L’Italia non salverà più i migranti in mare

L’Italia non salverà più i migranti in mare: Sos e may-day dirottati sulla Guardia costiera libica. Ecco il documento segreto

Il nostro Paese non è più Centro responsabile di soccorsi e salvataggio nel Mediterraneo. Ecco perché Salvini può dire che Lifeline “non ha rispettato le regole”. La circolare è stata trasmessa venerdì sera sul canale delle Capitanerie di porto. La prima missione del ministro dell’Interno in Libia: “Assoluta convergenza”. Ma Al Sarraj lo corregge: “I Centri di identificazione” fuori dai confini libici. Si torna dunque al piano Minniti: soldi alla Libia, piano di sviluppo per l’Africa, campi in Niger, Ciad e Mali, corridoi umanitari per chi ha diritto

Operazioni di soccorso di migranti (Ansa)
Operazioni di soccorso di migranti (Ansa)

La “novità”, il motivo per cui il vicepremier e ministro dell’Interno può dire in un’affollata conferenza stampa, che “adesso sull’immigrazione si passa dalle parole ai fatti” non è il pur utile decalogo di intenti portato dal premier Conte a Bruxelles (“nulla di nuovo” è il commento secco a Bruxelles). Meno che mai i “Centri di protezione e identificazione” ai confini esterni della Libia, cioè Niger e Ciad dove l’Italia è attiva da almeno due anni insieme con l’Organizzazione mondiale immigrati (nel 2017 sono stati eseguiti 23 mila accompagnamenti nei paesi di origine). La novità per cui Salvini pare radioso, camicia bianca molto smart, nonostante le tre ore di sonno, la missione in Libia e grazie al successo nei ballottaggi, è una circolare satellitare INMARSAT che da sabato cambia tutte le regole del soccorso nel Mediterraneo. Almeno come le abbiano conosciute dal 2013 a oggi.

Il vero motivo della visita a Tripoli

La novità sta nel vero motivo della visita di Salvini ieri a Tripoli: da sabato gli Sos e i may day delle navi Ong nel Mediterraneo avranno come coordinatore la Guardia costiera libica. Questo significa che tutte le navi che prestano soccorso nelle acque internazionali Sar (search and rescue) e a ridosso delle acque libiche, a cominciare dalle Ong, e che raccolgono naufraghi-migranti, avranno come primo riferimento le autorità libiche e come “porti sicuri” prima di tutto Tripoli, a seguire Malta e Tunisi. L’Italia, nei fatti, non è più il centro di coordinamento dei soccorsi e non ha più l’onere di dare un porto sicuro alle imbarcazioni. I migranti sappiano che ogni volta che mettono piede su un gommone, 99 su cento torneranno in Libia. “Volevano arretrare la linea a mare dei mezzi navali italiani che prestano soccorso – spiega una fonte qualificata a Tiscalinews – Questa circolare nei fatti ci impone di arretrare”.

Il documento segreto

Il documento

Tiscalinews può documentare questa novità grazie al documento allegato. Poche righe, molto tecniche, che hanno bisogno di essere spiegate. Dal 2103, dai tempi della missione Mare Nostrum che poi è diventata Triton e poi Themis (con agenzia Frontex), gli Sos e i may day delle carrette del mare e poi dei gommoni, venivano raccolti dal Maritime rescue coordination center (MRCC) di Roma, il Centro di coordinamento delle capitanerie di porto. Questo ha fatto sì che, nei fatti, l’Italia abbia avuto in questi anni la titolarità del soccorso e del ricovero delle varie imbarcazioni nei porti italiani. Con la conseguenza che i naufraghi-profughi hanno avuto in questi anni l’Italia come luogo di primo arrivo e, in base alla convenzione di Dublino, la responsabilità delle procedure amministrative di identificazione e di rilascio della richiesta d’asilo è stato tutto in capo all’Italia. Da qui “l’imbuto” nel nostro sistema di accoglienza, con una via d’ingresso certa e una via d’uscita (le procedure durano anni e i rimpatri per quel 70% circa che non ha diritto sono impossibili) assai incerta e costosa.

“Un nuovo modello”

Prima l’Aquarius, poi la Lifeline, la nave mercantile Maersk (caso diverso dai precedenti). In un mese tra palazzo Chigi e il Viminale, Salvini ha cambiato la sua comunicazione sul tema immigrazione-sicurezza. Non parla più di respingimenti (“manderemo via 600 mila irregolari”) ma si è concentrato sulle navi delle ong che prestano soccorso nel Mediterraneo e sui porti contendendo al ministro titolare, Danilo Toninelli (M5s), l’apertura e la chiusura dei porti. L’Aquarius è andata come è andata (è arrivata a Valencia dopo otto giorni di navigazione con a bordo circa 300 naufraghi). La Lifeline è ancora in mezzo al mare con 134 persone e non sa dove andare. “Mai in Italia” ha ripetuto ieri il ministro dando dell’“ignorante nel senso che ignora come stanno le cose” al ministro francese per gli Affari europei Nathalie Loiseau che ha detto che “spetta all’Italia accogliere la Lifeline e il suo carico di naufraghi”. Il punto è che Salvini ha ragione a metà. La Lifeline ha effettuato il soccorso del gommone nelle acque sar mercoledì della scorsa settimana quando ancora era in vigore il vecchio modello in base al quale era il Centro di coordinamento e soccorso di Roma, e dunque Italia, a gestire il salvataggio, il soccorso e l’accoglienza delle persone tratte in salvo a prescindere dal porto di arrivo più sicuro per la messa in sicurezza dei naufraghi. Tra venerdì e sabato le cose sono cambiate. E quindi anche la “giurisdizione” dell’operazione.

Malta e Tunisi “porti sicuri”

Il nuovo modello, come spiega il documento che vi mostriamo, ribadisce l’obbligo del soccorso ma l’autorità delegata per il coordinamento non è più Roma pensi Tripoli (si indica come Rcc, il rescue coordination center della guardia costiera libica). Da sabato, quindi – dice la circolare inoltrata sul circuito INMARSAT – la prima competenza è della Libia, poi di malta, Tunisi e infine Italia. Si tratta, è stato spiegato, di “istruzioni tecniche- operative” – dunque non un ordine politico, cioè del ministro Toninelli – dovute “ad un fatto nuovo”. Quale? “Una settimana fa sul database di Imo (Organizzazione marittima internazionale, agenzia dell’Onu che regola le regole del traffico marittimo) è comparso un nuovo numero di telefono che è operativo e riferito alla Guardia costiera libica”. Prima quel numero – 002-1821444**** – non esisteva, a significare che la guardia costiera libica non poteva operare. Ora esiste, è stato diramato e significa che Tripoli ha l’autonomia di poter operare per fare i soccorsi. La Lifeline doveva rispettare il vecchio modello o il nuovo? Nel secondo caso, la nave dell’ong sarebbe venuta meno alle regole. Da qui la richiesta di Salvini, ma anche Toninelli, di sequestro del mezzo e arresto dell’equipaggio.

SOS ignorati?

La domanda è arrivata in conferenza stampa. Il governo italiano ha dato disposizione alla Guardia Costiera di ignorare gli SOS provenienti dalle navi delle ong nel Mediterraneo? “Chiedetelo a Toninelli (ministro Infrastrutture e Trasporti e dunque competente sui porti, ndr) ma se così fosse avrebbe il mio totale sostegno”. Con leggerezza, e un filo di sarcasmo, il ministro ha fatto finta di buttare la palla in tribuna. Ben consapevole che un nuovo ordine, comunque, alla Guardia costiera è arrivato ed è di segno molto diverso al passato: i May-day della navi che soccorrono adesso finiscono tutti in Libia dove dovrebbero tornare i migranti raccolti in mare. E’ chiaro che non è lì che vogliono andare. Non è per tornare in Libia che hanno pagato profumatamente il racket.

