.

Nonostante il dietrofront e le rigide temperature invernali circa 300mila persone sono tornate in piazza a dimostare a Bucarest, continuando a urlare “ladri” e “traditori” contro i politici. In molti chiedono le dimissioni dell’esecutivo e nuove elezioni, nonostante il partito socialdemocratico sia al potere da appena un mese, dopo le parlamentari di dicembre. Manifestazioni parallele sono state organizzate in altre città.

L’indignazione popolare si è tradotta nella più grandi proteste di massa dalla caduta del comunismo nel 1989, con circa 250mila persone scese in strada ogni notte da martedì.

Dimostranti in piazza a Bucarest (Ansa)

Ciclone Le Pen: “Torni il franco, via dalla Nato”

Ciclone Le Pen: “Torni il franco, via dalla Nato”

Sfida per l’Eliseo della leader eurofobica. Macron recupera e la gauche si riorganizza

di FRANCESCO GHIDETTI

Ultimo aggiornamento: 6 febbraio 2017

Parigi, 6 febbraio 2017 – FINE settimana ad alta passione. Politica. Sì, la Francia si divide, i candidati all’Eliseo propongono le loro soluzioni, le bandiere sventolano in contemporanea. E se sabato era stato il turno di Emmanuel Macron, ex socialista ora deciso a declinare un liberalismo «né di destra né di sinistra», ieri è toccato all’ultradestra di Marine Le Pen (un ciclone), al ‘socialista utopico’ Benoît Hamon e al campione della sinistra-sinistra Jean-Luc Mélenchon. La leader del Front National, di fronte a 4mila persone, presenta il suo programma in 144 punti. Se vincesse (magari dopo l’altro estremista di destra, l’olandese Geert Wilders a marzo) per l’unità europea sarebbero guai: la leader del Fronte promuoverà, in caso di vittoria, un referendum per uscire dall’Unione; promette l’uscita dalla Nato; assicura che si tornerà al franco. Oltreoceano, il tycoon ora a capo degli Stati Uniti Donald Trump, ovviamente, apprezza. Altrettanto ovviamente ricambiato.

LE PEN ribadisce: sull’immigrazione nessun compromesso. «Il mio compito è difendere i capisaldi della nostra società contro», a suo dire, la «mondializzazione senza regole e l’immigrazione di massa». Anche perché «chi è venuto in Francia è per trovare la Francia. Se vogliono trovare casa loro che restino a casa loro». Conseguenza immediata la chisura dei centri «islamci radicali». Il tutto «In nome del popolo» (il suo slogan). Resta comunque il fatto che la «Frexit» è l’arma più potente in mano alla capa indiscussa dell’ultradestra. L’arma che preoccupa le cancellerie europee. Il duello del 23 aprile (primo turno, secondo in onda il 7 maggio) la vede favorita, ma l’astro-Macron cresce. Di fatto fuorigioco parrebbe François Fillon, il superliberista travolto dagli scandali. Contro di lui, secondo un sondaggio, il 68% dei francesi, mentre il centrista François Bayrou attacca: «Deve togliersi di mezzo». Correrà Bayrou? Ancora non è certo. Ma il navigato uomo politico non chiude la porta a nessuna eventualità.

E DALL’ALTRA parte? Che cosa succede a sinistra? Tanto. La vittoria alle primarie del socialista antiliberista Hamon ha rimescolato tutto. Hamon ha dunque gioco facile nel sostenere che «i pronostici si smentiscono». Per lui, grande comizio alle Maison de la Mutualité di Parigi davanti a duemila militanti entusiasti. Attacchi durissimi a Macron, definito un «Gattopardo» (Hamon è grande appassionato dello scrittore italiano Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Attacco duro anche per un altro motivo: tra gli spettatori erano assenti sia Manuel Valls (lo sconfitto alle primarie) sia il premier Bernard Cazeneuve, esponenti dell’ala destra del Ps.
Fuochi d’artificio anche per Jean-Luc Mélenchon. Provoca la Le Pen (comizio nella stessa città, Lione, e alla stessa ora) e produce effetti speciali: l’uomo che vuole rilanciare, col Front de Gauche, la sinistra, si è presentato in carne e ossa a Lione, ma, con un ologramma 3D, era contemporaneamente anche a Parigi. Nella banlieue di Aubervilliers. Messaggio chiaro: torniamo alle origini popolari. Mai più gauche al caviale. Finalino con l’ultimo sondaggio: Le Pen al 25%, Macron al 22, Fillon al 20, Hamon al 17. Con secondo turno a Macron.

