Reddito d’inclusione

Vi spieghiamo il reddito d’inclusione. Quanto vale e chi può chiederlo. “700mila i minori potenziali beneficiari”

Dal 1 dicembre è possibile presentare all’Inps le domande per accedere all beneficio, che partirà da gennaio. Il contributo massimo è di 5.824,80 euro l’anno

Potranno essere erogati fino a 485 euro mensili, per una durata non superiore ai 18 mesi. Entra nella fase operativa la legge delega per il contrasto alla povertà e il riordino delle prestazioni sociali. Il reddito di inclusione (Rei) è diventato operativo per le famiglie in condizioni di povertà. Dal 1 dicembre è infatti possibile presentare all’Inps le domande per accedere all beneficio, che partirà da gennaio. Il contributo massimo, al momento, è pari a 5.824,80 euro l’anno, ovvero 485,40 euro al mese, ma nella legge di bilancio 2018 sono previste risorse aggiuntive. Il Rei, che in prima battuta interessa quasi 500.000 famiglie e circa 1,8 milioni di persone, è compatibile con lo svolgimento di un’attività lavorativa, fermi restando i requisiti economici di base, ma non con la contemporanea fruizione della Naspi o di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria. Per Save the children, sono 700.000 i minori possibili beneficiari del reddito d’inclusione, su un totale di 1.8 milioni.

Chi ne ha diritto

Già dal gennaio 2018, compatibilmente con le risorse disponibili e sulla base delle priorità indicate dal legislatore, il Rei sarà riservato a una platea composta da circa 500.000 famiglie. Vi accedono i nuclei familiari con un componente di età minore di anni 18, una persona con disabilità e di almeno un suo genitore, ovvero di un suo tutore, una donna in stato di gravidanza accertata, almeno un lavoratore di età pari o superiore a 55 anni, che si trovi in stato di disoccupazione per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale.

Quanto vale

Il beneficio economico è erogato in 12 mensilità attraverso la carta acquisti, rinominata Carta Rei. La Carta Rei consente la possibilità di prelievi di contante, entro un limite mensile non superiore alla metà del beneficio massimo attribuibile. L’importo, per chi non riceve ulteriori trattamenti, sarà di circa 190 euro per i nuclei composti da una sola persona e andrà a crescere gradualmente all’aumento del numero dei componenti della famiglia, fino a un massimo di quasi 485,40 euro al mese per un nucleo con 5 o più componenti. La manovra all’esame del Parlamento aumenta per i nuclei con 5 o più componenti, gli unici per i quali è previsto un beneficio potenziale sopra il massimale, il contributo massimo fino a circa 530-540 euro.

Quanto dura

Il beneficio economico è concesso per un periodo massimo di 18 mesi e non potrà essere rinnovato prima di 6 mesi. In caso di rinnovo, la durata è fissata in 12 mesi.

Quali sono i requisiti

Il Rei è garantito in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale ai nuclei familiari in possesso di un valore dell’Isee non superiore a 6.000 euro, un valore dell’Isre, (l’indicatore reddituale dell’Isee diviso la scala di equivalenza) non superiore a 3.000 euro ai fini Rei e un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20.000 euro (oltre a ulteriori condizioni che garantiscano l’effettiva condizione di disagio economico).

I servizi alla persona

Verranno identificati sulla base di una valutazione preventiva del bisogno del nucleo familiare, che terrà conto anche della situazione lavorativa e del profilo di occupabili, dell’educazione, istruzione e formazione, della condizione abitativa e delle reti familiari, di prossimità e sociali della persona. Si delineerà così un progetto personalizzato, finalizzato a superare la condizione di povertà del nucleo familiare, che conterrà i servizi e gli interventi specifici necessari, che si affiancheranno al beneficio economico, nonché gli impegni a svolgere specifiche attività, cui il beneficio economico è condizionato.

Come presentare la domanda

La domanda deve essere presentata ai Comuni o altri punti di accesso, identificati dai Comuni stessi, sulla base dell’apposito modulo predisposto dall’Inps

La battaglia politica

La nuova normativa, com’era prevedibile, è stata accolta con entusiasmo dagli ambienti politici del governo in carica. Non piace, invece, questo era altrettanto prevedibile, agli ambienti poco o per nulla “filo governativi. Le prime critiche sono venute dalla sinistra cigiellina. Per Maurizio Landini, il reddito di inclusione così come è stato pensato ha molte lacune. “I livelli di povertà in Italia sono aumentati: siamo di fronte a 4 milioni e mezzo di poveri e di fronte al fatto che 11 milioni di persone non hanno i soldi per pagarsi le cure. Il reddito di inclusione non arriva ai 4 milioni e mezzo di persone considerate povere, ma solo a una minima parte. Fare distinzione tra poveri è un errore”, ha spiegato Landini a Palermo. “Dopodiché – ha aggiunto – tutelare e fare uscire le persone dalla povertà credo che sia un obiettivo che rimane e in senso generale pone un problema di ridisegno dello stato sociale in questo Paese e di riforma fiscale”. “Un sostegno a chi non ce la fa da solo, lo Stato deve metterlo in campo e questo significa recuperare le risorse per questi provvedimenti”.

Save the children

Ha fatto i conti, per conto dei bambini, anche Save the children. Secondo l’associazione, i minori che potranno usufruire dell’assistenza saranno soprattutto quelli colpiti da deprivazioni che riguardano aspetti essenziali della loro vita come la salute, la nutrizione, l’educazione e il cui futuro, per questo, rischia di essere compromesso. “Affinché la strategia di contrasto alla povertà minorile sia efficace, è necessario che al reddito d’inclusione, il quale rappresenta un positivo passo avanti, siano affiancate – dichiara Raffaela Milano, Direttrice dei programmi Italia Europa di Save the Children – adeguate misure rivolte in modo mirato ai bambini e ai ragazzi in condizioni di svantaggio”. Per l’organizzazione la povertà minorile rappresenta in Italia una vera emergenza. “È fondamentale”, che il Rei rappresenti “il primo passo per un piano organico di contrasto alla povertà minorile, fondato sul sostegno alle famiglie e sul rafforzamento delle reti sia sociali che educative”.

