Ripresa addio e capitali in fuga.

Ripresa addio e capitali in fuga. La pacchia è finita ma solo per l’Italia

La cattiva notizia è che le ultime aste di titoli pubblici non sono andate bene. A maggio, nelle convulsioni della formazione del governo, c’è stata una emorragia di capitali verso l’estero e i dati della Bce mostrano una riluttanza a tornare. Lo spread con il Bund tedesco è salito di un punto percentuale rispetto all’inverno e non accenna a scendere. Ma, anche se i titoli italiani pagano più di prima, non c’è la corsa ad accaparrarseli. Per i Btp a 15 anni piazzati qualche giorno fa, la domanda non era mai stata così bassa nell’ultimo anno e i rendimenti sono dovuti salire più di mezzo punto: dal 2,38 per cento al 3,04 per cento

Di Maio e Salvini, uomini contro
Di Maio e Salvini, uomini contro

Le ferie sono ad un passo, ma andiamo in vacanza  tutt’altro che sereni, anzi sbirciando di continuo dietro le spalle, per paura di brutte sorprese. Dietro il polverone di annunci, minacce, polemiche che ha – finora – accompagnato il cammino del governo gialloverde, infatti, i segnali che arrivano dal mondo reale, piuttosto che da quello immaginario, sfolgorante di promesse, che amano disegnare Di Maio e Salvini, sono assai poco rassicuranti.

Si potrebbe dire, parafrasando il leader della Lega, che “la pacchia è finita”. Dove, per pacchia, si intende una situazione in cui l’Italia vive, finalmente, almeno qualche refolo di ripresa economica, al sicuro da contraccolpi finanziari sotto l’ombrello di Draghi e della Bce. Invece, l’ombrello scomparirà nel giro di pochi mesi, la ripresa si sgonfia, la Ue fa gli occhiacci, i mercati brontolano e la finestra di opportunità che avevamo davanti rischia di sparire, prima che noi possiamo varcarla. Un’estate da acidità di stomaco. Proviamo a passare in rassegna le cose di cui Salvini e Di Majo non amano parlare.

La ripresa si sgonfia. Nessuno può permettersi di evocare profeti di sventura o congiure di uffici studi. L’area euro ha cominciato il 2018 perdendo colpi e, dopo sei mesi, si è capito che non è un fenomeno passeggero. Le previsioni sono state limate per tutta l’eurozona sia per il 2018 e, ancor più, per il 2019. Per l’Italia, che già era in fondo alla fila, va peggio che per gli altri: 1,3 per cento quest’anno e un’espansione solo dell’1,1 per cento l’anno prossimo. E’ una previsione dichiaratamente ottimistica: difficilmente, dicono gli economisti, potrà andar meglio, mentre è assolutamente possibile che vada peggio, in particolare se la guerra commerciale con Trump si incendia davvero e colpisce le esportazioni.

Invece, per cominciare ad intaccare seriamente una disoccupazione sopra il 10 per cento, l’Italia avrebbe bisogno di un tasso di sviluppo del 4 per cento almeno per due-tre anni. Nella visione miracolistica di molti politici leghisti, è quanto potrebbe avvenire con la frustata alla domanda che verrebbe dal taglio delle tasse conseguente alla introduzione della flat tax. Stile Trump. In economia, però, non c’è spazio per i miracoli: la ripresa artificiale viene presto risucchiata dal buco che il taglio delle tasse apre nel bilancio pubblico.

Nell’esperienza storica, meno tasse non equivalgono a paese più ricco. Il rilancio non genera entrate aggiuntive sufficienti a ripianare il buco. Neanche nell’America di Trump. L’università di Chicago ha chiesto ad un gruppo di 40 economisti se, con la riforma fiscale appena approvata, fra 10 anni l’America sarà più indebitata di oggi. Il panel era rappresentativo di varie tendenze, ma Chicago è una università tradizionalmente di destra e gli economisti vicini ai repubblicani erano assai ben rappresentati. Ciò nonostante, nessuno (ripeto: nessuno) ha detto che con la riforma le cose andranno meglio. La differenza era solo fra chi è certo che il debito aumenterà e chi ne è “assolutamente”certo.