Strage di Berlino, ecco il video messaggio del terrorista prima di essere ucciso: “Crociati vi macelleremo”

Strage di Berlino, ecco il video messaggio del terrorista prima di essere ucciso: “Crociati vi macelleremo”

Colpito da un agente in prova. Il premier Gentiloni: “Grazie a coraggio degli agenti Novio-Scatà”

Anis Amri, il terrorista responsabile dell’attentato a Berlino al mercatino di Natale è stato ucciso nella notte a Sesto San Giovanni, durante una sparatoria avvenuta con la Polizia durante un normale controllo stradale. La notizia, anticipata da Panorama, è stata confermata da fonti dell’antiterrorismo milanese. L’identità dell’uomo è stata accertata dopo la comparazione delle impronte digitali. La sparatoria è avvenuta prima dell’alba nei pressi della stazione ferroviaria di Sesto San Giovanni. Amri, che era a piedi, alla richiesta di mostrare i documenti ha tirato fuori una pistola dallo zaino e ha sparato gridando “poliziotti bastardi”. Il pericoloso attentatore è riuscito inizialmente a scappare, ma gli agenti della volante lo hanno inseguito, raggiunto ed ucciso. Nello specifico ad uccidere il terrorista è stato il 29enne Luca Scatà, un agente in prova al Commissariato di Sesto San Giovanni. L’agente di polizia ferito si chiama Christian Movio, ha 36 anni, ed è del Commissariato di Sesto San Giovanni. L’agente scelto è ricoverato all’ospedale di Monza con un proiettile conficcato in una spalla. Deve essere operato, ma le sue condizioni sono buone.

Arrivato in Italia passando dalla Francia

Dagli accertamenti dalla Digos, coordinati dal capo dell’antiterrorismo milanese Alberto Nobili, Anis Amri, è arrivato in Italia dalla Francia, in particolare da Chambery, in Savoia, da dove ha raggiunto Torino. Dal capoluogo piemontese ha preso poi un treno per Milano dove è arrivato attorno al’una di notte. Infine dalla Stazione Centrale si è spostato a Sesto san Giovanni dove attorno alle 4 ha incrociato i due agenti della volante che poi, durante una sparatoria, lo hanno ucciso.

L’arma potrebbe essere la stessa usata per rubare il Tir

Gli investigatori lavorano ora per capire se la pistola di cui l’uomo era in possesso fosse la medesima utilizzata dal terrorista per rubare il camion con cui ha poi sferrato il suo letale attacco a Berlino. Sulla sparatoria di Sesto San Giovanni – per competenza territoriale – ha acquisito notizia di reato la procura di Monza, che nelle prossime ore però trasferire gli atti a chi indaga sulla presenza in Italia del terrorista, prima e dopo l’attentato di Berlino. Nel frattempo il capo della Polizia Franco Gabrielli ha inviato una nuova circolare nella quale richiede “massima attenzione” poiché “non si possono escludere azioni ritorsive” nei confronti dei poliziotti e di tutto il personale delle forze dell’ordine in divisa.

Gentiloni: “Grazie a coraggio degli agenti Novio-Scatà”

“Per l’operazione di stanotte voglio ringraziare polizia, Carabinieri, Finanza, Forze Armate, intelligence, cioè gli uomini e le donne dei nostri apparati di sicurezza impegnati in queste ore e di cui l’Italia è davvero fiera – dichiara il premier Paolo Gentiloni -. Una gratitudine speciale va al giovane agente in prova Cristian Novio rimasto ferito e al suo collega Luca Scatà, agenti che hanno mostrato coraggio e capacità professionali notevoli”. Anche il ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha voluto ringraziare i due agenti: “Noi guardiano a questi due ragazzi come persone straordinarie, di giovanissima età, che facendo semplicemente il loro dovere hanno reso un servizio straordinario alla comunità. Penso sinceramente di poter interpretare il sentimento del nostro Paese nel dire loro che l’Italia è a loro grata”. In Italia c’è “un livello elevato di controllo del territorio” e ciò “ha consentito nell’imminenza dell’ingresso nel nostro Paese di una persona in fuga in tutta Europa di identificarlo e neutralizzarlo. Vuol dire che c’è un sistema che è capace di funzionare”. Minniti ha ringraziato “tutto il nostro dispositivo di sicurezza, di cui l’Italia deve essere orgogliosa. Grazie di cuore per il lavoro straordinario, fatto in assoluta cooperazione”. Ringraziamenti, ai due poliziotti come anche all’Italia, sono giunti poi dalla Germania: “Siamo molto grati alle autorità italiane per la stretta collaborazione”, ha detto Martin Schaefer, il portavoce del ministro degli Esteri tedesco nella conferenza stampa di governo in corso a Berlino. Il nostro consolato a Milano, ha poi aggiunto, “è stato informato rapidamente” sugli sviluppi. Devo ringraziare perché fin dall’inizio c’è stato uno stretto, confidenziale e utile scambio di informazioni, sia con Roma che con Milano”.

Politica, rifiuti e migranti: la coppia di potere che gestisce il grande business.

