Le stragi fasciste impunite

Le stragi fasciste impunite per colpa della guerra tra giudici

Le gravi accuse lanciate da Guido Salvini, il magistrato che per primo svelò l’intreccio eversivo tra manovali fascisti e apparati atlantici che li sostennero e utilizzarono. Il suo intervento al convegno internazionale sull’eversione europea dal 1964 al 1980 all’Università di Padova

[L’inchiesta] Le stragi fasciste impunite per colpa della guerra tra giudici

C’è anche la “guerra tra giudici” tra le cause del sostanziale fallimento delle inchieste contro le stragi fasciste che hanno insanguinato l’Italia dal 12 dicembre 1969, a piazza Fontana, al 1974 (Brescia e il treno Italicus). Lo dice con parole più felpate e con umana sofferenza Guido Salvini, il magistrato che a metà degli anni Novanta ha svelato l’arcano della strategia della tensione che quei massacri ha prodotto: l’intreccio tra manovali “neri” e apparati di sicurezza atlantici che li hanno arruolati, foraggiati, protetti.

L’occasione per questa che è, al tempo stesso, una clamorosa denuncia e uno sfogo doloroso è un istituzionalissimo convegno organizzato dall’Università di Padova nel novembre 2016. Il tema è “La rete eversiva di estrema destra in Italia in Europa (1964-1980)”. Partecipano molti magistrati che si sono occupati di queste indagini e studiosi di vari paesi. Salvini interviene su “Gli anni 1969- 1974 in Italia: stragi, golpismo e risposta giudiziaria”. Il volume che raccoglie gli atti sta per essere pubblicato.

Nel suo contributo, il giudice milanese, protagonista di tante clamorose inchieste, dal delitto Ramelli al calcio scommesse, tratta ovviamente di interventi del SID e di altri apparati dello Stato che negli anni ’70 hanno ostacolato le indagini e colluso con i responsabili delle stragi. Al tempo stesso descrive, in modo esplicito e senza reticenze, “il ruolo nefasto ricoperto negli anni ‘90 da alcuni settori del mondo giudiziario tra cui in primo luogo la Procura di Milano di Francesco Saverio Borrelli nonchè Felice Casson, di fatto capo o comunque libero di agire a nome della Procura di Venezia. I loro attacchi nei miei confronti durati a lungo proprio negli anni decisivi delle indagini, oltre alle gravi sofferenze personali a me causate per quasi sette anni, hanno avuto le medesime  conseguenze, almeno  dal punto di vista  oggettivo, di quanto avvenuto vent’anni prima e cioè l’impossibilità di sviluppare le indagini sino ad un completo risultato di verità”.

Salvini parla esplicitamente di “gelosie e di invidie, addirittura ben oltre la semplice mancanza di collaborazione, che hanno segnato il rapporto tra i magistrati inquirenti che negli anni ’90 indagavano sui vari episodi di strage. Una persecuzione giudiziaria durata per più di cinque anni contro l’istruttoria milanese e il giudice istruttore che la conduceva”.  Una storia “sempre taciuta anche a distanza di tanti anni, per vergogna e autocensura, dalla magistratura”, ma raccontata dallo stesso Salvini in un saggio-intervista pubblicato, qualche anno fa, nel volume “Bombe e segreti” di Luciano Lanza”.

Secondo Salvini Felice Casson, oggi senatore di Liberi e Uguali, “non aveva gradito che le nuove indagini milanesi non confermassero il presunto coinvolgimento di Gladio nelle stragi, tesi sostenuta con enfasi, anche se prevalentemente in forma mediatica e non giudiziaria, dal pubblico ministero di Venezia; e ancor meno aveva gradito che le indagini milanesi avessero fatto breccia proprio sull’ambiente ordinovista di Venezia e Mestre su cui tale procura aveva indagato, con molto minori risultati, negli anni precedenti. È accaduto, in questo scenario personalistico – siamo nel 1995 – qualcosa che oggi può apparire incredibile, eppure è successo così come lo racconto. La coltivazione ostinata, da parte dello stesso dottor Casson, dei contenuti di un esposto contro gli investigatori milanesi, ispirato e pagato da Delfo Zorzi e presentato dal capo ordinovista Carlo Maria Maggi, indagato per la strage di piazza Fontana, con la conseguente incriminazione, da parte dello stesso Casson, del giudice istruttore milanese e dei carabinieri del Ros che lavoravano con lui sul fronte dell’eversione nera. A tale inconcepibile iniziativa erano seguite una serie di segnalazioni disciplinari al Csm, tutte rivelatesi false e infondate e addirittura il tentativo di far trasferire d’ufficio da Milano il giudice istruttore, tentativo in cui si era distinto il sostituto di Milano Grazia Pradella. Tali iniziative, pur sconfitte, avevano però nel loro insieme determinato per lungo tempo la delegittimazione dell’istruttoria milanese dinanzi ai testimoni e indagati, e rallentato lo sviluppo dell’indagine su Piazza Fontana”.

Il 20 giugno 2017 è divenuta definitiva la condanna all’ergastolo per la strage di piazza della Loggia nei confronti del suo grande “accusatore”, Carlo Maria Maggi, imputato anche per la strage di piazza Fontana, e del collaboratore del Sid, Maurizio Tramonte.

“Questi episodi, di fatto inquinanti, appoggiati anche dalla procura di Milano – conclude il giudice Salvini – si sono rovesciate sull’istruttoria, interrompendola e quasi paralizzandola proprio nei momenti decisivi, risolvendosi così in una ciambella di salvataggio per gli ordinovisti sotto accusa.  L’indagine bresciana toccava lo stesso ambiente e si basava sugli stessi testimoni presenti in quella di Piazza Fontana. L’impegno dei magistrati bresciani non è mai venuto meno anche dopo le iniziali assoluzioni. La collaborazione tra la procura di Brescia e l’ufficio Istruzione di Milano è stata proficua e continua negli anni. L’esito diverso dei due processi testimonia l’inettitudine, la presunzione e la volontà di far sorgere conflitti all’interno degli inquirenti con cui la procura di Milano ha trattato la strage del 12 dicembre. Quello che ora ho appena accennato, ma più volte scritto, non può essere taciuto in una storiografia giudiziaria se non si vuole trasformarla in un momento di autocensura e di mera celebrazione della magistratura”.