Il punto è anche un altro. “E’ grazie alle navi militari italiane d’istanza a Tripoli se viene garantito il collegamento radio-telefonico e quindi il coordinamento operativo tra guardie costiere, Italia, navi e Ong” spiega la fonte. Ricapitolando: la richiesta di aiuto sarebbe stata dirottata su Tripoli dove però la struttura tecnica e logistica è, a sua volta, garantita dall’Italia”.

Nave Caprera

Non è un caso che ieri Salvini, nel suo primo viaggio diplomatico con destinazione Libia, abbia visitato la nave militare italiana Caprera, ferma nel porto di Tripoli, e l’equipaggio di 55 persone che stanno formando personale per la guardia costiera libica da circa un anno e mezzo, da quando cioè l’ex ministro Minniti ha riaperto con successo il canale diplomatico con Tripoli riducendo a -75% il numero degli sbarchi. Non è un caso se nell’incontro ieri con il Governo di accordo nazionale libico (GNA) guidato da Fayez Al Sarraj, Salvini ha promesso “la formazione di altri 300 uomini della Guardia costiera libica (213 quelli già operativi, ndr)” e ha annunciato che “prima dell’estate tornerà a Tripoli per consegnare motovedette ed equipaggiamenti militari”.

Col sorcio in bocca

Il ministro dell’Interno ieri è sembrato particolarmente “soddisfatto”: per i ballottaggi che hanno chiuso la narrazione delle “regioni rosse”; per il suo successo personale e della Lega; per “l’assoluta convergenza” con le autorità di Tripoli e, infine,  per una missione diplomatica che, il giorno dopo il mini vertice di Bruxelles, toglie di nuovo luce al premier Conte e al suo piano per l’immigrazione (European multilevel strategy for migration) che in 10 punti era riuscito comunque a cambiare l’agenda e la narrazione di Bruxelles, di Macron e di Merkel. Salvini, uno e trino – ministro dell’Interno, vicepremier e ministro degli Esteri – si è corretto sui Centri di identificazione per migranti che “non saranno in Italia come vuole la Francia” e “neppure in Libia” come gli ha fatto notare il governo di Sarraj, bensì “ai confini meridionali esterni della Libia” come in realtà è già da tre anni. Tre anni fa, infatti, l’Italia ha aperto Centri nella Valle di Agadez al nord del Niger dove fare filtraggio e smistare chi ha diritto e chi no ad arrivare in Europa. Nel 2017 la missione italiana in Niger, con l’aiuto dell’Oim, ha potuto accompagnare nei paesi di origine 23 mila migranti.

In linea col piano Minniti

In realtà il piano con la Libia di Salvini prosegue per filo e per segno quanto già avviato dai governi Renzi e Gentiloni: il Fondo per lo sviluppo dei paesi africani (sei miliardi ma finanziato solo per uno), i Centri di identificazione nei paesi di transito (Niger, Ciad e Mali gli unici che possono avere stabilità politica); corridoi umanitari per chi ha diritto alla protezione.  E poi “una conferenza sull’immigrazione illegale, di iniziativa italo-libica, da tenersi a settembre a Tripoli”; la “ripresa della partnership commerciale ed industriale tra i due Paesi”, con Roma definita “primo partner” e magari anche un volo di linea diretto Roma-Tripoli.

Il patto con la Libia è un tassello importante, il più importante, del piano generale che vede il potenziamento della difesa delle frontiere europee. Il governo di Al Serraj ha ribadito la volontà ad essere più collaborativo ma chiede “soldi, mezzi e investimenti”. Da sempre, l’unica moneta di scambio reale con la Libia. Fin dai tempi di Gheddafi. La differenza tra prima e adesso? “Prima mettevano sul tavolo i dossier con soluzioni e richieste, adesso passiamo dalle parole ai fatti” ha sottolineato Salvini.

Italia “più forte” al vertice di Bruxelles

Raccontato fin dalla partenza in aereo militare con tweet, post, foto, dirette facebook e conferenza stampa al ritorno, il blitz del titolare del Viminale a Tripoli ha anticipato quelli annunciati dallo stesso Conte, dell’altro vicepremier Luigi Di Maio e del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. E se Minniti viaggiava sempre top secret, spesso informando la stampa solo dopo, la missione di Salvini ha avuto fin dalla partenza una dimensione molto social e quasi in streaming. Con buona pace dell’ambasciatore italiano a Tripoli Giuseppe Perrone (unica sede diplomatica aperta) e degli 007 dell’Aise cui tocca, come sempre, la responsabilità di mettere in sicurezza la missione. E in Libia, purtroppo, la sicurezza non è il bene primario.

La missione diplomatica dovrebbe dare più forza alla delegazione italiana attesa giovedì a Bruxelles per il vertice.  Anche la Libia chiede “un presidio più consistente alle frontiere esterne”. Libia, Niger e Sudan sono dunque i paesi che fin da subito l’Europa deve aiutare per fermare i flussi migratori che, al 90 per cento, arrivano dalle spiagge libiche.

Il piano Conte

Il Piano in 10 punti del premier Conte mostra coerenza ed efficacia se preso sul serio fin da subito da tutti i paesi europei. “Ogni Stato deve stabilire quote di ingresso di migranti economici” recita il punto 10 del Piano Conte. Significa riaprire i flussi che in Italia sono chiusi dal 2011 per cui dall’Africa non esiste altro modo di arrivare in Italia e in Europa se non passando dalla Libia e dal racket dei gommoni. Anche il ministro è d’accordo: “Una volta messe sotto controllo le frontiere, possiamo prevedere, noi come altri, la riapertura dei flussi”. All’Italia serve mano d’opera. E adesso anche Salvini l’ha capito.

Migranti, arrestati sei gestori di centri Cas a Latina

Migranti, arrestati sei gestori di centri Cas a Latina: truffa, frode e maltrattamenti

Migranti, arrestati sei gestori di centri Cas a Latina: truffa, frode e maltrattamenti

Sono responsabili di Onlus che hanno in mano vari Centri di accoglienza straordinaria. Gli ospiti venivano maltrattati e venivano stipati in strutture sovraffollate e con carenze igienico sanitarie. La polizia ha scoperto anche “gravi e sistematiche” violazioni dei bandi di gara e la spartizione dei richiedenti asilo

Nei loro centri i migranti venivano maltrattati, ospitati in strutture sovraffollate e con carenze igienico sanitarie. Dopo averlo scoperto, la Polizia ha arrestato sei persone responsabili di Onlus che gestiscono diversi Centri di accoglienza straordinaria (Cas) in provincia di Latina. Sono accusati a vario titolo di falso, truffa aggravata, frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti.

Centri migranti come lager, sei arresti

Nel corso dell’indagine gli uomini della squadra mobile di Latina e quelli del Commissariato di Fondi hanno effettuato diversi sopralluoghi all’interno dei centri, riscontrando le gravi situazioni di sovraffollamento e altre carenze. Inoltre, analizzando la documentazione depositata dai responsabili delle Onlus per la partecipazione ai bandi di gara indetti per l’accoglienza dei migranti, i poliziotti hanno scoperto una serie di “gravi e sistematiche” violazioni nell’esecuzione degli obblighi assunti dai gestori dei Cas in sede di aggiudicazione delle gare.

Da una intercettazione è infine emerso che una delle Onlus, di fatto, si spartiva la gestione dei richiedenti asilo con un’altra Onlus, senza alcuna comunicazione alla Prefettura di Latina.