Politica, rifiuti e migranti: la coppia di potere che gestisce il grande business. E ora c’è scappato il morto

Due inchieste su Simone Borile e la moglie Sara Felpati per chiarire il groviglio di interessi, milioni di euro e conti pubblici lasciati in rosso

ll ricco affare dell’accoglienza dei migranti diventa una questione di coppia. A indagare su Simone Borile e la consorte Sara Felpati ora è la magistatura. Le inchieste sono due: la Procura di Padova si occupa dell’utilizzo dei soldi pubblici e delle procedure per le gare d’appalto, quella di Venezia, dopo la rivolta del Cpa di Cona, dovrà chiarire le circostanze della morte della venticinquenne ivoriana Sandrine Bakayoko e le tante accuse di condizioni disumane di accoglienza. Andiamo con ordine e partiamo dalle cifre. Millequattrocento rifugiati provenienti da tutta l’Africa, stipati nella ex base militare diventata centro di prima accoglienza (Cpa), in una frazione di 190 abitanti. Significa tre volte la capienza massima fissata dalla Asl veneta. In questo carnaio umano, gestito da Ecofficina Edeco, ha perso la vita in una doccia la venticinquenne ivoriana Sandrine Bakayoko. Responsabile di Ecofficina è Sara Felpati, moglie di Simone Borile indagata per truffa, falso e maltrattamenti.

Dentro il business dell’accoglienza

Sara Felpati è l’amministratore delegato di Ecofficina Edeco, già Ecofficina Educational, che nella regione veneta gestisce il Cpa di Cona (precisamente della frazione di Conetta che fa parte del comune esteso) e i centri di Bagnoli e Oderzo. La Felpati è la stessa persona filmata mentre chiamava i migranti nella sua struttura, definendoli macachi (è un tipo di scimmia, ma anche sinonimo di stupido o goffo in Veneto). Suo marito Simone Borile, nelle vesti di direttore del Consorzio Padova Tre (che gestisce lo smaltimento dei rifiuti oltre che i migranti) e contemporaneamente presidente del Consorzio Padova Sud avrebbe affidato (come ha raccontato il suo successore Alessandro Baldin) alle cooperative gestite dalla consorte appalti per servizi da 4 milioni e mezzo di euro. Gestendo in modo tutto da chiarire i conti di Padova Sud che ora registrano un buco per 30 milioni di euro. Sul quale ha aperto un fascicolo la Procura di Padova e protesta l’attuale assemblea di sindaci del consorzio, allarmati dalla prospettiva del fallimento. Borile è indagato anche per truffa e falso nell’appalto del servizio di protezione per i richiedenti asilo nella località di Due Carrare, fatto per cui i carabinieri hanno perquisito la sede della cooperativa e la sua abitazione. Sulla politica pigliatutto di Ecofficina arrivarono proteste e sospetti da parte di Confcooperative, che ne volle l’espulsione dalla sua conferedazione.

Rifiuti, politica e migranti

Borile viene indicato da più parti come uno snodo fondamentale, un uomo di potere nell’intreccio di affari che vanno dalla gestione dei migranti a quella dei rifiuti, non senza dimenticare i trascorsi politici. Il marito della donna al comando del Cpa di Conetta, Sara Felpati, dopo le prime esperienze nella Dc e il passaggio a Forza Italia, era stato consigliere provinciale a Padova, poi membro del consiglio di amministrazione dell’azienda per l’edilizia residenziale del Parco dei Colli Euganei. Nel 2011 ecco il suo impegno a favore di Ecofficina che allora serviva soprattutto biblioteche e asili nido, con un bilancio cresciuto da 114 mila euro a 10 milioni. Era Borile l’uomo che faceva arrivare i soldi e risolveva i problemi, come quando spense le proteste di quelli che si lamentavano per il freddo e l’assenza di condizioni umane adeguate, spostandoli dal centro di Battaglia Terme a quello di Cesuna, gestito proprio da Ecofficina, vincitrice dell’appalto per l’accoglienza dopo il quale ha stabilito anche per i concorrenti quale cifra sarà destinata quotidianamente alla gestione dei profughi: 34 euro e 90, di cui in tasca a chi viene ospitato ne arrivano circa tre. Stessa cosa Borile fece con le proteste nel centro di accoglienza di Montagnana. Tutte operazioni benedette dalla Prefettura di Padova. Che ora aspetta l’esito delle inchieste sulla donna morta nel Cpa gestito da Ecofficina, sulla gara d’appalto truccata e sulla voragine finanziaria lasciata dalla presidenza di Borile.

Multe con lo scout speed montato su auto della polizia

Multe con lo scout speed montato su auto della polizia: ecco come difendersi

Riguardo alla possibilità di contestare la sanzione, la giurisprudenza è ancora limitata perché il nuovo strumento è da poco in uso

Multe con lo scout speed montato su auto della polizia: ecco come difendersi

Non solo autovelox. Attraverso lo scout speed infatti, strumento di controllo elettronico della velocità montato su auto della polizia, le autorità sono in grado di rilevare la velocità delle vetture che la macchina incontra nei due sensi di marcia. Una volta accertata l’andatura, lo scout speed scatta la foto e certifica la violazione del codice della strada.