Gentiloni e Di Maio

Se per il per il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni il reddito di inclusione è “un passo primo passo importante” per il contrasto alla povertà e incentivo all’inclusione sociale su tutto il territorio nazionale”, per il candidato premier del Movimento 5 Stelle Di Maio “il reddito inclusione non cambia nulla: sono un paio di anni che gli altri partiti cercano di copiare il reddito di cittadinanza. Ma questi altri strumenti tolgono ai poveri per dare ai poveri. Quindi alla fine il risultato non cambierà. Di Maio ha poi ribadito che il reddito di cittadinanza proposto dal suo partito “non dà soldi a chi sta sul divano” ma incentiva alla formazione e alla ricerca di un lavoro. “Noi siamo contro le misure assistenzialiste, magari ci avessero copiato…”, ha concluso.

La riforma è stata presa abbastanza bene da Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio nazionale degli assistenti sociali. “Solo rafforzando i servizi sociali sul territorio il Rei sarà vero motore di cambiamento”, ha affermato nella prima giornata di avvio della presentazione delle domande per poter fruire dei benefici del reddito di inclusione. Secondo Gazzi “non è assolutamente accettabile che una misura così importante come il Rei si infranga in contesti organizzativi carenti a causa di decenni in cui gli investimenti sulle reti dei servizi si sono progressivamente ridotti fino a quasi azzerarsi, con le strutture quasi completamente svuotate dal blocco del turn over e da una esternalizzazione precaria e indiscriminata”.

L’Argentina si arrende: nessuna speranza di ritrovare vivi i marinai del sottomarino.

 “Sono morti in 2 minuti”

Secondo un esperto, i 44 membri dell’equipaggio della San Juan sono morti per avvelenamento in seguito a un’esplosione

La Marina argentina ha detto di non sperare più di ritrovare in vita l’equipaggio del sottomarino militare San Juan, scomparso dal 15 novembre, mentre proseguono le operazioni per tentare di recuperare il sommergibile nell’Atlantico meridionale.

Affondato a 450 km dalla Patagonia

Secondo gli esperti, il sottomarino è affondato a circa 450 chilometri al largo della costa della Patagonia, poche ore dopo aver segnalato un’infiltrazione di acqua, un inizio di incendio a bordo e danni al sistema delle batterie che alimenta il mezzo dotato di motori diesel.

In una conferenza stampa a Buenos Aires, il portavoce della Marina, Enrique Balbi, ha annunciato che la fase di “ricerca e soccorso” è terminata e che ora si prosegue nella ricerca del sottomarino, probabilmente a 900 metri di profondità. “La speranza di vita è pari a zero. Siamo nel bel mezzo di una tragedia”.

Il dolore dei marinai

L’atmosfera all’interno della Marina è di assoluto sgomento, angoscia e dolore. Abbiamo perso 44 compagni”, ha detto alla France presse un ufficiale della Marina argentina che ha chiesto l’anonimato. Il portavoce della Marina ha sottolineato che le ricerche condotte da una coalizione internazionale “non hanno permesso di scoprire il minimo elemento del naufragio nelle aree esplorate”, che sono andate avanti “il doppio del tempo” stimato per la sopravvivenza dei marinai a bordo del sommergibile.

Morti in due minuti

E’ l’ipotesi avanzata da Horacio Tobias, capitano di fregata e ingegnere navale, sulla sorte dei marinai del San Juan. In un’intervista a ‘Clarin’ Tobias ha dichiarato che il sottomarino ha subito una scarica elettrica incontrollata con l’ingresso di acqua di mare che ha provocato un’esplosione interna. Questa in “due minuti” ha causato “la morte della maggioranza dell’equipaggio per avvelenamento da idrogeno”.

La ricostruzione dell’esperto su quanto potrebbe essere accaduto al sommergibile è in linea con l’ultimo messaggio lanciato dal comandante del San Juan, Pedro Martinez Fernandez, che riferì dell’entrata “di acqua di mare attraverso il sistema di ventilazione della batteria numero 3” con corto circuito e un principio di incendio.

Michela, Tiziana e le altre: l’intimità sessuale va protetta

Michela, Tiziana e le altre: l’intimità sessuale va protetta. ‘I morti (di vergogna) parlano’

Michela, Tiziana e le altre: l’intimità sessuale va protetta. ‘I morti (di vergogna) parlano’

Michela Deriu è già stata dimenticata. Si è impiccata a ventidue anni, temeva ricatti per un video che la mostrava in un incontro di sesso. Impiccata nel 2015 è finita una casalinga quarantenne, madre di due figli, per alcune sue foto sexy postate su Facebook. Ormai dimenticata è anche Tiziana Cantone, la trentunenne strangolatasi nel 2016 con un foulard. Travolta dalla gogna dopo la diffusione on line di un suo momento erotico ripreso al cellulare.

Traiettorie di morte – e ce ne sono altre – spartite dagli schermi dopo un rapido passaggio sui media. Non basta l’indignazione, non basta la rabbia, non bastano nemmeno le manifestazioni.
Serve un approccio radicale nell’educazione scolastica. E una sanzione penale rapida, certa, efficace e senza indulgenza, perché anche questo ha un valore di “educazione” per l’opinione pubblica.

La libertà sessuale è stata in Italia una grande conquista degli Anni Sessanta. Libertà per le donne in prima linea (perché nessun maschio nei millenni è mai stato ostracizzato e spinto ai margini perché faceva all’amore). E poi libertà d’espressione della propria vita sessuale anche per gli omosessuali.

E’ stato ed è un traguardo prezioso per tutti, perché tocca uno degli aspetti essenziali della personalità e di quella che possiamo chiamare la ricerca della felicità pur nella sua parzialità.
Ma questa libertà richiede un rispetto assoluto da parte di ogni membro della società. Ed è qui che si impone una svolta. Quanti ritengono profondamente ingiusto il destino delle vittime devono sapere che oltre la protesta serve un’iniziativa per radicare nella società un codice di comportamento preciso, sanzionato penalmente senza esitazioni e minimizzazioni.