La medaglia d’oro delle azzurre afro-italiane

La medaglia d’oro delle azzurre afro-italiane, la favola che turba i razzisti della domenica

Sono quattro medaglie d’oro vinte con una staffetta bellissima, impeccabile, stabilendo un record e bruciando tutte le avversarie con un distacco imponente. Il secondo luogo è una bellissima impresa corale, dove ogni passaggio di testimone ti fa venire voglia di tributare una ovazione all’impresa. E infine le azzurre diventano una rappresentazione sintetica e simbolica nello stadio dove lampeggiano insieme sia l’inno di Mameli che i sorrisi del futuro

[La polemica] La medaglia d’oro delle azzurre afro-italiane, la favola che turba i razzisti della domenica
di Luca Telese, editorialista

Ancora quella foto. È festosa, potente, è piena di significato e ci costringe a riflettere. Prima ignorata dalla stragrande maggioranza dei giornali italiani. Oggi citata da tutti, e trasformata un altro pretesto per animare la polemica politica. Ridotta persino – da qualche demente – a pretesto per imbandire ciarle razzistiche di quarta classe. È una immagine di vittoria. Qualcuno la considera un simbolo di integrazione, altri – come Libero – addirittura come una “discriminazione” nei confronti delle “atlete bianche”. La foto delle azzurre “afro-italiane” (neologismo che ci aiuta a capire la portata di ciò di cui parliamo), le nostre ragazze che trionfano ai giochi del Mediterraneo, si trasforma dunque in un caso, e – ancora una volta – in una lezione di comunicazione: dove i media ufficiali avevano sottovalutato la potenza del messaggio, i social hanno riscritto l’agenda, collocando quello scatto al centro del dibattito e imponendolo in cima ai tempi più discussi con l’hastag #primaleitaliane.

Anche questa mattina, a Radio24, sembrava che il Paese si fosse davvero fermato imbambolato davanti all’immagine di Raphaela, Maria Benedicta, Libania e Ayomide. Non c’era “Decreto dignità” che tenesse, non c’era nemmeno la notizia dell’ennesimo naufragio nel Mediterraneo (con 116 morti) che potessero spostare il fuoco del dibattito. Le telefonate e i messaggi che arrivavano volevano tuti discutere – nella lotta serrata tra apologeti e denigratori – delle velociste azzurre.

Qualcuno considerava offensivo o “propagandistico” persino che io scegliessi di leggere la bellissima intervista della signora Paola, madre di Maria Benedicta. Lei romana, catechista, sposata con un nigeriano negli anni duemila, raccontava che sua figlia aveva dovuto “tirare fuori unghie e denti per difendersi”, e che forse c’era meno scandalo ai tempi del suo matrimonio con un nigeriano (venti anni fa) di quanto non ce ne sia oggi per una nuova italiana nata a Roma, come sua figlia. Mamma Paola aggiungeva, con una disamina perfetta del perché quella foto colpisca tanto: «Ci pensavo ieri: sono quattro sfumature d’Italia. La mia “Titti” nata qui con papà nigeriano arrivato in Italia a 18 anni come studente; la Grenot con la cittadinanza acquisita nel matrimonio; la Lukudu nata in Italia da genitori stranieri; e la Folorunso nata in Nigeria ma vissuta qui. Ecco – concludeva la signora Paola – l’Italia è anche questo». Già: nemmeno se avessero fatto un casting avrebbero potuto assortirle meglio.

Invece è stato il caso a fare da padrone, e questo fa arrabbiare tutti coloro che vedono in quella immagine uno strumento di attacco alle politiche della Lega o al sentimento anti-immigrati che tutti fanno come fatto acquisito. Con un paradosso nel paradosso, perché Salvini – che come è noto è noto più intelligente dei suoi fan – invece si è buttato subito su quella immagine, per provare a farla sua, dicendo: “Gioisco per questa vittoria italiana, come di tutte le medaglie italiane. Vorrei incontrare queste ragazze”.

Ma allora cos’é che colpisce tanto? L’immagine delle velociste azzurre è un messaggio così veloce – non dal punto di vista fisico, ma da dal punto di vista iconografico – che ci ha sorpassato, costringendoci a ripensarci. Ho rivisto la gara in integrale, dopo le polemiche di queste ore, e mi sono scoperto a commuovermi. In primo luogo queste sono quattro medaglie d’oro vinte con una staffetta bellissima, impeccabile, stabilendo un record e bruciando tutte le avversarie con un distacco imponente. Il secondo luogo è una bellissima impresa corale, dove ogni passaggio di testimone ti fa venire voglia di tributare una ovazione all’impresa.

E infine le azzurre diventano una rappresentazione sintetica E simbolica nello stadio dove lampeggiano insieme sia l’inno di Mameli che i sorrisi del futuro. Quella corsa a perdifiato in 3 minuti 28 secondi e 10 decimi di corsa, è diventata – fra l’altro – anche il record dei Giochi del Mediterraneo. E quella icona non poteva che trasformarsi nella sintesi di quattro vite complesse, appassionanti e tutte diverse. Un minuto dopo volevamo sapere tutto di loro. Raphaela Lukudo è nata Aversa da genitori sudanesi, Maria Benedicta Chigbolu è romana, ma (come abbiamo visto) con un padre nigeriano e una madre capitolina. Libania Grenot nasce cubana ma diventa italiana con un matrimonio. Ayomide Folorunso è nata in Nigeria ma vive in Italia da quando aveva quattro anni.

Questa foto è un grido di gioia, ma – sarebbe uno stupido ossequio al politicamente corretto negarlo – è anche una shock che ribalta il nostro istintivo senso comune: quattro afro-italiane, tutte insieme, e su di loro sventola la nostra bandiera. Che è anche la loro bandiera. Quattro afro-italiane con passo da gazzella e ali tricolori. Dunque questa non è solo una foto, e ci fa tanto discutere proprio perché ci parla di una parola, di una immagine d di una idea, che fino a ieri non esistevano ancora, almeno nella forma in cui si sono manifestate.

In mezzo a tante letture distorte, strumentali, allucinate o pretestuose, la cosa più sicura e inequivocabile è che sono “italiane prime”. Diventiamo vincenti – e questo è un altro ribaltamento di un cliché – perché includiamo, anche sportivamente, nuove energie. Ed ecco una aspetto che turba i razzisti della domenica. Queste ragazze non sono sans-papiers, perché nella legge dello sport i vincenti si includono da soli senza dover sottostare ad umiliazioni inutili, senza dover adempiere a obblighi burocratici.

Anche questo sottointeso, nel mondiale del nostro scontento, non è poco. Le azzurre medagliate non sono “abbronzate”, come scrive Libero, ma medagliate. Non sono nere, per una volta, ma color oro: vengono da tre continenti diversi, ma sono tutte italiane. Balotelli dieci anni fa, era una eccezione, un personaggio solitario che anticipava un’epoca. Queste ragazze sono un coro d’opera che ci parla di un futuro che è già arrivato. Questa immagine non è una foto posata: è una scultura animata, un manifesto civile. È il più antiretorico e scanzonato dei possibili monumenti all’Italia contemporanea. Ecco perché dico ai razzisti della domenica: rendetevi conto che se questa immagine vi fa male non è colpa loro, ma solo colpa vostra.

I soldi della Lega: Bossi nel 2012 lasciò in cassa 48 milioni. Poi spariti.