Le multe con lo Scout Speed

“Esistono allora possibilità per contestare la multa e fare ricorso?” si chiede il portale ‘La legge per tutti’. “La giurisprudenza, a riguardo, è ancora limitata perché lo scout speed è da poco in uso alla polizia e non tutti i Comuni ne sono dotati”. La prima questione posta ai giudici, si legge, “è se il suo impiego in un determinato tratto di strada debba costituire oggetto di apposito avviso e di segnaletica. Vale, insomma, la stessa regola dell’autovelox? Non tutte le sentenze sono dello stesso segno”.

La questione della segnaletica

“A una prima interpretazione contraria agli automobilisti ne è seguita un’altra più garantista, firmata dal giudice di Pace di Firenze. Quest’ultimo – riporta il sito di informazione giuridica – ha ritenuto che la presenza dello strumento elettronico, all’interno dell’auto della polizia, debba essere sempre anticipata con il cartello stradale che avvisa i conducenti della possibilità di essere ‘fotografati’. A riguardo la Cassazione ha anche chiarito che non esistono distanze minime tra l’apparecchio elettronico di controllo della velocità e la segnaletica di avviso, dovendo questa essere semplicemente posizionata con adeguato anticipo”.

Le modalità di installazione

La seconda questione, si legge, “è se per lo scout speed valgano le stesse regole dell’autovelox per l’obbligo di taratura almeno una volta all’anno. Anche in questo caso, sembra di potersi dare risposta positiva”. Le apparecchiature impiegate per accertare violazioni dei limiti di velocità, sottolinea ‘La legge per tutti’, a seguito della sentenza della Corte Costituzione n. 113/2015 “devono essere sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura. Gli organi di polizia stradale che le utilizzano sono tenuti a rispettare le modalità di installazione e di impiego previste dai relativi manuali d’uso”.

La taratura dell’apparecchio

“Di recente – si legge – la Cassazione ha precisato che l’obbligo di taratura riguarda tutti i tipi di autovelox, tanto quelli utilizzati alla presenza degli organi accertatori, tanto in forma automatica (perché lasciati, ad esempio, dentro i gabbiotti ai margini della strada). Dunque, la taratura dovrebbe riguardare anche gli scout speed, tanto più che si tratta di strumenti frequentemente spostati e soggetti pertanto ad alterazioni nell’utilizzo”. E anche la presenza di un sistema di autodiagnosi dei guasti sembra non alterare tale interpretazione.

Marra arrestato per corruzione: “Spiccata pericolosità sociale”.

Marra arrestato per corruzione: “Spiccata pericolosità sociale”. Il gip: “Uomo di fiducia di Raggi, rischio altri reati”

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GIUSTIZIA & IMPUNITÀ
Il capo del personale del Comune e fedelissimo della sindaca accusato di corruzione. Al centro dell’inchiesta l’acquisto di una casa Enasarco: a dargli i soldi sarebbe stato il costruttore Scarpellini. E ora entra nel vivo una seconda inchiesta, sulle nomine della prima cittadina: ascoltato per 4 ore in Procura l’ex capo dell’avvocatura del Campidoglio

Roma senza pace. La sindaca Virginia Raggi perde un altro pezzo e questa volta non sono dimissioni: ci pensano i carabinieri. E, per giunta, questa volta si tratta di un pezzo da novanta: è stato arrestato Raffaele Marra, capo del personale del Campidoglio e per mesi vicecapo di gabinetto della sindaca. Una figura che Beppe Grillo e un pezzo del Movimento Cinque Stelle avevano più volte chiesto di allontanare dal cerchio stretto dello staff della Raggi. Marra è accusato di corruzione. Insieme a lui è finito in manette anche il costruttore Sergio Scarpellini, “noto” per essere beneficiario dei cosiddetti “affitti d’oro” di Camera e Senato. La sindaca Raggi in una conferenza stampa in cui non ha risposto alle domande dei giornalisti ha detto che è rimasta sorpresa dell’arresto di Marra (che era già funzionario ai tempi di Alemanno e Marino, ma in altri uffici). “Probabilmente abbiamo sbagliato, ma vado avanti”, ha detto la prima cittadina, aggiungendo che il dispiacere si allarga anche a Beppe Grillo che su Marra, precisa, “aveva espresso qualche perplessità”. E ora il caso da giudiziario diventa politico, con il rovesciamento dei ruoli nell’Assemblea Capitolina: il Pd e i Fratelli d’Italia che ironicamente gridano “onestà”, i Cinquestelle che respingono la richiesta delle opposizioni di far riferire in Aula la sindaca Raggi.