Le tecnologie hanno rivoluzionato tutto. Non è più il racconto passato di bocca in bocca. Non è più la foto che, benché riprodotta, restava in una cerchia alla fine ristretta. Il sistema digitale permette la diffusione globale dell’immagine, anzi dell’atto, e il suo ingresso letteralmente in ogni casa, ogni computer, ogni cellulare. Stiamo parlando di libertà di un individuo e di morte provocata dalla vergogna, perché un momento personalissimo è stato messo a nudo violentemente di fronte a tutti. Stiamo parlando di violenza.

Ciò che deve essere spiegato nelle scuole fin da presto è che quanto riguarda la sfera più intima di una persona è di sua assoluta “proprietà”. Aggredire questa intimità, infrangere una sfera così connessa all’immagine di una persona equivale ad uno stupro dell’identità e va sanzionato con lo stesso rigore.

Per essere chiari. Nessuno ha il diritto di riprendere l’intimità sessuale di una persona. E se una coppia gioca con le immagini volontariamente, nessuno dei partner ha il diritto di diffondere autonomamente queste immagini. E quand’anche i due protagonisti del gioco decidessero di condividere l’immagine con alcuni amici, questi amici hanno il dovere di far rimanere tutto ciò nell’ambito personale riservato senza ritrasmetterlo oltre.

Si dirà che è ovvio. No, non è ovvio nella mente di una massa sterminata di ragazzi e di adulti analfabeti del rispetto. Non è ovvio per chi cinicamente – con la scusa di commettere tutt’al più una leggerezza – getta alla gogna personalità sensibili, che anche senza arrivare a togliersi la vita subiscono l’impatto tremendo di una spoliazione: uno shock. Non deve essere lasciato accadere – e senza sanzione – nessun tipo di bullismo e di violenza nella sfera della sessualità o dell’orientamento sessuale,  anche quei comportamenti che possono apparire una “ragazzata”. Non deve più accadere nemmeno che un’insegnante, dopo avere scoperto che uno scolaro aveva spinto fuori dai bagni dei maschi un coetaneo insultandolo “Non è per te! Vai in quello delle femmine” – non deve accadere che l’insegnante che punisce il colpevole con la sanzione minimale “Scrivi cento volte nel quaderno sono stupido”, venga poi pesantemente insultata dal padre del colpevole e infine condannata per abuso di autorità.

Tutto si tiene: il bullismo piccolo e la violenza psicologica a largo impatto, attuata con le tecnologie.

Merito dei Radicali negli anni Settanta fu quello di canalizzare in precise norme di legge (prima ancora dei referendum) i bisogni emersi nella società nell’ambito della sfera più personale: famiglia/divorzio, gravidanza/aborto. Dinanzi alle vittime della violenza sessuale digitale c’è bisogno nuovamente di una iniziativa costante e collettiva che porti a rivedere e rendere più stringenti le norme a protezione di questa specialissima e delicata libertà: l’intimità sessuale. Compresa l’interruzione della prescrizione dopo il rinvio a giudizio. Perché è anche accaduto che criminali responsabili di stupro, riconosciuti colpevoli nei primi gradi di giudizio, siano andati liberi dopo anni essendo scattata la prescrizione.

Michela, Tiziana e le altre donne anonime non hanno più nulla da chiedere. Però “i morti parlano” come ricordava Arthur Schnitzler. E le altre, gli altri hanno il diritto di non trovarsi mai dinanzi all’alternativa di un cappio preparato dalle loro stesse mani.

Ginecologo punito perché lavorava troppo.

Ginecologo punito perché lavorava troppo. L’ex primario Zagni: “Vi spiego che cosa sta accadendo davvero”

Eseguiva degli interventi anche il sabato. Lui si difende: “Sfoltivo le lunghe liste di attesa”

Il dottor Gregorio Del Boca
Il dottor Gregorio Del Boca

I fannulloni e gli scansafatiche possono tirare un sospiro di sollievo. Dedicarsi al proprio lavoro svolgendolo per il minimo delle ore richieste da contratto non è grave quanto impegnarsi anima e corpo e fare delle ore extra. Questo si evince dalla vicenda che da mesi vede protagonista il dottor Gregorio Del Boca, medico e titolare del reparto di Ostretricia e Ginecologia all’ospedale San Leopoldo Mandic di Merate, in provincia di Lecco. L’uomo,  61 anni, è stato sospeso per 2 mesi dal servizio. Secondo l’accusa, infatti, eseguiva interventi ordinari, spacciandoli come “urgenti”, fuori dal regolare orario di lavoro e nel fine settimana. L’impegno del primario, a detta della struttura sanitaria, gravava notevolmente sulle spese, dato che il lavoro dello stesso medico, come anche quello del personale mobilitato, veniva considerato come “straordinario”.

Voleva sfoltire le lunghe liste d’attesa e aiutare le pazienti

Lo specialista a fine giornata lavorativa non si è mai negato al telefono, mettendosi a completa disposizione delle pazienti per dar loro consigli e rassicurazioni. Il suo obiettivo non era quello di racimolare soldi, ma semplicemente sfoltire le lunghe liste di attesa, svolgendo quando necessario quelle piccole operazioni che, pur non essendo considerabili urgenti, andavano fatte. “Ho agito esclusivamente nell’interesse delle pazienti e dell’ospedale”, si è difeso il medico, finito immediatamente sotto l’attacco dei sindacati di categoria. Il comportamento del dottor Del Boca ha creato fastidio. “Forse ha toccato un nervo scoperto”, ha evidenziato l’avvocato del medico, spiegando che al suo cliente è stato contestato in particolare l’uso improprio delle sale operatorie e il fatto che sarebbero state occupate, mettendo a rischio pazienti in emergenza. Ma nessuno, ci tiene a precisare il legale, è stato messo in pericolo.