I soldi della Lega: Bossi nel 2012 lasciò in cassa 48 milioni. Poi spariti. E’ scritto nei bilanci

L’esposto dell’ex revisore Aldovisi: “Al 31 dicembre 2011 nel bilancio del movimento politico c’era un attivo di 47 milioni e 791 mila euro”. Il senatur lascia nell’aprile 2012. Eppure ora la magistratura chiede a lui di restituirli. Stamani alle 12 Salvini incontra il presidente Mattarella. Il Quirinale precisa: “Escluse valutazioni su decisioni della magistratura” . Ma Salvini: “Andrò a dire che non è tollerabile l’uso politico della giustizia”. L’imbarazzo dei 5 Stelle

Umberto Bossi e Matteo Salvini
Umberto Bossi e Matteo Salvini

L’appuntamento è a mezzogiorno. Vicepremier e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Salvini e Giorgetti, saliranno a quell’ora al Quirinale per incontrare il Presidente della Repubblica. Un appuntamento chiesto, voluto, quasi preteso, alla fine concesso per chiudere una faccenda agitata ad arte, in modo strumentale e all’indirizzo sbagliato. La saggezza di Mattarella ha deciso che alla fine ricevere Salvini è il minore dei mali e, soprattutto, l’occasione per fare chiarezza. “Andrò a dire che in Italia decidono gli italiani e non la magistratura” ha  tuonato ieri sera Salvini alle truppe della festa della Lega nel bresciano.  In realtà potrà essere molto meno esplicito rispetto a quello che dice. “Sono, ovviamente, escluse dall’oggetto del colloquio valutazioni o considerazioni su decisioni della magistratura” ha chiarito una nota ufficiale del Quirinale per disinnescare pericolosi cortocircuiti o idee che la Presidenza della Repubblica possa in qualche modo diventare un quarto grado di giudizio. Al massimo, Mattarella potrà concedere al leader della Lega un selfie. Non certo una diretta Facebook.

Come finanziare i partiti?

Detto questo, è chiaro che Salvini sottoporrà al Capo dello Stato il tema politico del finanziamento ai partiti. Questione apertissima – centrale anche nell’inchiesta sullo stadio della Roma – e trasversale. Ma per il resto, la magistratura farà – come si dice – il suo corso. Nel caso specifico, la procura di Genova indaga su ben cento conti correnti intestati alla Lega in 40 istituti di credito per trovare tracce dei famosi 49 milioni di rimborsi elettorali scomparsi dai radar. E su questo Salvini può solo aspettare. Magari potrebbe anche dare una mano agli investigatori della Guardia di Finanza e della polizia economica. Ora però, il punto è che i soldi che la procura cerca e che la Cassazione la scorsa settimana ha stabilito essere “necessario e legittimo cercare ovunque e presso chiunque anche nelle entrate future del partito” – quindi anche nei conti attuali del partito e dei singoli (Bossi s’è visto pignorare la stipendio di europarlamentare) – erano presenti nei conti di riferimento della Lega fino alla fine del 2011. Finche, cioè, Umberto Bossi è stato segretario. Solo in seguito sono spariti senza lasciare traccia.

I bilanci di via Bellerio

Tiscalinews ha potuto visionare i bilanci della Lega, pubblici e vistati da una società di revisione, dal 2010 al  2015 compreso. Esaminando la voce “avanzo/disavanzo degli esercizi”  e quella “totale attivo degli esercizi”, emerge che finché Umberto Bossi è stato segretario (2011) e dunque responsabile del bilancio, i famosi 49 milioni erano in cassa. E che sono spariti progressivamente dopo.

Nel dettaglio possiamo dire che “l’avanzo/disavanzo” 2010 e 2011 (Bossi segretario, Belsito tesoriere) registra +8 milioni e 118 mila euro nel 2010 e +6 milioni e 586 mila euro nel 2011.  Nel 2012 la voce “avanzo/disavanzo” crolla a -10 milioni e 760 mila euro (2012)  e -14 milioni e 819 mila euro nel 2013. E ancora -8 milioni e 388 mila euro nel 2014 e -2 milioni e 926 mila euro nel 2015.

Se si passa ad esaminare “l’attivo degli esercizi”, risulta che nel 2010 in cassa ci sono 41 milioni nel 2010 e 47 milioni nel 2011. Nel 2012 (segretario Maroni) l’attivo degli esercizi è pari a 40 milioni e l’anno dopo crolla a 25 milioni e 844 mila euro. Nel 2014 (segreteria Salvini) l’attivo è pari a 17 milioni e nel 2015 è di 9 milioni e mezzo.

Infine la “disponibilità liquida” alla fine degli esercizi: nel 2010 è pari a 31 milioni e mezzo e di 12 milioni e 800 mila nel 2011. Il crollo in questo caso è stato dimostrato essere attribuibile agli “investimenti” che Belsito, “all’insaputa di tutti” dicono fonti della Lega,  aveva fatto nei famosi diamanti della Tanzania. La disponibilità liquida nel 2012 (segretaria Maroni) è di 23 milioni e di 6 milioni nel 2013. I milioni diventano 5 nel 2014 (segreteria Salvini) e di un milione mezzo nel 2015.

Queste voci di bilancio sembrano dimostrare con buona certezza che quando Bossi lascia la segreteria nell’aprile del 2012, i 48 milioni sono nella casse di via Bellerio. Quello che succede dopo, è oggetto delle indagini della magistratura. Di certo pare curioso quanto afferma la Cassazione e cioè che “Bossi indichi dove sono i soldi”. L’ex segretario li ha lasciati nelle casse del partito.

Le due inchieste

Occorre precisare che sono due le inchieste in corso. Una è arrivata a sentenza nel luglio 2017, ha condannato Bossi (2 anni in quanto segretario e responsabile dei bilanci) e Belsito (4 anni, era il tesoriere) per truffa ai danni dello Stato, cioè per aver gestito in modo improprio tra il 2008 e il 2010 i rimborsi elettorali (ad esempio gli investimenti in Tanzania e su altri prodotti finanziari esteri). Da questa condanna di primo grado è partito l’ordine di sequestro dei conti correnti della Lega (4 settembre 2017) in cui però vengono rinvenuti solo 4 milioni.

C’è poi una seconda inchiesta, questa volta per riciclaggio, che parte dall’esposto di Stefano Aldovisi, l’ex revisore dei conti della Lega condannato per Bossi e Belsito. Aldovisi conferma quanto è scritto – almeno in chiaro – nei bilanci: “Al 31 dicembre 2011 nel bilancio della Lega c’era un attivo di 47 milioni e 791 mila euro, di cui 20,3 milioni in titoli e 12,8 di liquidi”.  La procura di Genova sta cercando quei soldi. In cento conti correnti e in 40 istituti di credito. Gli investigatori mettono le mani avanti e dicono che “potrebbero essere movimenti e trasferimenti regolari”. Sono in corso le verifiche. Il punto è che Bossi ha lasciato in cassa 48 milioni come dice anche l’ex tesoriere Aldovisi. Perché allora chiederli a lui? Magari stamani il presidente Mattarella assumerà informazioni su questo. E Salvini saprà certamente dare le necessarie risposte. Le aspettano anche gli alleati 5 Stelle che non possono più ignorare il caso.

La sanità è una montagna di soldi e potere.