Cisterna, 18 arresti in Comune.

Cisterna, 18 arresti in Comune. C’è anche l’assessore all’urbanistica di Latina. “Pilotate gare per rifiuti, lavori e mense”

Cisterna, 18 arresti in Comune. C’è anche l’assessore all’urbanistica di Latina. “Pilotate gare per rifiuti, lavori e mense”

I provvedimenti sono stati emessi dal gip del capoluogo pontino su richiesta della locale Procura della Repubblica, che ha coordinato l’attività investigativa dei Carabinieri di Aprilia, durata circa due anni. I carabinieri: “Gestione spregiudicata della cosa pubblica”. Tra i destinatari delle 18 ordinanze di custodia anche Patrizio Placidi, ex assessore all’Ambiente del comune di Anzio arrestato il 4 dicembre

Diciotto persone arrestate nell’amministrazione di Cisterna di Latina. Tra questa anche Gianfranco Buttarelli, assessore all’Urbanistica del comune di Latina. In un’inchiesta collegata a quella che il 4 dicembre ha coinvolto l’ex assessore all’Ambiente del comune di AnzioPatrizio Placidi, già ai domiciliari, è destinatario di una delle 18 ordinanze di custodia cautelare. I provvedimenti sono stati emessi dal gip del capoluogo pontino su richiesta della locale Procura della Repubblica, che ha coordinato l’attività investigativa dei Carabinieri di Aprilia, durata circa due anni.

Il comune di Latina ha diramato una nota in cui spiega che “in relazione agli accadimenti che vedono coinvolto l’Assessore al Governo del territorio, Lavori pubblici e Mobilità Gianfranco Buttarelli, il Sindaco Damiano Coletta ha convocato per le ore 14.00 un incontro politico straordinario con gli Assessori della Giunta e il Capogruppo di maggioranza”.

“Dall’alba di oggi è in corso un’operazione dei Carabinieri del Comando Provinciale di Latina che ha portato, sinora, alla cattura di diciassette persone, colpite da ordinanza di custodia cautelare in quanto ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà degli incanti, concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità”, si legge nella nota diramata dai carabinieri. Il 18° destinatario della misura è risultato irreperibile.

“Le investigazioni hanno fatto luce su una gestione spregiudicata della cosa pubblica – si legge ancora – permettendo di disvelare un contesto di diffusa corruzione, in cui alcuni amministratori, funzionari e imprenditori pilotavano gare d’appalto in materia di raccolta differenziata dei rifiuti, costruzione di edifici pubblici, esecuzione di lavori stradali, refezione scolastica e manutenzione del verde pubblico e dei cimiteri”.

LE REGOLE HOT DEL CORSO PER I GIUDICI

TACCHI, MINIGONNE E MINACCE. LE REGOLE HOT DEL CORSO PER I GIUDICI. “MIA FIGLIA ERA SOTTO RICATTO”

Il Consigliere di Stato Bellomo è stato destituito dall’insegnamento, fra le accuse quella di imporre la minigonna alle allieve. La testimonianza del padre di una delle giovani che avrebbe avuto una relazione con lui

Tacchi, minigonne e minacce. Le regole hot del corso per i giudici. “Mia figlia era sotto ricatto”

Allieve obbligate a presentarsi ai corsi con un rigido dress code – minigonna, tacco 12, rossetto e smalto chiaro sulle unghie – l’obbligo di non sposarsi e, in caso di relazioni sentimentali, quello a sottoporre i partner a un test di valutazione per decidere se assegnare loro una borsa di studio di “fascia A” o “fascia B”. Non solo. Ci sarebbe anche il vincolo di riservatezza assoluto e altre limitazioni ma, soprattutto, il rischio – scrive Il Fatto Quotidiano –  di vedere “esporre in pubblico la vita personale della borsista inadempiente, durante le lezioni e negli articoli”. Queste le accuse costate al Consigliere di Stato Francesco Bellomo, direttore della scuola per aspiranti magistrati “Diritto e Scienza”, e al pubblico ministero di Rovigo, Davide Nalin, suo stretto collaboratore, una procedura cautelare al Csm che potrebbe portare alla loro sospensione delle funzioni e dello stipendio. Accuse che provengono dal padre di un’allieva, la quale avrebbe intrattenuto una relazione con Bellomo, e che l’interessato respinge.

La denuncia da cui tutto è partito

“Il giudice Francesco Bellomo, pugliese di nascita, romano d’adozione, è finito al centro di un procedimento disciplinare dinanzi all’organo di presidenza del Consiglio di Stato per una storia che, se non fosse una cosa seria, sarebbe degna di entrare in una sorta di B movie anni ’80” scrive Il Mattino, “ma su cosa si sono riuniti i membri dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa? Si parte da una lagnanza firmata dal padre di una ex allieva del giudice Bellomo, in uno degli affollati corsi di formazione in diritto amministrativo tenuti dal giudice per conto della società ‘Diritto e scienza’. Una lagnanza, uno sfogo di un genitore, che non ha mai ritenuto opportuno firmare una denuncia penale, ma che punta l’indice contro l’attività di docente del magistrato”.

Le minacce

Come scrive La Repubblica, “è il 23 giungo 2017 e al Consiglio di Stato siede la studentessa il cui padre ha denunciato Francesco Bellomo per le vessazioni subite dalla figlia. Nove pagine di interrogatorio rivelano il dramma vissuto dalla ragazza durante il corso per aspiranti magistrati tenuto da Bellomo. Verbale che Repubblica ha consultato, insieme a quelli di un suo collega, il pm di Rovigo Davide Nalin, e alla nota dei carabinieri da cui Bellomo pretendeva una conciliazione forzata con la studentessa”.
“Il consigliere Bellomo mi ha rivolto minacce dirette… Prefigurava la possibilità che il mio caso sarebbe finito sulla rivista, è il drammatico racconto della studentessa che temeva di finire sulla rivista come altre sue colleghe.