Cittadini, sindaci e colleghi difendono l’operato del medico

Contro la decisione della Commissione Provvedimenti Disciplinari si sono schierati centinaia di cittadini, che hanno lanciato una petizione che ha già raccolto oltre 500 firme, i sindaci della Brianza e numerosi colleghi. “Del Boca – commenta Andrea Massironi, sindaco di Merate – ha dimostrato non solo un’alta professionalità, ma a lui viene riconosciuta una propensione all’impegno che va oltre i doveri contrattuali”. I sessanta giorni di “riposo forzato” e senza stipendio sono stati fortunatamente “congelati”. Il ricorso del medico, presentato al giudice del lavoro, e le tante proteste nate a seguito di questa punizione esemplare e insolitamente rapida, hanno fatto sì che la direzione optasse per una “sospensione della pena”.

L’ex primario Zagni: “Vi spiego che cosa sta accadendo”

C’è da chiedersi il perché la Commissione Provvedimenti Disciplinari dell’ospedale di Merate si sia scagliata così rapidamente contro il dottor Del Boca. Secondo il dottor Roberto Zagni, intervistato da Merateonline.it, i perché tutta la vicenda presenta degli aspetti poco chiari. Zagni, primario del reparto di ostetricia e ginecologia fino al 2009, il collega sarebbe stato punito ingiustamente. Del Boca è stato accusato di “eccesso di zelo nei confronti delle pazienti in quanto non osservando burocraticamente i protocolli aziendali ha in sostanza evitato  che pazienti programmate da mesi per un piccolo intervento restassero ad aspettare altro tempo”. Il fatto di occupare delle sale operatori dedicate il sabato alle urgenze non rappresenta inoltre un problema. “Si trattava di interventi della durata massima di 5 minuti che venivano eseguiti nei momenti di pausa post prandiale o al sabato mattina quando chiaramente non vi fossero urgenze maggiori ed inderogabili – sottolinea Zagni – cosa che avviene assai raramente. Ripeto, un escamotage cui ricorrevano e ricorrono tutti i colleghi chirurghi per non dovere rimandare gli interventi. L’ex primario ci tiene poi a smontare quella che appare l’accusa più pesante nei confronti del collega.

L’aggravio dei costi per l’ospedale è un’accusa che non regge

Al professor Del Boca viene fatto pesare un aggravio dei costi che ricadrebbero in quanto lavoro straordinario sul personale di supporto, ma l’accusa non ha fondamento: “Il personale di camera operatoria è pagato per le reperibilità – precisa -. Non spetta loro giudicare l’urgenza o meno di un intervento. Mi scusi ma a una donna che ha avuto la disavventura di un aborto farebbe piacere attendere 1 o 2 o addirittura 3 giorni con un feto morto in utero? Certamente no! Quindi non c’è solo l’urgenza da emorragia di aborto in atto, c’è anche l’urgenza di carattere psicologico che potrebbe avere conseguenze anche gravi. Il giudizio sull’urgenza spetta al clinico non all’anestesista o al personale di camera operatoria, non per niente la segnalazione è partita da un anestesista, ora in pensione”.

Siti Unesco, i Sassi di Matera i più amati dagli italiani

Sassi di Matera

Siti Unesco, i Sassi di Matera i più amati dagli italiani

Il sito Unesco più apprezzato del mondo dagli utenti di TripAdvisor è Angkor Wat, in Cambogia. L’Italia è sesta con i Sassi di Matera (che sarà Capitale europea della Cultura per il 2019). A livello nazionale gli antichi rioni di tufo della città lucana precedono il Duomo di Monreale e il centro storico di Siena.

Le classifiche dei siti patrimonio dell’Unesco più apprezzati dai viaggiatori internazionali in Italia e nel mondo – spiega una nota – sono basate sul punteggio medio delle recensioni relative alle attrazioni dichiarate patrimonio dell’Unesco presenti su TripAdvisor.

La top 10 italiana vede quindi al top i Sassi di Matera, unico sito italiano premiato anche nella classifica mondiale.
Secondo il Duomo di Monreale, mentre il centro storico di Siena è medaglia di bronzo. Poi la Basilica patriarcale di Santa Maria Assunta ad Aquileia, Val d’Orcia in Toscana, Basilica di San Francesco ad Assisi e Costiera Amalfitana. Chiudono la classifica italiana Pompei, il centro storico di Firenze e Venezia.

Blitz Skinhead, il racconto di Como senza frontiere

Blitz Skinhead, il racconto di Como senza frontiere: “Ci hanno accerchiato, è stata intimidazione”

 “Sono entrati e ci hanno accerchiato, è stata una vera e propria intimidazione”. Inizia così il racconto di Annamaria Francescato, portavoce della rete Como senza frontiere, ancora scossa dopo l’incursione di quindici militanti di Veneto Fronte Skinheads alla riunione di martedì 28 novembre. Annamaria si trovava assieme ai rappresentanti di altre associazioni, sindacati e sigle politiche nella sede dell’associazione Artficio di via Terragni 4 quando gli skin “con atteggiamento squadrista” si sono presentati alla riunione e “dopo averci accerchiati hanno distribuito i volantini con la loro rivendicazione. Ci hanno insultati un po’. Noi non abbiamo reagito. Ci hanno sicuramente preso di sorpresa, ma non avremmo potuto fare altro che starcene seduti e buoni. Eravamo principalmente donne, con un’età media di 60 anni e persone che vanno dai 18 agli 80. Se le cose fossero degenerate ci avrebbero sopraffatti. Non è successo nulla di fisico, ma non è stato un momento piacevole”. La sede dell’associazione si trova al primo piano di un edificio nel centro di Como: “Il portoncino di ingresso era accostato, aspettavamo altri partecipanti alla riunione. Quando ho sentito i rumori provenire dalla scala ho aperto la porta e mi sono trovato davanti queste persone con le teste rasate che sono entrate con fare militaresco. Chiaramente ci siamo affidati ad un legale per denunciare l’aggressione e l’intimidazione che abbiamo subito. C’è tutta una componente non verbale in questa azione, tutta una parte che rimane non detta ma che si è sentita chiaramente. Questi individui entrando ci hanno fatto capire che loro ci seguono, sanno chi siamo e possono fare quello che vogliono. Sono spaventata e arrabbiata”.