I capitali si tengono alla larga. La buona notizia, comunque, è che, a metà anno, (anche per approfittare dei tassi bassi) il Tesoro ha largamente coperto le necessità di finanziamento 2018 e dovrà ricorrere poco ai mercati. La cattiva notizia è che le ultime aste di titoli pubblici non sono andate bene. A maggio, nelle convulsioni della formazione del governo, c’è stata una emorragia di capitali verso l’estero e i dati della Bce mostrano una riluttanza a tornare. Lo spread con il Bund tedesco è salito di un punto percentuale rispetto all’inverno e non accenna a scendere. Ma, anche se i titoli italiani pagano più di prima, non c’è la corsa ad accaparrarseli. Per i Btp a 15 anni piazzati qualche giorno fa, la domanda non era mai stata così bassa nell’ultimo anno e i rendimenti sono dovuti salire più di mezzo punto: dal 2,38 per cento al 3,04 per cento. Questa roba costa.

La Ue brontola. Chi pensava che la Commissione di Bruxelles si fosse riconvertita dall’austerità alla tedesca ad una flessibilità più anglosassone si ricreda in fretta: il dibattito sembra essere tornato al punto di due anni fa. Il ministro del Tesoro, Tria, sostiene che non bisogna strozzare i bambini nella culla. Ovvero, se la ripresa segna il passo, non è proprio il caso di rendere le cose più difficili, con misure di austerità (tagli di spesa, aumenti di tasse) che abbelliscono momentaneamente i numeri di bilancio, ma strozzano l’economia e l’azzoppano per l’anno successivo. Gli economisti in massa sono d’accordo con lui. Ma così non la vedono a Berlino e, a quanto pare, anche a Bruxelles. Il commissario Moscovici (un francese) ha acidamente osservato che il miglioramento strutturale del bilancio deve essere indipendente dalle oscillazioni della congiuntura. Ovvero, bisogna andar fuori a correre, anche se nevica.

Il teatrino non è nuovo ed era largamente prevedibile anche quest’anno. Tuttavia, illustra bene con quale animo a Bruxelles si preparano ad esaminare le richieste di flessibilità (ma, con promesse che equivalgono a maggiori spese per 100 miliardi di euro, sarebbe meglio parlare di sfondamento) che l’Italia presenterà a novembre, almeno a stare al Contratto del governo grilloleghista.

Non chiudete quella finestra. Il rischio è  che parole grosse, gusto dello scontro, vocazione al braccio di ferro – un po’ come per l’immigrazione – facciano sparire dal tavolo una carta che l’Italia potrebbe giocare a vantaggio suo e della flessibilità. L’ha segnalata in questi giorni la Corte dei conti. La questione è tecnica, ma va al cuore dei nostri problemi con l’Europa. Questo cuore è il debito, riassunto, agli occhi di Bruxelles, nel rapporto fra il debito pubblico (un po’ più di 2.200 miliardi di euro) e il Pil, quanto produce in un anno l’economia (un po’ meno di 1.500 miliardi di euro). Se il debito aumenta meno del Pil, come insegna l’aritmetica delle frazioni, il rapporto si riduce.

E questo è quanto sta avvenendo, grazie ai tassi bassi e a qualche refolo di ripresa, condita con un’inflazione un po’ più vivace. Grosso modo, la regola dice: se il costo medio del debito è inferiore all’aumento del Pil nominale (comprensivo cioè dell’inflazione), il rapporto debito/pil scende. Se l’economia cresce, in termini reali, un po’ più dell’1 per cento, l’inflazione si accosta, come vorrebbe la Bce, al 2 per cento, il Pil nominale sale del 3 per cento. Il costo medio del debito, con lo spread di oggi, è al 2,8 per cento. Abbiamo, dice la Corte dei conti, un margine positivo dello 0,2 per cento che erode, piano piano, il debito.

Stiamo riducendo il debito, possiamo dire a Bruxelles. Varrebbe più di molti pugni sbattuti sul tavolo. Ma, per favore, non fate bollire lo spread, come due mesi fa.

Ripresa addio e capitali in fuga.ultima modifica: 2018-08-18T18:28:13+02:00da ugo565
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