La sanità è una montagna di soldi e potere. Otto scandali dove il malato non conta nulla

Rappresenta circa il 60% del bilancio di una regione senza contare l’indotto dei concorsi, degli appalti, dell’assistenza. Il malato, il cittadino è l’ultima ruota dell’ingranaggio

[L’inchiesta] La sanità è una montagna di soldi e potere. Otto scandali dove il malato non conta nulla
di Laura Aprati, giornalista d’inchiesta

“Mia figlia senza voler essere…mia figlia…è dieci volte più brava, e poi dico io i nostri figli, tu immagina quando aggiusto le cose nei concorsi e se capita a mia figlia? Che pur essendo più brava di…non può andare avanti … e allora mi sento un verme … dico mi sa che faccio parte anche io di questo sistema! però veramente, se il figlio veramente … ma io provo ammirazione per le persone brave. Siccome lo so i mezzucci, mi … cioè una cosa alluci… cioè il mio cruccio… ma così, ma questo come farà… andrà sempre avanti così”. Così la dirigente Maria Benedetto, da ieri agli arresti, raccontava ad una collega il “sistema” di malaffare della sanità lucana. Concorsi truccati. Pizzini in puro stile mafioso. Turbativa d’asta. Falso ideologico. Distruzione di atti pubblici. Una lista “dei verdi”. Frode. Tutto in un unico atto, l’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Matera nei confronti di oltre 30 soggetti tra cui il Presidente della Giunta Regionale lucana, Marcello Pittella, medico egli stesso, appartenente ad una delle famiglie più in vista sulla scena politica del territorio.

La “legge” che risale agli anni Settanta

Ma questa modalità di gestione del settore viene da lontano e non riguarda solo una regione. Ha inizio alla fine degli anni 70 con la nascita delle Regioni e il decentramento e l’attribuzione del sistema sanitario nazionale, nato con la Legge Anselmi, la n.833 del 1978, e che permette, ancor oggi, con tutti i limiti del caso, l’assistenza gratuita a tutti i cittadini.
Il decentramento però ha spalancato le porte ad un business quasi più lucroso delle opere pubbliche, basti pensare che, secondo il Report Istat, pubblicato il 4 luglio 2017, nel 2016 la spesa sanitaria corrente è stata di 149 miliardi e mezzo di euro e ha inciso sul Pil nella misura dell’8,9%, ed è sostenuta per il 75% dal settore pubblico e per la restante parte dal settore privato. La spesa sanitaria pesa su un bilancio regionale oltre il 60%. Una montagna di soldi, gestiti non nell’ottica dell’ottimizzazione del sistema sanitario quanto in quella del “sistema” personale, per ottenere maggiori consensi elettorali, per una migliore posizione, in cambio di soldi o benefit di diversa natura. Una montagna di soldi che si è riversata nelle regioni a partire da oltre 30 anni fa e che piano piano ha corroso persone, partiti e dove i sistemi criminali, soprattutto in alcune aree, hanno trovato terreno fertile.

La lezione di Provenzano

Lo stesso “Zi Binnu”, cioè Bernardo Provenzano, fui i primi ad intuire che il business era nella sanità pubblica. Nel 2006 la commissione d’accesso insediatasi nell’Asp di Locri a seguito dell’omicidio Fortugno, vice Presidente della Regione Calabria, aveva scritto: «Il quadro che emerge fa ragionevolmente presumere che forze mafiose locali si siano infiltrate nell’area dell’istituzione sanitaria. Il numero dei dipendenti non è quantificabile, in quanto in troppi sono stati arrestati o sospesi ma continuano a percepire lo stipendio». Ma non parliamo solo di Sud, o di un solo partito. E questo sistema è figlio di quel federalismo invocato, spinto e praticato come la panacea di tutti i problemi e come l’emblema di una parte che funziona,il Nord, contro il resto del Paese. E che ha portato alla bancarotta tanti territori, sulla pelle dei cittadini, favorendo spesso, e solo, gli interessi personali e privatistici. Se torniamo indietro con la memoria, dagli anni 90 ad oggi, da Roma a Torino a  Milano, da L’Aquila a Bari e ora Matera molti sono i casi. Proviamo a fare un piccolo elenco, non esaustivo, che serve però per fotografare un fenomeno che non ha colore politico, appartenenza, ideologia e che ha come unico comune denominatore i soldi. La salute dei cittadini come strumento per fare affari, per acquisire potere personale, per la “famiglia”.

Tappa per tappa

1- 1994, il caso dell’ex Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, liberale, che viene arrestato in relazione a tangenti per circa nove miliardi di lire ottenute da industriali farmaceutici dal 1989 al 1992, durante il suo ministero. Per questo condannato in via definitiva a 5 anni e 4 mesi di reclusione. Nel 1991, insieme a Duilio Poggiolini, direttore generale del servizio farmaceutico nazionale e membro della P2, decise l’obbligatorietà del vaccino contro l’epatite B. La sua decisione era stata “spinta” da una tangente da 600 milioni di lire pagata dalla Glaxo SmithKline, unica azienda produttrice del vaccino. Duilio Poggiolini era già stato accusato, nel 1993, di prendere tangenti dalle case farmaceutiche e fu soprannominato “Il Re Mida della sanità”.

2- 1997, a Milano parte l’inchiesta “lastre pulite” , che porta alla luce un  caso di corruzione ai danni delle Asl. Protagonista della vicenda Giuseppe Poggi Longostrevi, titolare di un Centro di medicina nucleare, il quale – secondo l’accusa – aveva corrotto centinaia di medici di famiglia affinché inviassero i propri pazienti nel suo centro, in cambio di tangenti. Poggi Longostrevi collaborò alle indagini ma alla vigilia del processo si suicidò.

3- Tra il 2001 e il 2003 tocca al Piemonte: una tangente versata da un’imprenditrice cuneese, Renata Prati, nelle mani di Luigi Odasso, direttore generale dell’ospedale Molinette di Torino, viene ripresa dalle telecamere nascoste dalla Guardia di Finanza del capoluogo piemontese. Oltre a Odasso ci sono una decina di altri indagati per un giro di tangenti pagate per favorire appalti di varia natura, sia edile sia di fornitura di materiale sanitario. Nel 2003, ancora in Piemonte, l’allora direttore generale dell’assessorato alla sanità, Ciriaco Ferro, finisce nell’occhio del ciclone per un giro di mazzette legate all’accreditamento di alcune cliniche private. Nell’autunno del 2002 alle Molinette di Torino scoppia il cosiddetto scandalo delle ‘valvole killer’. Dopo la confessione di un imprenditore, le indagini rivelano che negli anni precedenti erano state impiantate in 134 pazienti valvole cardiache difettose. Sette i morti. Indagati i due cardiochirurghi che dirigono il reparto, il direttore Michele Di Summa e il suo vice Giuseppe Poletti: l’ipotesi è che abbiano intascato tangenti per assegnare l’appalto per la fornitura di valvole e ossigenatori a due aziende, For.Med di Padova (che le importava dal Brasile) e Ingegneria Biomedica che, invece, forniva valvole della Sorin di Saluggia (Torino) e ossigenatori. Nel 2007 Di Summa viene assolto dall’accusa di omicidio colposo e lesioni, ma condannato a due anni, 10 mesi e 20 giorni per le tangenti. Anche Poletti viene assolto dall’accusa di omicidio e lesioni. Nel 2003 l’inchiesta di Torino si allarga a Padova, dove viene indagato l’ex primario di cardiochirurgia dell’ospedale Gallucci, Dino Casarotto, per corruzione, omicidio colposo e lesioni. Anche lui avrebbe impiantato le valvole cardiache provenienti dal Brasile e risultate poi difettose in 34 pazienti. Nel 2008 viene condannato a sette anni e 8 mesi e nel 2011 viene definitivamente assolto dalla Cassazione.

4- 2007, Milano Clinica Santa Rita , la Guardia di Finanza porta alla luce quanto accadeva all’interno della struttura: decine gli interventi chirurgici effettuati senza necessità, solo per ottenere i rimborsi dalla Regione. Quarantacinque i casi di lesioni accertate, quattro i morti. Il primario di chirurgia toracica, Pier Paolo Brega Massone è stato condannatoall’ergastolo anche in appello ma la Cassazione, con motivazione depositate il 3 aprile 2018, la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al dolo di omicidio e alla qualificazione giuridica dei reati, rinviando per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Milano.