Le reazioni politiche sono arrivate a livello nazionale. Ma le persone che hanno subito questa incursione sono rimaste stupite dal clima di indifferenza con cui l’episodio è stato accolto in città: “Dall’amministrazione comunale non ci ha contattato nessuno – spiega Annamaria – e in rete si leggono commenti di critica a noi, gente che plaude all’iniziativa di Veneto Fronte Skinheads e invoca la democrazia. Ci siamo sentiti dire che dobbiamo essere democratici e accettare le posizioni di tutti. Ma non c’è niente di democratico in quello che abbiamo subito. Non c’è niente di più lontano dalla democrazia”.

Un commento arriva anche da Giampaolo Rosso, vicepresidente dell’Arci di Como. Sedeva al tavolo di Como senza frontiere ed è l’autore del video che è circolato in rete fin dalle prime ore successive al blitz degli skinhead. “Abbiamo sottovalutato per troppo tempo questi gruppi, minimizzando le loro azioni e archiviandole come goliardate. E’ stata una sottovalutazione colpevole anche da parte delle istituzioni. Qui non c’è un normale conflitto delle idee, qui ci troviamo di fronte alla volontà di annullare altri, una cosa incompatibile con la democrazia. Idee che nemmeno tanti anni fa hanno prodotto orrori e tragedie inenarrabili. La sottovalutazione ha prodotto una sorta di sensazione di libertà di azione che si aggiunge all’effettivo scontento per la mancanza di welfare e l’enorme disparità tra ricchi e poveri”.

Como senza frontiere è un network di sigle che si riunisce da circa un anno con l’obiettivo dichiarato di cambiare la percezione del problema della migrazione tra la gente e, in seconda battuta, di supportare l’attività di accoglienza. Como è stata per molto tempo una piccola Ventimiglia, negli anni scorsi c’è stata una forte pressione migratoria al confine con la Svizzera. Decine di persone accampate in stazione, continui tentativi di passare il confine e molti respingimenti. Si è creato così un clima di ostilità da parte delle forze politiche di destra che ha alimentato la diffidenza da parte dell’opinione pubblica. Con il tempo la rotta svizzera ha attirato meno migranti e il problema è diventato meno evidente: “Le persone che vogliono andare in Svizzera oggi sono poche – spiega Annamaria Francescato -. Molti hanno rinunciato a passare il confine e hanno deciso di fermarsi in Italia. Si tratta di persone che hanno perso il diritto all’accoglienza e, pur avendo titolo per restare in Italia, vivono per strada”. Stiamo parlando di una sessantina di persone che, dopo essere state allontanate dai locali della parrocchia di San Martino di Rebbio che li ha ospitati per un periodo, da qualche tempo vivono in un autosilo abbandonato. “La presenza di queste persone in città non si nota, sono assolutamente marginali – spiega ancora la portavoce della rete – ma l’attività culturale che facciamo evidentemente dà fastidio. L’azione di Veneto fronte skinhead è indubbiamente una conseguenza della presenza dei migranti, ma spero anche una conseguenza del nostro lavoro che forse dà fastidio perché inizia ad aprire qualche breccia”. 

Ex Jugoslavia, generale croato beve veleno in aula dopo la condanna e muore

Ex Jugoslavia, generale croato beve veleno in aula dopo la condanna a 20 anni e muore

Slobodan Praljak, 72 anni, ha ingerito la sostanza mentre i giudici stavano leggendo la sentenza di colpevolezza per crimini di guerra in Bosnia. E’ stato condannato per non avere impedito il rastrellamento dei musulmani a Prozor e per avere ordinato la distruzione del ponte di MostarLa Corte dell’Aia ha confermato in appello la condanna a 20 anni di carcere accusato di crimini di guerra perpetrati contro la popolazione musulmana durante il conflitto

in Bosnia (1992-1995). Ma mentre era ancora in corso la lettura della sentenza l’imputato, il generale croato Slobodan Praljak, 72 anni, ha bevuto in diretta televisiva una bottiglietta di veleno che aveva portato con sé. E’ morto poco dopo in un ospedale all’Aja. Dopo avere ingerito il liquido, Praljak ha detto: “Ho appena bevuto del veleno” e “non sono un criminale di guerra. Mi oppongo a questa condanna”. A quel punto il giudice che presiedeva l’udienza l’ha sospesa e chiamato un dottore.

Il generale era uno di sei ex leader politici e militari croato-bosniaci a processo alla Corte dell’Aia. La condanna a 20 anni per Praljak era stata originariamente emessa nel 2013, per crimini di guerra commessi nella città di Mostar. Nonostante croato-bosniaci e musulmani siano stati alleati contro i serbo-bosniaci nella guerra del 1992-1995, per 11 mesi hanno anche combattuto fra loro, e alcuni dei combattimenti più feroci hanno avuto luogo proprio a MostarPraljak, ex comandante delle forze croato-bosniache del Consiglio di difesa croato Hvo, è stato incarcerato per crimini contro l’umanità: la Bbc ricorda che, secondo quanto accertato dal tribunale Onu, informato del fatto che i soldati stavano raccogliendo musulmani a Prozor nell’estate del 1993, non aveva fatto alcun tentativo significativo di fermarne l’azione; e non aveva agito neanche dopo avere ricevuto le informazioni sul fatto che fossero in programma omicidi, attacchi a membri delle organizzazioni internazionali e la distruzione dello storico ponte di Mostar e di moschee. Il Tribunale penale internazionale per la Ex Jugoslavia, istituito dalle Nazioni unite nel 1993, chiuderà i battenti il mese prossimo, quando scadrà il suo mandato.