Il gip: “Marra uomo di fiducia, spiccata pericolosità sociale”
Il quadro delle accuse, peraltro, rischia di essere più pesante delle scuse per l’errore di valutazione e il mancato ascolto dei vertici Cinquestelle (da Grillo a Roberta Lombardi fino a Carla Ruocco). Marra, infatti, nell’ordinanza del tribunale, è stato definito individuo con una “spiccata pericolosità sociale“, un “uomo di fiducia della sindaca” che in un’intercettazione telefonica si diceva “a disposizione” dell’imprenditore. Per il gip, Maria Paola Tomaselli, per Marra non ci può essere che il carcere perché esiste “un concreto e attuale pericolo di reiterazione di condotte delittuose analoghe a quelle accertate e ciò ancor più in considerazione del ruolo concreto attualmente rivestito da Marra all’interno del comune di Roma, della indubbia fiducia di cui egli gode da parte del sindaco, Virginia Raggi…”. Ma non solo il giudice evidenzia una “obiettiva circostanza” per cui il funzionario “nonostante la campagna di stampa che pure si è registrata a suo sfavore, non è stato esautorato, ma è stato nominato direttore del Dipartimento organizzazione e risorse umane”. Un uomo capace di mantenere “intatta la propria posizione di potere nonostante l’avvicendarsi di diverse amministrazioni”.

L’inchiesta su una casa acquistata da Marra con soldi di Scarpellini
L’indagine riguarda l’acquisto di una casa Enasarco, la cassa previdenziale degli agenti e dei rappresentanti di commercio, comprata nel 2013 dalla famiglia Marra e intestata alla moglie del dirigente: secondo la procura di Roma, il costruttore avrebbe dato i soldi per acquistarne una parte. Per l’esattezza assegni circolari per un valore di 367mila 850 euro. E Marra ha messo la sua funzione a disposizione del costruttore, che aveva rapporti con gli enti pubblici. All’epoca della compravendita il capo del personale era direttore dell’ufficio delle Politiche abitative del Comune e capo del Dipartimento del patrimonio e della casa: un incarico ricoperto da giugno 2013, mentre fino a maggio dello stesso anno è stato direttore del Demanio in Regione.

L’abitazione, oltre 150 metri quadri in via Dei Prati Fiscali 258, è la stessa dove Marra viveva e dove questa mattina è stato arrestato, mentre la moglie col resto della famiglia si è trasferita a Malta nel 2015. Secondo l’accusa inoltre per l’acquisto della casa Marra avrebbe beneficiato delle agevolazioni riservate agli inquilini (fino al 40% di sconto) pur non essendo di fatto ancora residente nello stabile di proprietà Enasarco. Il provvedimento di arresto è stato emesso dal gip Maria Paola Tomaselli su richiesta della procura della capitale. E in mattinata ci sono state perquisizioni in Regione e nuove acquisizioni di documenti in Campidoglio dopo quelle della giornata di ieri. Dopo l’arresto, i carabinieri sono entrati anche nell’ufficio del dirigente.

L’ordinanza e le intercettazioni: Marra “a disposizione” di Scarpellini
“Vi è il concreto pericolo che Marra e Scarpellini, se lasciati in libertà, commettano altri gravi delitti” e i fatti contestati “denotano la loro spiccata pericolosità sociale certamente tale da rendere assai probabile la reiterazione di analoghi comportamenti delittuosi”, scrive nell’ordinanza d’arresto il gip Maria Paola Tomaselli, secondo cui, da parte del funzionario, sussiste “un concreto e attuale pericolo di reiterazione di condotte delittuose in considerazione del ruolo in concreto attualmente rivestito nel Comune di Roma, dell’indubbia fiducia di cui gode da parte del sindaco Virginia Raggi“. Tomaselli poi sottolinea come, “nonostante la campagna di stampa che pure si è registrata in suo sfavore, non è stato esautorato, è stato nominato Direttore del Dipartimento del personale”.

Secondo la ricostruzione dei flussi finanziari fatta dai carabinieri, dai pm Barbara Zuin e dall’aggiunto Paolo Ielo grazie all’Unità di informazione finanziaria (Uif) di Bankitalia, l’abitazione comprata nel 2013 è stata pagata con assegni circolari per un valore di 367 mila 850 euro forniti dal costruttore. In più, non è provata la restituzione della somma da parte del funzionario. La cifra non rappresentava il costo complessivo dell’abitazione ed è ritenuta dagli inquirenti il “prezzo” della corruzione della funzione, prevista dalla legge Severino. Funzione che Marra mette a disposizione di Scarpellini, come emerge dalle intercettazioni. In una chiamata che risale a giugno 2016, il dirigente chiede che il costruttore “interceda” presso Caltagirone. Editore, fra gli altri, del Messaggero. Motivo: fermare gli attacchi personali mediatici. Ma l’aspetto più rilevante per i pm non è questa richiesta, ma le parole di Marra che alla segretaria di Scarpellini, Ginevra Lavarello, dice: “Io sto a disposizione. Tu puoi dirglielo e lui lo sa che io sto a disposizione. Se Sergio può intervenire con Gaetano Calta (Caltagirone, ndr) per farmi dare una mano sui giornali, per tutelare la mia posizione”. L’intercettazione per gli inquirenti rivela “la natura dei rapporti tra il dirigente e l’imprenditore” Scarpellini.