5- 2011, Lombardia e la bancarotta della Fondazione San Raffaele. L’ipotesi è che Pierangelo Daccò, abbia sottratto milioni di euro all’ospedale attraverso fatture gonfiate e che li abbia ricevuti da Mario Cal, braccio destro di Don Verzé, morto suicida il 18 luglio dello stesso anno. Per questa vicenda non ha ancora ricevuto un verdetto definitivo dalla Cassazione. Nel 2012 il nome di Daccò finisce anche nel caso Maugeri, che coinvolge – tra gli altri – pure l’ex governatore lombardo Roberto Formigoni, l’ex assessore alla Sanità della Lombardia, Antonio Simone e il presidente della Fondazione, Umberto Maugeri. Numerose le accuse: a vario titolo si va dal riciclaggio di denaro all’appropriazione indebita, dall’associazione per delinquere alla frode fiscale.Nel maggio 2018 ha rinunciato parzialmente ai motivi d’appello in seguito a un accordo sulla pena raggiunto con la procura generale.

6- 2015, Milano, caso Mantovani, ex assessore alla Sanità della giunta di Roberto Maroni, viene arrestato con l’accusa di corruzione e corruzione per appalti nel settore sanitario. A fine gennaio 2106 il pm di Milano Giovanni Polizzi chiede il rinvio a giudizio per lo stesso Mantovani e per altre 14 persone, tra cui l’assessore regionale all’Economia Massimo Garavaglia.

7- 2008, Abruzzo viene arrestato Ottaviano Del Turco, governatore dell’Abruzzo, assieme ad altre persone, nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Pescara sulla sanità regionale. L’accusa è di associazione per delinquere, corruzione e concussione per gestione privata nella sanità. Si parla di circa 14 milioni di euro passati da mano in mano. A scatenare la bufera le dichiarazioni di Vincenzo Angelini, patron della clinica Villa Pini di Chieti (poi assolto in Appello). A novembre 2015 De Turco viene condannato in Appello a 4 anni e due mesi. Il 27 settembre 2017 La Corte d’Appello ha ridotto la pena di Del Turco, confermando solo quella a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita, dopo che la Cassazione aveva annullato la condanna per associazione a delinquere.

8- 2010, la sanità pugliese è finita più volte nell’occhio del ciclone, ma tra i casi più eclatanti c’è quello del 2010 che riguarda Lea Cosentino, ex direttrice generale dell’Asl Bari insieme all’ex senatore del Pd ed ex assessore regionale Alberto Tedesco, a Giampaolo Tarantini e decine di medici e dirigenti sanitari. Sono tutti coinvolti in vicende legate ad appalti truccati e alla presunta cattiva gestione della sanità pugliese.

E’ morto l’ematologo Franco Mandelli

E’ morto l’ematologo Franco Mandelli

E' morto l'ematologo Franco Mandelli
di Adnkronos

Roma, 15 lug. (AdnKronos) – E’ morto l’ematologo Franco Mandelli. A darne notizia è stata l’Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma Onlus (Ail), sulla sua pagina Fecebook. “Addio al nostro Presidente, professor Franco Mandelli, una vita dedicata alle malattie del sangue e alla solidarietà. Anima della nostra organizzazione di cui era Presidente Onorario e fondatore del Gimema. Ha pubblicato più di 700 studi scientifici. L’Ail tutta su stringe con riconoscenza e grande affetto alla sua famiglia”.Mandelli (nato a Bergamo il 12 maggio 1931) si è spento a Roma, all’età di 87 anni. Medico ed ematologo, presidente del Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto (Ginema), oltre che dell’Ail, ha incentrato la sua attività clinica e di ricerca sulla cura delle leucemie e dei linfomi, dedicando le sue energie in particolare al linfoma di Hodgkin e alle leucemie acute. E’ stato promotore di numerose campagne per raccogliere fondi a favore delle leucemie e per finanziare la ricerca scientifica. L’ematologo ha ricevuto nel 1987 dall’Accademia Nazionale dei Lincei il ‘Premio Nazionale per l’Oncologia’; nel 2001 ha ricevuto il premio ‘Adriano De Zan’. Inoltre, Mandelli è stato insignito (1987) della Medaglia d’oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte; è stato fatto (1993) Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana e ha ricevuto (2003) la Medaglia d’oro al merito della sanità pubblica.

Cristiano Ronaldo colpo della Juve

Cristiano Ronaldo colpo della Juve, ma la prima scelta era il Napoli

L’agente del portoghese, Jorge Mendes, contattò prima gli azzurri ma la trattativa sfumò per gli elevati costi. De Laurentiis: “Avrei rischiato il fallimento”

[Il retroscena] Cristiano Ronaldo colpo della Juve, ma la prima scelta era il Napoli
TiscaliNews

Il “colpo dell’anno” lo ha fatto la Juve ma Cristiano Ronaldo poteva finire ai rivali del Napoli. Si moltiplicano le indiscrezioni sull’arrivo in Italia di CR7 proprio mentre la Torino bianconera si preapara ad accogliere il fantasista portoghese e lui saluta i suoi nuovi tifosi con un lapidario “Italia, come stai, tutto bene?”. Cristiano Ronaldo ha firmato un contratto quadriennale fino al 30 giugno 2022 e la Juve per strapparlo al Real Madrid ha dovuto pagare 105 milioni di euro, più altri 12 di oneri accessori.

L’agente di CR7 contattò il Napoli

Ma la Juve non sarebbe stata la prima scelta di CR7. Dopo lo scontro sul rinnovo con il Real Madrid e la rottura con il presidente dei blancos Florentino Pérez il portoghese avrebbe chiesto di giocare in Italia ma nel Napoli. I due principali quotidiani sportivi, Corriere dello Sport e La Gazzetta dello Sport, rivelano un clamoroso retroscena: il potente agente del portoghese, Jorge Mendes, contattò il Napoli per avviare la trattativa. Ci furono dei contatti con il presidente De Laurentiis in primavera, ma l’operazione fu considerata dal club troppo onerosa.

De Laurentiis: “Avrei rischiato il fallimento”

E la conferma dell’acquisto mancato di CR7 è arrivata proprio da ADL. “Ronaldo era stato proposto pure al Napoli – ha detto il presidente a La Repubblica -. Mendes, il suo procuratore, mi telefonò. Abbiamo formulato anche a nostra offerta e avremmo pagato Ronaldo con le percentuali sugli incassi successivi garantiti dal suo arrivo. I 350 milioni di euro che investirà la Juventus sono oltre la nostra portata, avremmo rischiato di spingere il club verso il fallimento”.

Francia campione del mondo

Francia campione del mondo: ha vinto la squadra più brutta di tutte

Con gli avversari non proprio brillanti di questo Mondiale, Deschamps ha avuto vita facile. E la solita fortuna senza farci divertire

[L'analisi] Francia campione del mondo: ha vinto la squadra più brutta di tutte

Alla fine com’era giusto e com’era pure logico, il Mondiale del Cambiamento, quello che ha fatto fuori i vecchi fuoriclasse e i vecchi poteri, che però almeno giocavano a calcio, l’ha vinto la squadra più brutta di tutte, la Francia. E l’ha vinto con una partita delle sue, tutti dietro a piazzare un pullman in area e poi lanci lunghi e pedalare, che sia il portiere o Pogba a farli è lo stesso, tanto davanti c’è uno dei ragazzi più veloci del mondo, Kylian Mbappé.

Il risultato inganna

Non guardate il risultato, 4 a 2, con perla di Pogba nel secondo tempo che inventa un contropiede e poi va a realizzare con sberla da fuori area nell’angolino (l’unica cosa bella della partita): nella seconda parte di gara, la Croazia non c’era più, stremata da tre supplementari e da un percorso impervio di gran lunga superiore alle sue aspettative. Basta la cronaca del primo tempo per raccontare questa finale, quando i ragazzi di Zlatko Dalic erano ancora in campo.