I leader croato-bosniaci condananti dalla Corte dell’Aja –Praljak era uno dei sei leader militari e politici croato-bosniaci condannati in primo grado nel 2013 per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra questi lo stupro e l’omicidio di musulmani bosniaci. Gli imputati – Jadranko Prlic, 58, Praljak, Bruno Stojic, Milivoj Petkovic, Valentin Coric e Berislav Pusic – erano stati accusati di aver messo in atto un’operazione di pulizia etnica per espellere i non croati da determinate aree del territorio della repubblica di Bosnia Erzegovina, da integrare successivamente – tramite, prima, semplice rafforzata cooperazione, quindi vera e propria annessione – in una ‘grande Croazia‘.

Per farlo commisero crimini nei confronti dei musulmani e di altri non-croati che comprendevano omicidi, aggressioni sessuali e stupri, distruzione di proprietà, detenzione e deportazione, recitava l’atto di accusa del tribunale ad hoc dell’Onu che li aveva condannati in prima istanza. Prlic, Stojic, Petkovic e Coric furono riconosciuti colpevoli di 22 capi di imputazione elencati nell’atto di incriminazione. Prlic, ex presidente del Consiglio di difesa croato e successivamente a capo del governo dell’entità autoproclamata in Bosnia negli anni della guerra, l’Herzeg-Bosnia, venne condannato a 25 anni di carcere. Gli altri tre a pene comprese tra i 16 e i 20 anni. Due di loro, tra cui Praljak, vennero assolti da alcuni capi di imputazione. Praljak, già assistente del ministro della Difesa croato, fu condannato comunque a 20 anni di carcere.

Il Tribunale, nell’atto d’accusa, si concentrava sui criminicommessi in otto municipalità, tra cui Mostar, considerata capitale della Bosnia Erzegovina. Nella maggior parte dei casi, concludeva, “i crimini non vennero commessi da alcuni soldati indisciplinati ma furono al contrario il risultato di un piano elaborato dagli accusati per allontanare la popolazione musulmana. Nel caso della storica città di Mostar, venne usata una “estrema violenza” per espellere i musulmani dalla parte occidentale della città: “I musulmani venivano svegliati in piena notte, pestati e cacciati dalle loro case, molte donne, tra cui una ragazza di 16 anni, vennero violentate” dai soldati del consiglio di difesa croato.

Dal giugno 1993 all’aprile 1994 Mostar Est venne tenuta sotto assedio e la popolazione musulmana fu oggetto di bombardamenti “intensi e costanti”, con molti morti e feriti tra i civili. Altre testimonianze raccolte per quel processo parlavano di abusi contro i prigionieri musulmani nei centri di detenzione del Consiglio di difesa croato, dai pestaggi alle aggressioni sessuali all’uso dei detenuti per lavori forzati sulle linee del fronte. Il processo, iniziato nell’aprile 2006, vide sfilare oltre 200 testimoni, 145 dei quali chiamati a deporre dalla procura.

Un aspetto importante della sentenza e del primo atto di accusa è che nell’impresa criminale, che consisteva nel voler annettere territori bosniaci alla Croazia, vennero inclusi anche l’allora presidente Franjo Tudjman e altri responsabili politici. La sentenza ha provocato una forte reazione in Croazia, dove diversi politici l’hanno definita “politica” e “iniqua”. Il parlamento ha interrotto una sessione e il presidente Kolinda Grabar-Kitarovic ha sospeso la visita in Islanda per rientrare con urgenza mentre il premier conservatore Andrej Plenkovic interverrà nel pomeriggio.

Il ponte di Mostar – Lo ‘Stari Most’, il Vecchio Ponte di Mostar, perla dell’architettura ottomana del ‘500 del quale il generale croato-bosniaco Slobodan Praljak ordinò la distruzione, era un legittimo obiettivo militare secondo i giudici del Tribunale internazionale dell’Aja (Tpi), che oggi hanno confermato in appello le condanne per crimini di guerra per sei massimi esponenti politici e militari croato-bosniaci. Il sultano della Sublime Porta lo aveva ordinato al suo migliore architetto, Hajruddin, ma lo aveva anche minacciato del taglio della testa se il ponte non avesse retto. Il giorno in cui, nel 1566, dopo anni di lavoro, lo Stari Most fu sciolto dalle impalcature, Hajruddin non ebbe il coraggio di assistere e si nascose in un casolare di campagna. Fu un emissario inviato dai notabili della città che lo raggiunse lanciando il cavallo al galoppo per portargli la notizia che il suo ponte aveva retto ed era bellissimo. Bianco con la sua volta a schiena d’asino, ha resistito per 427 anni a guerre, inondazioni e terremoti. Poi la mattina del 9 novembre del 1993 le sue pietre bianche precipitarono nelle acque verde smeraldo della Neretva, colpite da tre granate, ma il suo crollo era stato preparato il giorno prima con almeno 60 proiettili di grosso calibro sparati dalle truppe croato-bosniache al comando di Slobodan Praljak. Quando lo Stari Most collassò nel fiume, Praljak, che per sua stessa ammissione ne aveva ordinato il bombardamento, disse: “Non è che un vecchio ponte”, aggiungendo che per un dito dei suoi soldati ne avrebbe distrutti altri cento. Il nuovo Vecchio Ponte, ricostruito grazie alle donazioni di Italia, Francia, Turchia, Olanda e Croazia, fu inaugurato nel 2004.

“Mille euro al mese per le famiglie che ospiteranno i migranti”: ecco la linea della Raggi

“Mille euro al mese per le famiglie che ospiteranno i migranti”: ecco la linea della Raggi per l’emergenza a Roma

L’assessora ai Servizi Sociali, Laura Baldassarre, annuncia “direttive con indicazioni più stringenti sul sistema Sprar”

'Mille euro al mese per le famiglie che ospiteranno i migranti': ecco la linea della Raggi per l'emergenza a Roma

Mille euro al mese per le famiglie che decideranno di ospitare i migranti. E’ questa l’idea del comune di Roma per migliorare l’accoglienza nella Capitale e far calare la tensione che si è venuta a creare in alcuni quartieri. E’ stata l’assessora ai Servizi Sociali, Laura Baldassarre, a spiegare in un’intervista a Il Messaggero la nuova linea della giunta Raggi.