01:03

Video di Manolo LanaroAnche le precedenti compravendite, svelate sempre da L’Espresso, sono state oggetto dell’indagine. Marra ha acquistato a un prezzo più basso da una società di Scarpellini e ha venduto al costruttore un suo immobile di minor pregio. Ma queste compravendite avvenute nel 2009 non sono alla base dell’arresto perché fatti ormai coperti da prescrizione (7 anni e mezzo per la corruzione). I contatti tra Marra e Scarpellini sono proseguiti anche dopo l’avvento della giunta Raggi. E secondo i magistrati il dirigente del Comune si diceva a disposizione del costruttore. Infatti per il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Barbara Zuin l’acquisto del 2013, insieme con altre circostanze e un precedente acquisto di un altro immobile venduto, nel 2009, a un prezzo irrisorio dallo stesso imprenditore a Marra, rivela la natura dei rapporti tra i due. Da cui è scaturita l’accusa di corruzione per funzione.

Inchiesta sulla nomina di Romeo: ex capo dell’avvocatura sentito per 4 ore dai pm
Come se non bastasse, l’ombra di un’altra inchiesta si allunga sul Campidoglio, quella sulle nomine fatte questa estate dalla sindaca Raggi. L’ex capo dell’avvocatura capitolina Rodolfo Murra è stato sentito per 4 ore in Procura, come testimone, dal pubblico ministero Francesco Dall’Olio. La scorsa estate la sindaca di Roma chiese a Murra un parere preventivo sulla posizione di Salvatore Romeo, il dipendente comunale nominato capo della segreteria del primo cittadino, con un aumento dello stipendio criticato dall’opposizione in consiglio comunale e poi ridotto dopo una pronuncia dell’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Murra, secondo le ricostruzioni della magistratura, manifestò riserve sull’opportunità della nomina. L’inchiesta è la stessa che ha portato ieri all’acquisizione di documenti in Comune. Al momento non ci sono né reati né indagati.

Il percorso accidentato della Raggi tra dimissioni e rimozioni
A pochi giorni dalle dimissioni dell’assessore all’Ambiente e all’indomani dell’aquisizione dei documenti della Guardia di Finanze in merito alle nomine della giunta – in particolare quelle del capo segreteria Salvatore Romeo e dello stesso Marra – arriva quindi un altro duro colpo per Virginia Raggi. La sindaca è del tutto estranea all’indagine, ma l’arresto di Marra rappresenta un inedito politicamente imbarazzante per la giunta M5s. La sindaca infatti ha sempre difeso il capo del personale – che prima aveva scelto come vice capo di gabinetto -, nonostante il direttorio e Beppe Grillo le avessero chiesto di allontanarlo. “Lui non si tocca”, era arrivata a dire. La sua permanenza nel Comune di Roma è stato uno dei motivi principali che ha portato la deputata Roberta Lombardi, membro di quello che è stato il minidirettorio romano, alle dimissioni. Marra è il virus che ha infettato il M5s“, aveva detto, ricordando sempre l’acquisto dell’attico maxiscontato. E prima di Muraro e Marra, il primo settembre, altri due esponenti da novanta della nuova amministrazione si sono dimessi: l’ex capo di Gabinetto Carla Raineri e l’ex assessore al Bilancio Marcello Minenna. A catena, lo stesso giorno, se n’è andato l’amministratore unico di Ama Alessandro Solidoro e, in aperta polemica con l’assessore alla Città in movimento Linda Meleo, anche il dg e l’amministratore unico di Atac, Marco Rettighieri e Armando Brandolese. Mentre ad agosto scorso nelle municipalizzate un primo terremoto c’era già stato con l’addio del presidente di Ama Daniele Fortini.

A Roma scoppia il caso della “spazzina-facchina”

A Roma scoppia il caso della “spazzina-facchina”. La Capitale affonda nei rifiuti fra assunzioni pilotate e vendute

In un video si vede una donna dell’Ama, Azienda Munipale Ambiente, trascinare il cassonetto in salita

Il video mostra una spazzina romana al lavoro. Spazzina, non “operatrice ecologica” come vorrebbe il dizionario del politicamente corretto, perché le condizioni in cui la donna lavora non sono affatto corrette. Nemmeno “igienicamente corrette”. La si vede, in fondo a una rampa, afferrare le maniglie di un cassonetto stracolmo di rifiuti – che in parte si rovesciano – e poi trascinarlo su per la salita fino al camion distante una decina di metri. Operazione poi ripetuta undici volte, con altrettanti cassonetti. Siamo a Roma, nel rione Ottavia, ma potremmo essere nella periferia di qualunque metropoli del Terzo Mondo. “Cioè, nun se po’”, non si può, commenta una voce fuori campo nel video pubblicato sulla sua pagina  Facebook dal segretario della Cgil Funzione Pubblica di Roma e del Lazio, Natale Cola.