Il bizzarro contratto per i borsisti

Dopo le indagini, leggiamo sul Giornale, il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa ha approvato la destituzione di Bellomo perché il contratto per i borsisti “non rispetta la libertà e la dignità della persona”. Ora si attende l’adunanza dei consiglieri per ratificare (o meno) la decisione. Il Consiglio accusa il direttore della scuola di aver “violato il prestigio della magistratura” e lo fa presentando quattro addebiti principali, riassunti in un documento finale riportato dal Fatto.

Gli obblighi

“Risulta che era il consigliere Bellomo a sottoporre a colloquio gli aspiranti a tale borsa di studio e a selezionarli – si legge – L’ accesso alle borse di studio comportava per i borsisti la sottoscrizione di un vero e proprio contratto. Il contratto prevede numerosi impegni nell’interesse della società, tra cui la scrittura di articoli per la rivista Diritto e Scienza, la partecipazione a studi e convegni, la promozione dell’immagine della società”.

Fidanzamento permesso solo dopo un test

“È emerso – si legge nel documento – che conteneva una clausola limitativa relativa a matrimonio e fidanzamento: decadenza in caso di matrimonio; fidanzamento consentito solo se il/la fidanzato/a risultasse avere un quoziente intellettuale pari o superiore a un certo standard. Competeva al consigliere stabilire se i fidanzati o fidanzate dei o delle borsiste superassero il quoziente minimo necessario per essere fidanzati e/o ammessi/e (ciò appare particolarmente significativo).

Tacchi e minigonna obbligatori

È stato poi dichiarato che, allegato a tale contratto, vi fosse un documento contenente il cosiddetto dress code, che prevede diversi tipi di abbigliamento dei borsisti a seconda delle occasioni. Per l’abbigliamento femminile si fa anche menzione alla diversa lunghezza della gonna, del tipo di calze e del tipo di trucco”. In un caso, inoltre, Bellomo avrebbe chiesto ad una borsista, intenzionata a lasciare il fidanzato per ottenere la borsa di studio di fascia A, di “sottoscrivere un contratto con il quale si impegnava a corrispondergli 100mila euro se non avesse tenuto fede a questa decisione”.

Bellomo: “Anche fosse vero, sarebbe vicenda di costume”

 “Non posso raccontare i fatti, perché sono tenuto al silenzio, ma non sono come li hanno descritti. Anche se lo fossero però sarebbe solo una vicenda di costume”, spiega al Corriere della Sera Bellomo, “datemi la possibilità di contro-esaminare chi mi accusa e usciranno dall’aula piangendo per le menzogne che hanno detto”.

I particolari intimi della relazioni resi pubblici

Ma il padre della ragazza non lo teme. “Lui ha denunciato anche me. È la sua tecnica, fa terra bruciata. Ma io devo difendere mia figlia. spiega al quotidiano, “lei era stata insieme con Bellomo (a questo punto non so quanto volontariamente o per contratto). Com’era successo anche ad altre, lui poi raccontava particolari intimi delle sue relazioni sulla rivista a disposizione degli studenti”.

La clausola dei 100mila euro

“Peggio della gogna del web”, prosegue l’uomo, “perché poi i tuoi compagni sanno se hai dormito con questo o l’altro, se sei stata brava, se il tuo fidanzato è un deficiente. Era obbligata al segreto. Sapeva che lui fa causa e le vince tutte e la clausola era da 100mila euro. Quando non voleva più andare è stata denunciata anche lei. Ma una borsa di studio non dovrebbe essere un premio a cui poter rinunciare? Invece lui l’ha fatta cercare dai carabinieri. Noi non sapevamo nulla. La vedevamo deperire. È alta 1,72 era arrivata a 41 chili. Un giorno, all’arrivo dei carabinieri, è svenuta. L’abbiamo dovuta ricoverare. A quel punto ho cominciato a investigare”.

I carabinieri mandati da lui

Come scrive La Repubblica, “i carabinieri bussano più volte a casa della ragazza”. Il padre ricorda: “Sono venuti mandati da lui, volevano che mia figlia firmasse un atto di conciliazione. Sono venuti a maggio, a poi a ottobre, ma lei era in ospedale… E’ ancora in cura, entra ed esce dall’ospedale tutte le settimane. Sta provando a raccogliere i cocci di una vicenda che la lasciato macerie. Questa storia le ha distrutto la vita”. Lei che, “laureata alla Cattolica di Piacenza, è stata premiata come una delle migliori allieve di tutti i corsi… Ora ha ripreso a mangiare e a studiare. Un’ora al giorno. Poca roba rispetto al passato, ma è un altro passo verso la normalità”.

La mafia nigeriana ha scalzato i Casalesi.

La mafia nigeriana ha scalzato i Casalesi. Con un ammasso di macerie umane

Viaggio drammatico a Castel Volturno. Case sventrate, che si vedono anche i tondini, che il cemento si è consumato e interi quartieri e frazioni che girarli da soli fanno paura. Spuntano all’improvviso figure sinistre di ragazzi

Il fotografo sociologo distribuisce le macchinette fotografiche usa e getta ai “pazienti” dell’ambulatorio di Emergency, a Castel Volturno. E da giorni fotografa donne nigeriane per un progetto legato alla Fondazione di Gino Strada.

Andrea Kunkl, il fotografo, ha uno sguardo molto penetrante e una voce da affabulatore. Quello che lo colpisce è il ritorno della regina della droga nelle piazze, la signora eroina pura. Andrea invita i giornalisti ad andare a farsi un giro nell’albergo dei tossici.

Cosa rappresenta per te Castel Volturno?, gli chiedo. «Il futuro dell’Europa». Bella risposta, suggestiva, diremmo quasi ad effetto. Qui, secondo un censimento del comune, ci sono quindicimila stranieri e venticinquemila residenti locali.  E degli stranieri undicimila sono clandestini, quattromila i regolari. Il censimento è fatto sulla base della produzione quotidiana di rifiuti solidi urbani e quindi sulla stima di quanti rifiuti producono singolarmente i cittadini. E c’è da scommettere che in realtà i numeri di presenze nere sono molto più significativi.