La fortuna di Deschamps

Gli uomini di Deschamps si sono trovati in vantaggio mentre stavano ancora guardando la partita, senza neanche accorgersene. In 45 minuti sono usciti due volte dalla loro metà campo: due gol. Beh, complimenti. Mica per caso, Oltralpe, Didier lo chiamano Signor Fortuna, la chatte a Dedé, che è un po’ volgare da tradurre, ma con un po’ di sforzo possiamo intuirlo, pure noi. Quindi, due volte con il naso fuori e due reti. La prima grazie a una punizione completamente inventata dall’arbitro Pitana, un altro perfetto rappresentante del Cambiamento, su plastico tuffo di Griezmann. Palla in area e autogol di Mandzukic. La seconda dopo il meritatissimo pareggio della Croazia, con un lancio lungo del portiere deviato in calcio d’angolo da Vida: cross e scomposto fallo di mano di Perisic su palla innocua, così stupido ma così evidente. Naturalmente l’ottimo Pitana non se n’era accorto: l’ha salvato la Var. Griezmann ha trasformato, e via. Un autogol e un rigore senza aver fatto niente.

La Croazia ha dato tutto ma non aveva tanto

La povera Croazia ha dato tutto e ha giocato meglio fino a quando gli hanno retto il morale e il fisico. Era arrivata a questi Mondiali quasi in extremis, dopo aver cambiato il suo allenatore. Ha due ottimi giocatori a centrocampo, Rakitic e Modric, e un gladiatore in attacco, Mandzukic. Nient’altro. Un po’ poco. Ma per questo torneo così scadente, bastava e avanzava.

La Francia una delle squadre più brutte

La Francia, invece, è stata la più brutta squadra di questi Mondiali per tanti motivi. Il primo fra tutti è che aveva la squadra nettamente più forte, assieme al Belgio, quella con più talenti, da Pogba a Griezmann a Mbappé, con i due centrali migliori del torneo, Varane e Umtiti, e nonostante questo ha sempre evitato accuratamente di giocare, di dedicare anche solo uno sprazzo allo spettacolo, pensando solo a difendere e a legnare. Come dimostra per inciso anche lo score dei cartellini gialli per gioco falloso, nel primo tempo della finale: due ai francesi, nessuno ai croati. Certo, se uno scorreva solo le formazioni alla vigilia di questa World Cup, non poteva che riconoscerne i meriti: una nazionale che poteva permettersi di tenere a casa Benzema, Ben Arfa e Nasri (suscitando pure la rabbia scomposta di Anara Atenes, ex moglie di Nasri, che ha qualificato il povero Deschamps come il figlio di un mentecatto perché aveva preferito non convocare suo marito) schierando alcuni fra i più forti giocatori del mondo doveva per forza godere i favori dei pronostici.

I Blues non fanno giocare

L’Argentina aveva Messi e basta, visto che il suo ct aveva scelto di fare a meno di Dybala e Higuain. Il Portogallo Ronaldo e nient’altro. L’Inghilterra Kane. La Francia era l’unica ad avere un pacchetto di campioni degni di questo nome.
L’unico problema è che Deschamps deve aver pensato che visto che li aveva, la strada migliore era quella di non far giocare gli altri che poi ci avrebbero pensato loro. Solo che se incontri qualcun’altro che gioca come te, muore lo spettacolo e le partite non esistono più. Ai tempi dei diritti tv strapagati, è un suicidio. Poi, chi vince ha sempre ragione. E anche se non siamo d’accordo, inchiniamoci a Didier Deschamps. Lui è rimasto quello che aveva cominciato a giocare a rugby, un volto da basco tutto d’un pezzo, piccolo e arcigno, la mascella volitiva e una grinta speciale che gli ha sempre consentito di comandare un gruppo, qualsiasi gruppo, anche stando in silenzio, quando nello spogliatoio della sua nazionale c’erano Zidane, Trezeguet e Thierry Henry.

I colpi di Deschamps

Da allenatore non ha sbagliato un colpo. Ha portato il Monaco in finale di Champions, ha avuto l’umiltà di prendere la Juventus dopo caclciopoli e vincere il campionato di serie B, è tornato in Francia e ha conquistato la Ligue 1 con l’Olympique Marsiglia ai tempi del Psg, mica contro nessuno, e con la Nazionale è arrivato secondo agli Europei e adesso ha trionfato ai mondiali. Cosa si vuole di più? Tutto quello che tocca diventa oro. Certo, con la squadra che aveva in Russia era tutto più facile. E non credo che non dorma la notte per non averci fatto divertire. Lui s’è preso il mondiale. E Mbappé prenderà il Pallone d’oro. E’ il momento loro. Viva la Marsigliese.

Ripresa addio e capitali in fuga.

Ripresa addio e capitali in fuga. La pacchia è finita ma solo per l’Italia

La cattiva notizia è che le ultime aste di titoli pubblici non sono andate bene. A maggio, nelle convulsioni della formazione del governo, c’è stata una emorragia di capitali verso l’estero e i dati della Bce mostrano una riluttanza a tornare. Lo spread con il Bund tedesco è salito di un punto percentuale rispetto all’inverno e non accenna a scendere. Ma, anche se i titoli italiani pagano più di prima, non c’è la corsa ad accaparrarseli. Per i Btp a 15 anni piazzati qualche giorno fa, la domanda non era mai stata così bassa nell’ultimo anno e i rendimenti sono dovuti salire più di mezzo punto: dal 2,38 per cento al 3,04 per cento

Di Maio e Salvini, uomini contro
Di Maio e Salvini, uomini contro

Le ferie sono ad un passo, ma andiamo in vacanza  tutt’altro che sereni, anzi sbirciando di continuo dietro le spalle, per paura di brutte sorprese. Dietro il polverone di annunci, minacce, polemiche che ha – finora – accompagnato il cammino del governo gialloverde, infatti, i segnali che arrivano dal mondo reale, piuttosto che da quello immaginario, sfolgorante di promesse, che amano disegnare Di Maio e Salvini, sono assai poco rassicuranti.

Si potrebbe dire, parafrasando il leader della Lega, che “la pacchia è finita”. Dove, per pacchia, si intende una situazione in cui l’Italia vive, finalmente, almeno qualche refolo di ripresa economica, al sicuro da contraccolpi finanziari sotto l’ombrello di Draghi e della Bce. Invece, l’ombrello scomparirà nel giro di pochi mesi, la ripresa si sgonfia, la Ue fa gli occhiacci, i mercati brontolano e la finestra di opportunità che avevamo davanti rischia di sparire, prima che noi possiamo varcarla. Un’estate da acidità di stomaco. Proviamo a passare in rassegna le cose di cui Salvini e Di Majo non amano parlare.

La ripresa si sgonfia. Nessuno può permettersi di evocare profeti di sventura o congiure di uffici studi. L’area euro ha cominciato il 2018 perdendo colpi e, dopo sei mesi, si è capito che non è un fenomeno passeggero. Le previsioni sono state limate per tutta l’eurozona sia per il 2018 e, ancor più, per il 2019. Per l’Italia, che già era in fondo alla fila, va peggio che per gli altri: 1,3 per cento quest’anno e un’espansione solo dell’1,1 per cento l’anno prossimo. E’ una previsione dichiaratamente ottimistica: difficilmente, dicono gli economisti, potrà andar meglio, mentre è assolutamente possibile che vada peggio, in particolare se la guerra commerciale con Trump si incendia davvero e colpisce le esportazioni.