In realtà, come lo stesso filmato dimostra, “si può”, eccome. D’altra parte all’Ama, Azienda Munipale Ambiente, la public utility del Comune di Roma, poco meno di 8000 dipendenti e qualche decina di fascicoli negli uffici della procura della Repubblica, per anni si è potuto tutto. Anche assumere parenti e amici e vendere i posti di lavoro.

Cola ha spiegato di aver postato il video della facchina-spazzina per dimostrare che il caos dell’Ama non colpisce solo la cittadinanza, ma anche i dipendenti. I tanti operatori ecologici che svolgono con diligenza e impegno il loro lavoro e che spesso – a causa della pessima fama dell’azienda – vengono guardati con diffidenza e sospetto, come se fossero una banda di  raccomandati e di scansafatiche. “Scene come queste, purtroppo ordinarie – ha detto al Corriere della Sera – non sono più tollerabili. Sono il risultato di una raccolta differenziata pianificata inizialmente pensando più alla propaganda che al funzionamento dei servizi ai cittadini. Bisognava ripensare l’organizzazione del lavoro e del servizio sul territorio, mentre si è preferito affidarsi a società private che hanno operato in modo rigido e troppo spesso illogico”.

Il fatto è che per anni l’AMA, accanto all’attività di raccolta dei rifiuti, ne ha svolto un’altra. E’ stata una delle “vacche da mungere” (il copyright della definizione è di Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative, con Massimo Carminati il protagonista principale dell’indagine su Mafia Capitale) attorno alle quali ha lucrato denaro, attraverso gli appalti, e consenso, attraverso le assunzioni facili, il cosiddetto “Mondo di mezzo”. Poco più di un anno fa, dopo un lunghissimo iter, il consiglio d’amministrazione finalmente ha deciso il licenziamento di 34 dei 41 dipendenti per le cui assunzioni (avvenute nel 2008 a chiamata diretta) il tribunale di Roma pochi mesi prima aveva condannato l’ex amministratore delegato, Franco Panzironi, e altri dirigenti. Nella sentenza si sottolineava che le assunzioni erano state fatte sulla base di un unico requisito: i rapporti di parentela, di amicizia, di clientela con esponenti politici. Uno di questi era l’ex sindaco Gianni Alemanno.

Quattro anni dopo, nel 2012, l’andazzo era analogo. Con una variante. Le assunzioni per favore politico erano state sostituite (o forse più precisamente affiancate) da quelle a pagamento. Risale infatti al 2012 la registrazione – resa pubblica nei giorni scorsi – di una lite tra una spazzina che si lamentava con il mediatore dell’affare per aver pagato 9000 euro per l’assunzione, poi non andata in porto, del suo compagno. Dietro l’operazione, un sindacalista della  Cisl. La procura ha aperto un nuovo fascicolo. L’ipotesi – avvalorata dal contenuto della conversazione – è che il caso non fosse isolato. E che, anzi, analoghi traffici avvenissero anche in un’altra municipalizzata, l’Atac.

Stefano Cucchi, “Lo pestarono: omicidio preterintenzionale per tre carabinieri”

Stefano Cucchi, “Lo pestarono: omicidio preterintenzionale per tre carabinieri” Procura di Roma chiude inchiesta bis

Stefano Cucchi, “Lo pestarono: omicidio preterintenzionale per tre carabinieri” Procura di Roma chiude inchiesta bis

GIUSTIZIA & IMPUNITÀ
I pm della procura capitolina chiudono la seconda indagine sulla morte del geometra romano, avvenuta il 22 ottobre del 2009. Per altri due militari sono ipotizzati i reati di calunnia e di falso. Il giovane fu colpito a “schiaffi, pugni e calci”. “Voglio dire a tutti che bisogna resistere, resistere, resistere. Ed avere fiducia nella giustizia”, dice la sorella Ilaria. Uno degli indagati su facebook: “L’attacco all’Arma è sotto gli occhi di tutti”

Arrestato, pestato a sangue dagli stessi carabinieri che lo fermarono e quindi deceduto in un letto d’ospedale. Otto anni dopo ecco che la procura di Roma contesta a tre militari l’omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi. Il procuratore capitolino Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò hanno infatti chiuso l’inchiesta bis sulla morte del geometra romano, avvenuta in un reparto protetto dell’ospedale Pertini, il 22 ottobre 2009, sette giorni dopo il suo arresto nel parco degli Acquedotti.

I carabinieri che lo arrestarono – e cioè Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco – sono ora ritenuti responsabili del pestaggio del giovane geometra. Ai tre  è contestata anche l’accusa di abuso di autorità, per aver sottoposto Cucchi “a misure di rigore non consentite dalla legge” con “l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza di Cucchi al momento del foto-segnalamento“.