“Mille euro al mese per chi ospiterà i migranti”

“Per la prima volta, apriamo all’accoglienza delle famiglie. Anche i romani potranno ospitare i richiedenti asilo. È un modello che abbiamo studiato: in Nord Europa funziona”, ha detto l’assessora al quotidiano capitolini. Secondo Il Messaggero, la sperimentazione parte da un compenso di “circa 30-35 euro al giorno”, attorno a mille euro al mese. “È un tema europeo, quello dell’accoglienza diffusa. Questi sono gli esiti del primo bando, a breve ce ne sarà un altro da 780 posti”, ha spiegato Baldassarre.

“Indicazioni più stringenti sul sistema Sprar”

Il Campidoglio ridisegna quindi la mappa dell’accoglienza dei migranti per risolvere il problema di integrazione nei quartieri come Tiburtino III e Tor Bella Monaca. “Abbiamo dato delle direttive sul sistema Sprar (“Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati” del Ministero dell’interno ndr) con indicazioni più stringenti che tengano conto anche della presenza dei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria), di competenza del ministero, nei medesimi territori. Inoltre, sempre per la prima volta, apriamo l’accoglienza alle famiglie”, ha aggiunto Baldassarre.

Brexit, divorzio «da 55 miliardi di euro».

Brexit, divorzio «da 55 miliardi di euro». Londra cede alle richieste Ue


Il titolo del Financial Times online annuncia la resa: «il Regno Unito si inchina alle richieste della Unione europea». Il governo di Londra promette di assumersi la responsabilità di pagare fino a 100 miliardi di euro per divorziare dall’Unione europea. La notizia è stata anticipata dal Daily Telegraph poi confermata dal Financial Times. Dopo mesi di lenti negoziati e poco fruttuosi incontri, l’accordo finanziario è stato raggiunto. Il prezzo di Brexit oscilla tra i 44 e 55 miliardi di euro. Un punto fermo necessario per passare alla seconda fase dei negoziati in cui si definiranno gli accordi commerciali fra Regno Unito e Unione europea, quel quadro di certezza e stabilità che chiedono imprese, banche, investitori.

La notizia dell’accordo ha fatto risalire la sterlina a 1,33 dollari, rispetto all’euro si è apprezzata a 0,89.

Più cauto il capo negoziatore della Ue, Michel Barnier, che non smentisce i passi avanti ma precisa: «Ci stiamo ancora lavorando duramente, spero di poter annunciare presto un’intesa», si è limitato a rispondere ai cronisti che gli chiedevano di commentare le notizie rimbalzate sui media britannici.

L’accordo, se sarà confermato, è però una sconfitta del Regno Unito e del governo di Theresa May i cui ministri per mesi si sono rifiutati di parlare di soldi. Forse anche per questo – non farla apparire quello che in effetti è – stasera un portavoce del governo si è affrettato a chiarire che «intensi colloqui» fra Londra e Bruxelles continuano. Resta il fatto che in queste ore su Twitter diversi giornalisti e alcuni utenti britannici ricordano uno degli slogan più martellanti della campagna per il Leave nel referendum 2016, i miliardi che il Regno Unito avrebbe risparmiato con l’addio alla Ue.

Finora il ministro per Brexit David Davis e il capo negoziatore Ue Michel Barnier avevano giocato un’esasperante partita tattica da cui non era possibile scorgere alcun progresso. La vera data di scadenza, ripeteva Davis solo due settimane fa, era il 14 e 15 dicembre, giorni del vertice con i 27 Stati Ue.

Stasera invece il cambio di scena. Fonti di entrambe le parti, scriveva il Daily Telegraph, hanno confermato che è stato raggiunto un accordo di principio sulla richiesta dell’Unione europea di una cifra che oscilla fra i 44 e i 55 miliardi di euro. Con simile intesa di massima, la premier britannica Theresa May e il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, si vedranno a pranzo lunedì 4 dicembre. Due giorni dopo la Commissione discuterà dello stato dei negoziati. L’accordo su obblighi finanziari, diritti dei cittadini Ue residenti nel Regno Unito, frontiere angloirlandesi sono considerati dalla Ue i punti fondamentali sui quali devono essere fatti «progressi sufficienti» per poter aprire il negoziato sui rapporti futuri tra Unione europea e Regno Unito.

Né il governo britannico né la Commissione europea hanno commentato questo accordo che solo poche settimane fa, almeno nelle dichiarazioni tattiche dei negoziatori, sembrava lontano.

LA GIORNALISTA RAI PICCHIATA DAL FIDANZATO

LAURA TANGHERLINI, LA GIORNALISTA RAI PICCHIATA DAL FIDANZATO: “ECCO COME MI HA FATTO SPROFONDARE NELL’ABISSO”

Laura Tangherlini, la giornalista Rai picchiata dal fidanzato: 'Ecco come mi ha fatto sprofondare nell'abisso'

“Ho scritto un post su Facebook in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne ma non avrei mai immaginato di sollevare tutto questo interesse”. Laura Tangherlini è sorpresa per la eco che i media stanno dando alla sua storia di violenza, dove il copione purtroppo è sempre lo stesso con un lui, perfetta interpretazione del carnefice di turno, aggressivo, manipolatore, violento, e con una lei ridotta a misera fotocopia di ciò che realmente è, insicura, minata nell’autostima fino a colpevolizzarsi per le cose più insignificanti. Ma forse è proprio il lavoro che Laura fa, giornalista della Rai, autrice di libri e documentari sulla Siria e sul Medio Oriente, assunta nella redazione esteri di RaiNews fin dal 2007, a incuriosire e sorprendere: “In molti pensano che queste storie avvengano in determinati contesti sociali ed economici. E invece non è così. La violenza è trasversale a tutto”, sostiene Laura che ha accettato di raccontare a Tiscali.it uan storia per certi versi sorprendente nella sua brutalità. Perché all’orrore, per fortuna, non ci si riesce ad abituare.