Rispondo al fotografo-sociologo che Castel Volturno era così anche alla fine degli anni Ottanta. È sempre stata un po’ “Mamma Africa”. Solo che in quella fine degli Ottanta, i neri erano i braccianti clandestini assoldati da caporali spietati, spesso nordafricani, che li portavano alla rotonda di Villa Literno per fargli fare le giornate nelle campagne per la raccolta dei pomodori.

Questi stessi ragazzi poi si trasferivano  nel foggiano, sempre per i pomodori e a settembre partecipavano alla raccolta delle mele o alla vendemmia dell’uva in Trentino.

Era una immigrazione anche colta, di studenti senegalesi, di rifugiati congolesi o sudafricani. E poi un po’ alla volta, con ogni ventata di arrivi, si sedimentava una presenza stanziale di migranti. Soprattutto nigeriani e ghanesi.

Davvero entrando nell’ambulatorio di Emergency si capisce il lavoro prezioso e  insostituibile di questa organizzazione. Puoi non essere d’accordo su certe posizioni radicali, ma Gino Strada è una medaglia al valore civile di una Italia che per fortuna esiste e non abbassa la schiena.

Qui arrivano donne e bambini per la visita ambulatoriale, per ottenere dei farmaci. Ho intravisto una ragazza con una sorta di libretto sanitario rilasciato proprio da Emergency. Che ha anche un camper che con la mediatrice culturale nigeriana gira per i luoghi dove le ragazze vittime della tratta si prostituiscono. Magari con un thermos di thè, o per distribuire preservativi alle ragazze, che poi sono anche pazienti dell’ambulatorio.

Castel Volturno sono tante cose. Come la coabitazione per convenienza tra bianchi e neri. Raramente sono accaduti episodi di intolleranza “razziale”. Semmai le stragi di Pescopagano e poi quella recente, del settembre del 2008, di Baia Verde, dove il gruppo di fuoco dei Casalesi guidato da Giuseppe Setola fece fuori sei migranti nigeriani e ghanesi, furono provocate  per riaffermare il controllo dei Casalesi nella gestione delle piazze della droga.

Un esercente impegnato nel fronte dell’antiracket racconta che «oggi i Casalesi sono in difficoltà come se fossero scomparsi, decimati dalle retate e dai pentimenti. Sul territorio si avverte la presenza solo della microcriminalità».
E poi c’è la droga e la prostituzione che sono gestite dalle mafie nigeriane. Un tempo, con i primi processi ai Casalesi, il pm Lucio Di Pietro, scoprì anche che il clan Bidognetti si faceva pagare il pizzo per occupazione di suolo “pubblico” cioè loro dalle ragazze nigeriane che si prostituivano sulla Domiziana.
Oggi questo tipo di concorrenza non c’è più. Recenti inchieste della procura distrettuale antimafia di Napoli hanno svelato l’esistenza della mafia nigeriana (c’è stata anche una sentenza che ha riconosciuto la mafiosità di queste organizzazioni).

Dunque, pochi conflitti razziali nella capitale dell’Europa che sarà, per dirla con il fotografo Kunkl. Ma tanta disperazione e degrado. Castel Volturno è un ammasso di macerie umane e fisiche. Case sventrate, dove si vedono anche i tondini di ferro perché  il cemento si è consumato.  E in interi quartieri e frazioni sono off limits:  girarli da soli fanno paura e non è consigliato. È in vigore un coprifuoco permanente e se attraversi questi territori spuntano all’improvviso figure sinistre di ragazzi, donne, che fanno le  vedette. Che controllano il  territorio. Proteggono le loro case, i “centri benessere” nigeriani dove puoi mangiare, fumare uno spinello, bere, fare sesso a pagamento. Dei tuguri della disperazione.

Castel Volturno è un pezzo di Nigeria nel cuore dell’Europa. Da qui passano tutti. Perché Castel Volturno? «Perché le case costano poco», risponde un ragazzo nigeriano. Fa sorridere ma lascia un senso di inquietudine. Già, perchè Castel Volturno?

Pizza: arte del pizzaiuolo napoletano patrimonio umanità

Pizza, Mipaaf: arte del pizzaiuolo napoletano patrimonio umanità

Pizza, Mipaaf: arte del pizzaiuolo napoletano patrimonio umanità

Roma, 7 dic. (askanews) – La pizza è divenuta patrimonio dell’umanità. Il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali rende noto che il comitato per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco ha iscritto “L’Arte del Pizzaiuolo Napoletano” nella lista degli elementi dichiarati Patrimonio dell’umanità.La candidatura è stata avviata dal Mipaaf nel marzo 2009 ed è stata condotta da una specifica task force di esperti guidata dal professor Pier Luigi Petrillo.”Il Made in Italy ottiene un altro grande successo – afferma il ministro Maurizio Martina -. È la prima volta che l’Unesco riconosce quale patrimonio dell’umanità un mestiere legato ad una delle più importanti produzioni alimentari, confermando come questa sia una delle più alte espressioni culturali del nostro Paese. È un’ottima notizia che lancia il 2018 come anno del Cibo. L’arte del pizzaiuolo napoletano racchiude in sé il saper fare italiano costituito da esperienze, gesti e, soprattutto, conoscenze tradizionali che si tramandano da generazione in generazione. È un riconoscimento storico che giunge dopo un complesso lavoro negoziale durato oltre 8 anni, che premia l’impegno del Ministero al fianco delle associazioni dei pizzaiuoli. Ringrazio le istituzioni locali, la Regione Campania, gli esperti del Ministero e tutti quelli che col loro impegno hanno reso possibile questo risultato che ribadisce il ruolo di primo piano svolto dal nostro Paese nel valorizzare la propria identità enogastronomica.”Nel 2010 è arrivata la proclamazione della Dieta Mediterranea, primo elemento culturale al mondo a carattere alimentare iscritto nella lista dell’Unesco; nel 2014, il riconoscimento della coltivazione della “Vite ad alberello” di Pantelleria, primo elemento culturale al mondo di carattere agricolo riconosciuto dall’Unesco. Ora “L’Arte del Pizzaiuolo Napoletano”. Dei 6 elementi italiani riconosciuti dall’Unesco patrimonio dell’umanità, 3 sono riconducibili al patrimonio agroalimentare, a conferma che in Italia il cibo e l’agricoltura sono elementi caratterizzante la cultura del Paese.