Le accuse di falso e calunnia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria processati nella prima inchiesta, sono invece contestate a vario titolo a Tedesco, a Vincenzo Nicolardi e al maresciallo Roberto Mandolini, comandante della stazione Appia, dove fu portato Cucchi dopo il suo arresto il 15 ottobre del 2009.

Cucchi – come si legge nell’avviso di chiusura delle indagini, atto che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio – fu colpito a “schiaffi, pugni e calci“. Le botte, per l’accusa, provocarono “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale”, provocando sul giovane “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte“.

“Le lesioni procurate a Stefano Cucchi – si legge sempre nel provvedimento dei pm –  il quale fra le altre cose, durante la degenza presso l’ospedale Sandro Pertini subiva un notevole calo ponderale anche perché non si alimentava correttamente a causa e in ragione del trauma subito, ne cagionavano la morte”. “In particolare – scrivono i pm – la frattura scomposta” della vertebra “s4 e la conseguente lesione delle radici posteriori del nervo sacrale determinavano l’insorgenza di una vescica neurogenica, atonica, con conseguente difficoltà nell’urinare, con successiva abnorme acuta distensione vescicale per l’elevata ritenzione urinaria non correttamente drenata dal catetere”. Una quadro clinico che “accentuava la bradicardia giunzionale con conseguente aritmia mortale“.

Tedesco, Nicolardi e  Mandolini, invece, sono accusati di avere “affermato il falso in merito a quanto accaduto nella notte tra il 15 e il 16 del 2009 in occasione dell’arresto” di Cucchi. In particolare “implicitamente accusavano, sapendoli innocenti, tre agenti della penitenziaria, dei delitti di lesioni personali pluriaggravate e abuso di autorità”. Gli agenti della Penitenziaria erano accusati per un pestaggio che si “ipotizzava perpetrato – scrive il pm – ai danni di Cucchi nella mattina del 16 ottobre del 2009, nella qualità di agenti preposti alla gestione del servizio delle camere di sicurezza del tribunale adibite alla custodia temporanea degli arrestati in flagranza di reato in attesa dell’udienza di convalida”.

Il pm Musarò ha dunque ritenuto infondata l’ipotesi della morte per epilessia di Cucchi, emersa dalla perizia d’ufficio disposta dal giudice in sede di incidente probatorio. L’attacco epilettico del quale è stato vittima il giovane nei giorni di detenzione dopo il suo arresto, infatti, non figura tra le cause che ne hanno causato il decesso. Da qui il cambio di imputazione: i carabinieri ai quali viene ora contestato l’omicidio, infatti, sono stati a lungo indagati per lesioni personali aggravate, mentre i militari accusati di calunnia erano sospettati solo di falsa testimonianza. Uno di questi – il maresciallo Mandoliniera stato di recente promosso nonostante l’indagine in corso.

Inchiesta che adesso arriva a una svolta. Fino ad ora ben quattro giudizi avevano portato soltanto ad assoluzioni: confermate due volte in appello quelle per i sanitari dell’ospedale Pertini, diventate definitive, invece, quelle per gli agenti penitenziari che lavoravano nelle celle del tribunale di Roma.

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“I carabinieri sono accusati di omicidio, calunnia e falso. Voglio dire a tutti che bisogna resistere, resistere, resistere. Ed avere fiducia nella giustizia”, commenta Ilaria Cucchi, sorella del giovane assassinato.  “Non lo so come sarà la strada che ci aspetta d’ora in avanti, sicuramente si parlerà finalmente della verità, ovvero di omicidio“, aggiunge la donna, che poi ringrazia l’avvocato Fabio Anselmo. “Ci sono voluti sette anni ma ce l’abbiamo fatta – dice invece il legale – Sono emozionato, felice. Credo sia un messaggio importante per tutti: quando si sa di essere dalla parte del giusto, bisogna resistere, resistere, resistere e la verità prima o poi viene fuori”. “La Procura ha esercitato una sua prerogativa e ha formulato il capo di imputazione che ritiene sussistente. Noi riteniamo, di contro, che tale contestazione non potrà essere provata nel giudizio in quanto gli elementi di fatto su cui fonda non sono riscontrabili in atti e, tanto meno, nella perizia disposta dal Gip con incidente probatorio”. dice l’avvocato Eugenio Pini, legale di uno dei carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale. “L’attacco all’Arma è sotto gli occhi di tutti, nonostante le innumerevoli perizie stabiliscano con assoluta certezza che non ci sono state lesioni di alcun tipo che ne abbiano potuto procurare la morte (vedasi perizia disposta dal Gip), vengono cambiati i capi d’imputazione per non incorrere nella prescrizione e mandano a processo dei Carabinieri innocenti, dei padri di famiglia, dei Servitori dello Stato, solo per infangarli“, dice invece Mandolini, uno dei carabinieri indagati per falso e calunnia.