Invece, per cominciare ad intaccare seriamente una disoccupazione sopra il 10 per cento, l’Italia avrebbe bisogno di un tasso di sviluppo del 4 per cento almeno per due-tre anni. Nella visione miracolistica di molti politici leghisti, è quanto potrebbe avvenire con la frustata alla domanda che verrebbe dal taglio delle tasse conseguente alla introduzione della flat tax. Stile Trump. In economia, però, non c’è spazio per i miracoli: la ripresa artificiale viene presto risucchiata dal buco che il taglio delle tasse apre nel bilancio pubblico.

Nell’esperienza storica, meno tasse non equivalgono a paese più ricco. Il rilancio non genera entrate aggiuntive sufficienti a ripianare il buco. Neanche nell’America di Trump. L’università di Chicago ha chiesto ad un gruppo di 40 economisti se, con la riforma fiscale appena approvata, fra 10 anni l’America sarà più indebitata di oggi. Il panel era rappresentativo di varie tendenze, ma Chicago è una università tradizionalmente di destra e gli economisti vicini ai repubblicani erano assai ben rappresentati. Ciò nonostante, nessuno (ripeto: nessuno) ha detto che con la riforma le cose andranno meglio. La differenza era solo fra chi è certo che il debito aumenterà e chi ne è “assolutamente”certo.

I capitali si tengono alla larga. La buona notizia, comunque, è che, a metà anno, (anche per approfittare dei tassi bassi) il Tesoro ha largamente coperto le necessità di finanziamento 2018 e dovrà ricorrere poco ai mercati. La cattiva notizia è che le ultime aste di titoli pubblici non sono andate bene. A maggio, nelle convulsioni della formazione del governo, c’è stata una emorragia di capitali verso l’estero e i dati della Bce mostrano una riluttanza a tornare. Lo spread con il Bund tedesco è salito di un punto percentuale rispetto all’inverno e non accenna a scendere. Ma, anche se i titoli italiani pagano più di prima, non c’è la corsa ad accaparrarseli. Per i Btp a 15 anni piazzati qualche giorno fa, la domanda non era mai stata così bassa nell’ultimo anno e i rendimenti sono dovuti salire più di mezzo punto: dal 2,38 per cento al 3,04 per cento. Questa roba costa.

La Ue brontola. Chi pensava che la Commissione di Bruxelles si fosse riconvertita dall’austerità alla tedesca ad una flessibilità più anglosassone si ricreda in fretta: il dibattito sembra essere tornato al punto di due anni fa. Il ministro del Tesoro, Tria, sostiene che non bisogna strozzare i bambini nella culla. Ovvero, se la ripresa segna il passo, non è proprio il caso di rendere le cose più difficili, con misure di austerità (tagli di spesa, aumenti di tasse) che abbelliscono momentaneamente i numeri di bilancio, ma strozzano l’economia e l’azzoppano per l’anno successivo. Gli economisti in massa sono d’accordo con lui. Ma così non la vedono a Berlino e, a quanto pare, anche a Bruxelles. Il commissario Moscovici (un francese) ha acidamente osservato che il miglioramento strutturale del bilancio deve essere indipendente dalle oscillazioni della congiuntura. Ovvero, bisogna andar fuori a correre, anche se nevica.

Il teatrino non è nuovo ed era largamente prevedibile anche quest’anno. Tuttavia, illustra bene con quale animo a Bruxelles si preparano ad esaminare le richieste di flessibilità (ma, con promesse che equivalgono a maggiori spese per 100 miliardi di euro, sarebbe meglio parlare di sfondamento) che l’Italia presenterà a novembre, almeno a stare al Contratto del governo grilloleghista.

Non chiudete quella finestra. Il rischio è  che parole grosse, gusto dello scontro, vocazione al braccio di ferro – un po’ come per l’immigrazione – facciano sparire dal tavolo una carta che l’Italia potrebbe giocare a vantaggio suo e della flessibilità. L’ha segnalata in questi giorni la Corte dei conti. La questione è tecnica, ma va al cuore dei nostri problemi con l’Europa. Questo cuore è il debito, riassunto, agli occhi di Bruxelles, nel rapporto fra il debito pubblico (un po’ più di 2.200 miliardi di euro) e il Pil, quanto produce in un anno l’economia (un po’ meno di 1.500 miliardi di euro). Se il debito aumenta meno del Pil, come insegna l’aritmetica delle frazioni, il rapporto si riduce.

E questo è quanto sta avvenendo, grazie ai tassi bassi e a qualche refolo di ripresa, condita con un’inflazione un po’ più vivace. Grosso modo, la regola dice: se il costo medio del debito è inferiore all’aumento del Pil nominale (comprensivo cioè dell’inflazione), il rapporto debito/pil scende. Se l’economia cresce, in termini reali, un po’ più dell’1 per cento, l’inflazione si accosta, come vorrebbe la Bce, al 2 per cento, il Pil nominale sale del 3 per cento. Il costo medio del debito, con lo spread di oggi, è al 2,8 per cento. Abbiamo, dice la Corte dei conti, un margine positivo dello 0,2 per cento che erode, piano piano, il debito.

Stiamo riducendo il debito, possiamo dire a Bruxelles. Varrebbe più di molti pugni sbattuti sul tavolo. Ma, per favore, non fate bollire lo spread, come due mesi fa.

Di Maio difende Assia Montanino, 26enne di Pomigliano d’Arco assunta al Mise: “Non c’è persona più onesta di lei”

Di Maio difende Assia Montanino, 26enne di Pomigliano d’Arco assunta al Mise: “Non c’è persona più onesta di lei”

Il ministro del Lavoro replica all’articolo de Il Giornale: “È la figlia di un commerciante che ha denunciato i suoi usurai”

MAX ROSSI / REUTERS

Luigi Di Maio replica a il Giornale, che nell’edizione odierna riporta la notizia dell’assunzione al Ministero dello Sviluppo Economico di Assia Montanino, 26enne di Pomigliano d’Arco, lo stesso paese del ministro del Lavoro. “Non ho mai conosciuto una persona più onesta e leale di lei”, ha scritto Di Maio in un post pubblica su Facebook.

Il Giornale parla di “balzo di carriera impressionante per la giovanissima napoletana”, il cui curriculum, sarebbe “un mistero”. Di Maio non ci sta e attacca: “Lo schifo che leggo oggi sul Giornale – scrive Di Maio nel suo post – va messo nella categoria della stampa spazzatura. La dottoressa Assia Montanino l’ho conosciuta 5 anni fa. È la figlia di un commerciante che ha denunciato i suoi usurai e ho avuto modo di conoscerla quando sono stato a far visita al padre per portargli la mia solidarietà. Era una giovane universitaria a cui decisi di dare una opportunità di tirocinio presso la mia segreteria di vice presidente della Camera. Negli anni si è distinta per la sua capacità di gestire situazioni complesse di segreteria. E posso assicurarvi che non ho mai conosciuto una persona più onesta e leale di lei. Vergognatevi”.

Il Corriere della Sera traccia il profilo di Montanino:

È un’attivista della prima ora. Nel 2015 si candidò alle amministrative a Pomigliano con il Movimento 5 stelle, ottenendo 170 voti molti di più di quelli ottenuti dallo stesso Di Maio quando si candidò per la prima volta nel 2010. Il ministro del Lavoro infatti aveva ottenuto solo 59 preferenze. Dopo il trasferimento a Roma, la giovane laureata in Economia ha svolto un tirocinio alla Camera, come ha raccontato il vicepremier. Unica esperienza di cui si abbia notizia, dato che, come spiega il Giornale, sul sito del ministero non c’è traccia del suo curriculum.