Com’è nata questa storia?
“L’ho conosciuto nel 2011, quando avevo 29 anni. Ci siamo conosciuti in Libano dove abbiamo vissuto insieme per tre mesi prima di tornare in Italia. Ma all’inizio non mi picchiava. Tutto è cominciato in maniera molto più subdola con una vera e propria manipolazione psicologica. Finché non sono diventata completamente succube a furia di sentirmi dare dell’idiota, della stronza e della zoccola (la parola che Laura userà per tutta l’intervista è molto più esplicita, ndr).

Di che cosa ti rimproverava?
“Di tutto. Della cose più insignificanti e innocue. Che so, magari mentre guidavo la macchina e stavo ferma al semaforo mi guardavo in giro: ecco, per lui, quel guardare altrove era segno che io ci stavo provando con qualcun altro. Oppure, se mentre conducevo il telegiornale non mostravo l’anello che lui mi aveva regalato, era perché stavo mandando un messaggio ai telespettatori uomini, facendo intendere che ero libera e disponibile. Oppure ancora, se mi faceva trovare un regalo al mio ritorno a casa e io per un qualsiasi motivo non lo vedevo e aprivo subito, mi accusava di essere una disgraziata ingrata e lo frantumava in mille pezzi. Insomma, cose folli che all’inizio mi sembravano assurde come in realtà erano ma che poi ho finito per considerare normali e accettare”.

Ma lui è italiano?
“No, libanese. L’ho conosciuto a Beirut. Mi aveva detto che era stato sposato con un’americana e aveva vissuto negli Usa per due anni. Ma che si era trattato di un matrimonio di interesse, celebrato solo per avere la cittadinanza americana e che quando lei aveva preteso che diventasse un matrimonio effettivo lui l’aveva lasciata. Ma in realtà non so se sia andata davvero così. Mi ha raccontato tantissime balle. Di lui in realtà ho sempre saputo molto poco, forse nemmeno il vero nome. Era un uomo pieno di segreti che però non sopportava che io potessi averne. Di me sapeva tutto, perfino le password del cellulare, della mail e del computer. La penultima volta che l’ho visto, ormai quattro anni fa, avevo scoperto che aveva fatto una vero e proprio dossier su di me, prendendo mie foto vecchie, dove magari ero con altri fidanzati del passato. Foto comunque innocenti, magari a cena al ristorante con amici. Lui invece sotto ognuna di quelle immagini aveva appuntato un insulto sulla sottoscritta rea di essere una zoccola”.

Ma non c’era nessuno tra i tuoi amici e i tuoi familiari che cercava di sottrarti a queste torture?
“A Roma vivo da sola, nel senso che i miei genitori sono a Jesi, in provincia di Ancona. Lui non voleva nemmeno che li sentissi al telefono, così come i miei amici. Se mi chiamava al cellulare e trovava occupato diventava pazzo di rabbia. Io all’inizio pensavo che fossero manifestazioni di gelosia, dimostrazioni di quanto ci tenesse a me. Poi invece sono entrata in questa schiavitù psicologica dalla quale non riuscivo più a uscire. Ci hanno provato in tanti a farmi ragionare, ad allontanarmi da lui. A cominciare dai miei genitori. Mio padre era furibondo. Mia madre è venuta qui a Roma per tentare di convincermi a lasciarlo ma se ne è andata via in lacrime. Ero dimagrita 15 chili. Ero stressatissima e infelice. Non sai quante volte mi sono messa a piangere anche mentre ero in onda in tv, magari durante le pause pubblicitarie. Lui mi aveva convinto che ero io a essere sbagliata, a essere un’ingrata”.

Lui lavorava?
“Non lo so. Non ho mai saputo quasi niente di lui. Di sicuro stava a casa mia e di tutte le spese mi occupavo io. È arrivato perfino a farmi sentire in colpa se mangiavo. Sosteneva che a cena non si doveva mangiare, perché lui non lo faceva. Ogni tanto poi spariva. Magari per un mese. Bloccava il suo profilo Facebook in modo che io non potessi rintracciarlo e non mi diceva niente  di dove andava. Poi magari mi mandava sue foto con altre ragazze e mi tormentava dicendo che se non lo facevo tornare da me magari avrebbe ceduto alle avance di queste ragazze. Così io lo riprendevo in casa e la storia ricominciava”.

Alla fine come è finita?
“Se n’è andato lui e io ho smesso di rincorrerlo. Sono andata una volta in Libano e due negli stati Uniti. L’’ultima volta negli Stat Uniti è stata quella decisiva. A quel punto la mente ha superato il corpo, ovvero l’attrazione fisica che sentivo per lui è stata superata dallo schifo che provavo razionalmente. Così ho respinto le sue avance fisiche. Per lui è stato uno smacco. E si è arrabbiato tantissimo. Mi ha lasciato a dormire al freddo nel parco di Yosemite: lui chiuso dentro la macchina e io fuori senza quasi niente. Poi mi ha picchiata. Ricordo l’ultima volta che l’ho visto: io che me ne andavo e lui che mi insultava che non ero degna di lui e che stavo sicuramente andando a cercare qualche altro uomo. Da lì sono andata a New York per una settimana e gli ho scritto un messaggio dicendo che non era più possibile stare insieme. Di risposta ho avuto insulti”.

E poi?
“Poi non l’ho più sentito né visto. Lui si è fatto vivo in questi tre anni due o tre volte. Ma non gli ho mai risposto. L’ultima volta, qualche mese fa, ho cambiato la mia immagine di profilo su whatsapp mettendo la foto del mio matrimonio. E credo che abbia capito”.

Nel frattempo ti sei sposata?
“Sì. E grazie a mio marito posso dire di aver capito la differenza tra chi ti vuole davvero bene e si prende cura di te e chi ti vuole come sua schiava”.