Multa raddoppiata per l’uso del cellulare alla guida e patente sospesa fino a 6 mesi

Multa raddoppiata per l’uso del cellulare alla guida e patente sospesa fino a 6 mesi

Fra gli emendamenti alla manovra anche l’obbligo di dispositivi di allarme antiabbandono per i seggiolini dei bambini in macchina

Stretta sull'uso del telefonino in auto (Ansa)

Con la nuova legge di bilancio arriva una stretta sull’uso del cellulare alla guida e sui seggiolini anti-abbandono. La commissione Trasporti della Camera ha approvato alcuni emendamenti alla manovra che ora passeranno all’esame della commissione Bilancio. Previste sanzioni raddoppiate per l’uso degli smartphone alla guida e fino a sei mesi di sospensione della patente nonché l’obbligo di dispositivi di allarme antiabbandono per i seggiolini dei bambini in macchina.

Le sanzioni

Per chi utilizza il cellulare mentre guida, la sanzione amministrativa prevede il pagamento di una somma da 322 a 1294 euro. Ma soprattutto si applica la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi. E se lo stesso soggetto compie un’ulteriore violazione entro i due anni, la sanzione amministrativa raddoppia: da 644 a 2588 euro, e la patente potrà essere sospesa da due a sei mesi.

L’ultimo treno

La legge di bilancio è l’ultimo treno utile della Legislatura, e dunque l’ultima chance per approvare le misure rimaste a metà dell’iter parlamentare, per questo la commissione Trasporti chiede di travasare in manovra via emendamento la stretta sull’uso dei cellulari alla guida e le nuove norme che prevedono che i seggiolini dei bimbi in auto siano dotati di allarmi anti-abbandono. Anche la commissione Giustizia ci prova e spera di incassare l’ok ad uno spezzone della riforma del processo civile, arenato a Palazzo Madama, che con il rito sommario punta a dimezzare i tempi della cause in primo grado.

Ambasciata Usa a Gerusalemme

Ambasciata Usa a Gerusalemme, quella di Trump è piromania diplomatica

Ambasciata Usa a Gerusalemme, quella di Trump è piromania diplomatica

Profilo blogger

Romanziere e poeta, traduttore di letteratura italiana in ebraico
La dichiarazione del presidente americano Donald Trump di ieri, nella quale riconosce Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, è un chiaro caso di piromania diplomatica. Il presidente statunitense aveva promesso in campagna elettorale di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Alla Casa Bianca – dicono – si potrà fare in tre, quattro anni – dunque non è chiaro se Donald Trump stesso riuscirà a compiere questo passo, nel caso non venisse rieletto per un altro mandato. Ma questo riconoscimento non viene accompagnato da alcun piano di pace.Per risolvere uno dei conflitti più complessi della storia moderna, il presidente americano ha affidato le trattative a suo genero, che certo non è un veterano di trattative di pace.

Da israeliano quale sono, vorrei chiarire che Gerusalemme occidentale è e deve essere la capitale di Israele, e mi sembra alquanto strano e criticabile che l’Unesco neghi il legame fra il popolo ebraico, cittadini dello Stato di Israele, con la Città Santa. Tuttavia, un riconoscimento del genere doveva essere fatto alla fine di un processo di pace, alla nascita “di due Stati per due popoli”, e non prima.

Negli ultimi 10 anni Netanyahu non si è mai dimostrato disposto a trattare con Abu Mazen, e neppure interessato a dare una prospettiva minima di speranza politica. In questo blog ho ricordato diverse volte l’esistenza di una proposta saudita, appoggiata dalla Lega Araba, che propone un accordo di pace che una leadership israeliana pragmatica potrebbe accettare. Temo che Trump non conosca bene la realtà mediorientale e nemmeno le diverse soluzioni portate avanti sia dai predecessori americani che dai leader arabi e palestinesi. La sua proclamazione offre invece il pretesto – ad organizzazioni quali HamasJihad islamico, e perché no anche all’Isis – di compiere atti terroristici in Israele o nelle capitali in Occidente, spacciandosi per difensori musulmani della Città Santa che “l’infedele” americano ha donato allo stato ebraico.

Leader moderati e pragmatici, come il re Abdallah di Giordania, hanno già ribadito in passato che Trump, con la sua dichiarazione, porterà instabilità in Medioriente, anziché l’assestamento necessario a una regione in cui l’Isis è stato sconfitto e la Siria aspetta un nuovo futuro, che tenga conto del fatto che Bashar Al Assad è un feroce dittatore.

Nella destra israeliana, o meglio nell’estrema destra, stasera si festeggerà. Anche Netanyahu, il cui entourage nel Likud è mischiato in vari casi di corruzione (e non è che Netanyahu non abbia i suoi guai giudiziari) festeggerà, perché la dichiarazione del presidente americano gli permetterà di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica, non più sulla corruzione sua e del suo partito ma su un annuncio che a prima vista può sembrare tema di grande politica: gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.

L’opinione pubblica israeliana è stufa del malgoverno che il Likudha dimostrato negli ultimi mesi. Sabato 2 dicembre decine di migliaia di cittadini sono scesi a Tel Aviv per le strade del centro, in segno di protesta contro le leggi ad personam che Netanyahu e i suoi fedelissimi parlamentari hanno cercato di far passare. Il tentativo è quello di salvarlo dalle indagini della polizia israeliana su tangenti e regali smisurati che lui e sua moglie avrebbero ricevuto da miliardari israeliani, residenti all’estero.

Ho la sensazione che l’attuale amministrazione americana si limiterà a questo gesto e non sposterà mai l’ambasciata a stelle strisce a Gerusalemme. Netanyahu incasserà questa dichiarazione di riconoscimento e cercherà di “venderla” agli israeliani come frutto del suo lavoro di primo ministro, nonché ministro degli Esteri (è singolare che uno Stato come Israele non ne abbia uno vero e proprio). E se Trump gli chiederà l’avvio di un processo di pace, o almeno di congelare la nascita di nuove colonie nei Territori, il leader israeliano troverà il modo di far perdere tempo e speranza al suo popolo e ai suoi vicini.

Giovani in pensione a 71 anni

Giovani in pensione a 71 anni, ma la spesa previdenziale reste alle stelle

Un ventunenne italiano che ha iniziato a lavorare nel 2016 per avere la pensione dovrà aspettare 50 anni e due mesi. Peggio di noi solo la Danimarca: 74 anni

Giovani in pensione a 71 anni, ma la spesa previdenziale reste alle stelle

Chi oggi ha vent’anni andrà in pensione a 71, posto che trovi un lavoro e riesca a farsi pagare i contributi fra i più cari d’Europa. È questa l’amara sintesi del rapporto sul sistema previdenziale italiano fotografato nel “Panorama sulle Pensioni 2017” appena pubblicato dall’Ocse (che riunisce i 35 paesi più sviluppati del pianeta). Secondo l’organismo con sede a Parigi, l’età di pensionamento per i nati nel 1996 dovrebbe crescere a 71,2 anni, il livello più elevato di tutta la zona dopo la Danimarca. Secondo le tabelle della Ragioneria dello Stato, nel 2065 arriverà a 70 anni e 6 mesi.

Saremo i pensionati più vecchi dopo i danesi

L’assegno previdenziale arriverà quindi quando compirà 71 anni e due mesi mentre un suo collega tedesco (o canadese, austriaco, spagnolo o ungherese) potrà percepirlo sei anni prima, quando ne compirà 65. I giovani francesi saranno fortunati pensionati già a 63 anni. Nel 2060 si troveranno pensionati anziani come quelli italiani solo in Olanda (71 anni) e in Danimarca, dove l’età pensionabile obbligatoria arriverà a 74 anni. Unica consolazione per i giovani lavoratori di oggi, è che avranno delle pensioni molto tardive, ma anche ricche. Potranno intascare assegni pari all’83% dell’ultimo stipendio, mentre il tasso medio dell’Ocse è del 58,7%.

L’età effettiva del pensionamento in Italia è ancora bassa

Per l’Ocse però, nonostante queste tempistiche geriatriche, il nostro sistema pensionistico paga oggi, e pagherà maggiormente in futuro, i costi di un passato troppo generoso, quello delle pensioni baby. Stando al rapporto, l’Italia è il paese che attualmente ha per gli uomini l’età di uscita “effettiva” per pensionamento più bassa rispetto a quella di vecchiaia legale. Nel 2016 ci sarebbero stati tra l’età di uscita per vecchiaia (66,7 anni) e quella media effettiva 4,4 anni di differenza, il divario più alto di tutti i Paesi Ocse. Si esce quindi abbondantemente prima dei 63 anni. In media nell’area il divario tra età legale ed effettiva di uscita per pensionamento è di 0,8 anni per gli uomini e di 0,2 anni per le donne. Comunque un dato non molto diverso da quello di Austria e Spagna. Più generosa, ancora una volta, la Francia con un’età effettiva di pensionamento che oggi è a 60 anni.

Spesa previdenziale alle stelle

Quanto alla spesa previdenziale, rappresenta oltre il 15% del Pil con un tasso di contribuzione pari al 33% e va tagliata secondo l’Ocse. Insomma l’Italia è uno dei paesi che spende di più per le pensioni. Peggio di noi c’è solo la Grecia, con il 17,4%. Le nostre pensioni rappresentano il 31,9% della spesa pubblica (il doppio della media Ocse) e in soli tre anni, tra il 2000 e il 2013, le risorse destinate a questo settore sono aumentate del 20,9%. Un’impennata che non ha eguali nei paesi Ocse. Record italiano anche per la quota di contributi pagati da datori e lavoratori. Siamo tra i paesi che ne pagano di più, con il 33% della retribuzione.

Le priorità

Quindi per l’Ocse, “l’aumento dell’età pensionabile effettiva dovrebbe continuare a essere la priorità” dell’Italia al “fine di garantire benefici adeguati senza minacciare la sostenibilità finanziaria. Ciò significa concentrarsi sull’aumento dei tassi di occupazione, in particolare tra i gruppi vulnerabili. Un mercato del lavoro più inclusivo ridurrebbe anche il futuro tasso di utilizzo delle prestazioni sociali per la vecchiaia”.

Il problema della disoccupazione

La cosa non sembra facilmente conciliabile: fare andare i lavoratori in pensione più tardi e impiegare i giovani. Infatti in base allo studio, l’Italia deve dare maggiori “opportunità ai giovani”. La lotta contro la disoccupazione giovanile “dev’essere la priorità assoluta, anche perché in un sistema previdenziale contributivo, la pensione è data dagli anni effettivi di contribuzione. Ogni anno perso di lavoro è un anno perso in termini di montante pensionistico”, mette in guardia Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento lavoro e affari sociali dell’Ocse, intervistato dal Gr1 Rai economia.

Più part time agli anziani

Una delle soluzione pare sia trovare delle forme per fare uscire gradualmente i lavoratori anziani. Nei Paesi Ocse «circa il 50% dei lavoratori sopra i 65 anni lavorano part time», in Italia sono meno di un terzo. Flessibilità che diventerà inevitabile per gli attuali 20 enni, condannati a lavorare oltre i 70 anni.

Esodati

In merito al tema degli esodati, Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento lavoro e affari sociali dell’Ocse, dice di sperare “che la vicenda finisca prima possibile: è stato un problema drammatico per i soggetti coinvolti, speriamo sia problema solo temporaneo legato alla transizione che la riforma ha generato, si tratta di una priorità sociale ma anche economica”. Scarpetta invita poi l’Italia ad “utilizzare per il suo futuro tutte le risorse che ha, promuovendo la partecipazione al mercato del lavoro dei gruppi sottorappresentati”. Giovani ma anche donne. “Il tasso di occupazione femminile – osserva – è ancora ampiamente al disotto della media Ocse e anche di molti paesi europei”.

Ape: sperimentazione da continuare

Ok, infine, alle misure di adeguamento dell’età pensionabile: “Ovviamente bisogna aiutare le persone a restare occupabili e occupate, cosicché possano arrivare all’età di pensionamento, e poi occuparsi di coloro che hanno difficoltà a rimanere occupate: in questo senso vanno i nuovi strumenti come l’Ape, che è una sperimentazione importante da perseguire, senza necessariamente cambiare l’adeguamento alle aspettative di vita”. Quanto al tasso di sostituzione per un lavoratore a tempo pieno, in Italia salirà all’83% rispetto a una medie Ocse del 53%. Un livello inferiore solo a Olanda, Portogallo e Turchia.

Rom, una parola non basta a definirli

Rom, una parola non basta a definire 22 comunità diverse

Rom, una parola non basta a definire 22 comunità diverse

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Presidente Associazione 21 luglio

Nell’immaginario collettivo, quando si parla di comunità rom ci si riferisce ad un popolo omogeneo, detentore di una cultura e di una lingua, con alle spalle un’unica storia che ha inizio nel 1400 con l’arrivo in Italia delle prime carovane provenienti dall’Oriente.

In realtà, quando utilizziamo la parola “rom” in senso universale, ci troviamo a che fare con comunità di persone differenziate da elementi molto diversi tra loro. Ho provato a fare una catalogazione delle principali comunità ascrivibili all’universo rom presenti in Italia. Ci sono i rom italiani di antica immigrazione suddivisi in 5 gruppi (rom abruzzesi, rom celentani, rom basalisk, rom pugliesi, rom calabresi); i sinti all’interno dei quali ci sono 9 gruppi (sinti piemontesi, sinti lombardi, sinti mucini, sinti emiliani, sinti veneti, sinti marchigiani, sinti gàckane, sinti estrekhària, sinti kranària); i rom balcanici di recente immigrazione comprensivi di almeno 5 gruppi (rom harvati, rom kalderasha, rom xoraxanè, rom sikhanè, rom arlija/siptaira); i rom bulgari; i rom rumeni e i caminanti, originari di Noto. Ventidue gruppi – suddivisi in sottogruppi – diversi tra loro per dialetti, religioni, tradizioni.

Fondamentali sono poi le condizioni socio-abitative che vedono ai due estremi quelle famiglie di rom abruzzesi che ostentano ville con architettura chic e i poverissimi rom bulgari del ghetto di Borgo Mezzanone, in Puglia. In mezzo abbiamo rom che vivono in insediamenti formali e informali, in microaree, in centri di accoglienza, in terreni privati, in abitazioni in locazione e di proprietà, in case popolari e in quartieri monoetnici (come la Ciambra di Gioia Tauro), in immobili occupati (solo 1.500 nella città di Roma) in ville di lusso e in camper che si muovono stagionalmente. Dodici soluzioni abitative che, se incrociate con le condizioni dei 22 gruppi rom, ci presentano 107 condizioni socio-culturali differenti!

La maggioranza delle 107 realtà sono rappresentate da culture fuse e compenetrate con tipicità delle popolazioni locali, da cui sono scaturite mescolanze, contaminazioni, strategie di visibilità o di mimetizzazione.

Di fronte alle 107 realtà è possibile anche solo individuare tratti culturali o linguistici comuni? Esiste in Italia una cultura e una lingua rom che è possibile fissare, definire e codificare? Una domanda che alla base contiene una serie di questioni delicatissime di carattere identitario: chi può essere individuato con assoluta certezza come rom? Colui che parla il romanès? Chi ha mantenuto le tradizioni dei suoi avi o chi ha deciso di mimetizzarsi? E poi: il figlio di un matrimonio misto resta rom? E il nipote? Continuando all’estremo potremo rischiare di arrivare alle stesse risposte che già si era dato il dottor Mengele.

Se in Italia, come qualcuno legittimamente vorrebbe, venisse votata una legge per la tutela della minoranza rom ogni persona avrebbe il diritto di scegliere liberamente se essere o non essere trattata in quanto appartenente a tale minoranza. Ma in questo caso cosa accadrebbe se un cittadino, anche se non discendente da comunità rom, si auto dichiarasse rom al fine di godere dei “diritti speciali” previsti dalla legge? Chi potrebbe contestargli questa opzione? Su quali basi oggettive?

La questione, che periodicamente innesca veementi dibattiti, è complessa e non scontata e su di essa si gioca il futuro di molti. Non certo dei 28mila rom (quasi tutti stranieri), gli ipervisibili, quelli che con certezza classifichiamo come rom e che in Italia vivono segregati in misere baraccopoli. A loro, probabilmente, questo dibattito sull’identità e la cultura interessa poco o nulla.

Loro restano fuori da esso, fisicamente e idealmente, perché il loro ruolo è e sarà un altro: quello di stare dentro la cartolina utilizzata per rendere viva nella coscienza collettiva l’immagine dell’archetipo “rom” ma anche per giustificare il fiume di denaro che dall’Europa, in nome dell’”inclusione”, sfocia in incontrollati rivoli a cui in tanti si abbeverano.

Forse è giunto il momento di ribaltare l’intera questione e ripartire proprio da loro. Dalla loro condizione drammaticamente funzionale all’esistenza di inutili agenzie, di programmi europei, di strategie nazionali e di uffici comunali specificatamente dedicati alla “questione rom”. Che a tutto servono, meno che a dare risposte reali a quello 0,06% della nostra popolazione che vive in un container malmesso, dentro una baracca o sotto una tenda e che invoca solo un forte intervento sociale che aggredisca il loro problema che ha un nome preciso: povertà.

I nuovi mestieri da schiavi

I nuovi mestieri da schiavi: i lavoratori del turbocapitalismo pagati 4 euro l’ora

Faticano tanto e ricevono poco. Non vedono la famiglia e non hanno diritti. In un approfondimento de La Stampa gli esempi dei tanti lavoratori tartassati

Consegne in bici
Consegne in bici

C’è chi lavora per 4 euro l’ora e chi non vede la famiglia per giorni, chi fatica per 210 ore ma se ne vede retribuite solo 120. Una lunga teoria di lavori low cost, ma solo per i datori di lavoro, come fa notare La Stampa che enumera una serie di esempi in cui i lavoratori si spaccano la schiena, o sono comunque sfruttati, e ricevono retribuzioni da fame.

In mancanza di un salario minimo dovrebbe valere la contrattazione collettiva, ma questa viene di sovente aggirata. Così tante persone, soprattutto giovani, si trasformano nei nuovi schiavi del cosiddetto turbocapitalismo. Carne da macello in balia di un neoliberismo spietato che, in questo mondo globalizzato, non guarda certo alla salvaguardia dei diritti basilari dei cittadini.

I settori

Sono coinvolti vari settori: da quello agricolo a quello della ristorazione, da quello alberghiero a quello sportivo o culturale. Diventa di conseguenza normale che Marco, cameriere di catering e Enrico, fattorino in bicicletta, non vadano oltre i 7 euro l’ora, ma solo sulla carta. Che Dario, educatore in subappalto dei servizi sociali del comune di Milano, non superi i mille euro al mese pur lavorando tutto il giorno. Sia perché la retribuzione non è gran che, sia perché sono poche le ore lavorate, o addirittura perché vengono alla fine riconosciute meno ore di quelle realmente impiegate.

Le spese

Senza contare i lavori nei quali metà dello stipendio se ne va in spese, per esempio per la benzina o il trasporto, come accade a Luca, postino per una società privata in Veneto che deve consegnare 15mila buste al mese con la sua auto. E poi in molti di questi lavori non si pagano gli straordinari, oppure vengono detratti i tempi morti in cui non si è davvero attivi. A Enrico, per esempio, capita che quando consegna pizze a domicilio con la sua bici, per 5,60 euro l’ora, più un incentivo di 1,20 euro per ogni consegna in base al contratto di collaborazione, non viene “pagato nei momenti di calma, di mattina o pomeriggio”. In tal modo Enrico a ottobre ha incassato 450 euro, nonostante i chilometri e chilometri macinati. Senza contare che in caso di infortunio o malattia sono solo problemi suoi. In quel caso, semplicemente, il suo turno di lavoro lo fa un altro.

Molto lavoro, pochi diritti

Un ritornello ricorrente: molto lavoro con poco stipendio e niente diritti. G. è un ragazzo africano arrivato dal Corno d’Africa e per 12 ore al giorno sposta colli nei magazzini di un discount. Alla sera la schiena è a pezzi e le gambe molli. Nero su bianco ha una retribuzione regolare ma a fine mese le ore da 210 diventano 140. La morale? E’ una fortuna se ogni mese si mette in tasca mille euro. Luis invece è un autista peruviano residente a Brescia. “passo più tempo in cabina che a casa… quando sono troppo lontano o stanco dormo in cabina”, dice. Certi ritmi li subiscono anche gli autisti dei Tir, ma quelli godono di periodi di breck obbligatori. I “padroncini” invece su quelle regole non possono contare. Lavorano in conto terzi e sono costretti a correre il più possibile. Straordinario non ne esiste e ogni mese racimolano circa 1400 euro. Ma quanto tempo ci vuole. “Se voglio vedere la mia fidanzata – afferma Luis – devo portarla in cabina con me”.

Tempo tiranno

Il tempo è tiranno anche per Luca. Lui fa il postino in subappalto in Veneto. Inizia il lavoro alle 6 di mattina. Una pausa di 30 minuti e via, fino alle 8 di sera. Il sabato fino alle tre. La liberalizzazione dei servizi postali ha dato accesso a circa 2mila titolari di licenza e a tante società che sfoderano contratti “fantasiosi”, come racconta La Stampa. “Nella busta paga risulta che mi pagano a ore, in realtà è un cottimo – rivela Luca – per ogni busta prendo da 5 a 8 centesimi”. La retribuzione è di circa mille euro ma “devo levare le spese di benzina, caselli e costi della mia auto”. Alla fine dopo tanto lavoro e sbattimento non arriva in realtà a 600 euro al mese.

Non è più rosea la situazione di Marco che lavora nel catering. Fa il cameriere. Si ritrova con gli altri ragazzi, parte in auto e non sa dove verrà inviato. Il tempo di viaggio ovviamente è gratis. Negli week-end capita che devono percorrere chilometri. Tutto per 6 euro l’ora con un contratto in ritenuta d’acconto. Arriva a 70 chiamate in 30 giorni, un tour de force pazzesco. Spesso non ha nemmeno il tempo di farsi la barba, e per questo viene multato.

L’agricoltura e le donne

Ma il settore più tartassato resta quello dell’agricoltura. Francesca ha 50 anni, si alza all’alba, per raccogliere ciliegie e uva in Puglia. Dovrebbe ricevere 52 euro a giornata per 6 ore di lavoro. Di fatto ne riceve 28, quando va bene 30. Se prende mille euro al mese è fortunata. “Sanno che non abbiamo scelta”, dice amaramente. Le donne sono spesso soggetti ancora più deboli degli altri, e questo anche in altri settori. Elena lavora nel Lazio in una ditta di pulizie. Il suo contratto sembrerebbe invidiabile. La paga oraria è di 7,58 euro all’ora. Invece a fine mese guadagna solo 300 euro. Il monte ore infatti prevede 10 ore alla settimana divise in tre giorni. Prendere o lasciare.

Educatore e insegnante all’università

Un problema che coinvolge anche Dario, educatore in una cooperativa che lavora per il comune di Milano. Si occupa di disagio giovanile e progetti contro il bullismo. Gli spostamenti però non sono retribuiti e lui passa più ore in metro o bus che negli interventi veri e propri. Alla fine non va oltre i mille euro al mese. “Spesso esco di casa la mattina presto, torno la sera tardi. Mangio dove capita per arrivare in tempo dagli utenti che seguo. Incrocio la mia ragazza solo nei fine settimana, anche se viviamo insieme. Spesso quando rientro lei già dorme”. Pensare che insegna anche all’Università. E pensare che c’è ancora chi ritiene (dimostrandolo nei fatti) che il lavoro non sia la prima emergenza per l’Italia.