Un giudice di pace ha per la prima volta deciso che il giocatore va risarcito se non è stato messo adeguatamente a conoscenza dei rischi che corre

Acquista 225 Gratta e vinci, perde sempre. Lotteria Italia condannata a risarcire il giocatore

Un giudice di pace ha per la prima volta deciso che il giocatore va risarcito se non è stato messo adeguatamente a conoscenza dei rischi che corre

Il grata e vinci
Il grata e vinci
di Giovanni Maria Bellu

Le concessionarie del gioco d’azzardo legale dovrebbero cominciare a preoccuparsi.  Un giudice di pace ha per la prima volta deciso che il giocatore va risarcito se non è stato messo adeguatamente a conoscenza dei rischi che corre: non solo di perdere un sacco di soldi, ma anche quello di restare vittima di una pericolosa forma di dipendenza, la ludopatia, non diversa da quella per l’alcol o la droga. E’ successo a Vallo della Lucania, Salerno, dove un giocatore incallito, stufo di perdere, ha deciso di rivolgersi a un avvocato. Aveva acquistato ben 225 Gratta e vinci senza mai vincere niente.

Affari suoi, si dirà. Aveva accettato il rischio e gli è andata male. E’ questo, in parole povere, l’argomento delle concessionarie. Solo che il giudice di pace, seguendo la tesi del legale dello sventurato, è andato a verificare le caratteristiche del prodotto messo in vendita e ha constatato che non conteneva tutte le informazioni necessarie. In particolare quella, prevista dall’articolo 7 del decreto Balduzzi, secondo la quale sui tagliandi devono essere presenti, “formule di avvertimento sul rischio di dipendenza dalla pratica dei giochi con vincite in denaro con le relative probabilità di vincita”. Formula che sui Gratta e vinci in questione non c’era. Dunque – ha stabilito il giudice – il contratto di vendita tra l’acquirente e la concessionaria va considerato nullo e la Lotteria Italia deve risarcire.

Una somma modesta, poche centinaia di euro. Ma se la decisione del giudice di pace di Vallo della Lucania diventasse giurisprudenza,  sarebbe un’autentica rivoluzione.  E un evento rovinoso per le concessionarie. Basta una cifra per comprenderlo:  secondo una ricerca pubblicata lo scorso anno dall’Economist. L’Italia è il quarto paese al mondo per il volume di perdite nel gioco d’azzardo legale. Tra videopoker, Gratta e vinci e lotterie varie perdiamo ogni anno 24 miliardi di dollari. Cifra che sorridponde a una perdita annua pro capite di 430 dollari.  Vanno peggio di noi solo gli Stati Uniti, la Cina e il Giappone.

Il decreto Balduzzi fu emanato proprio con lo scopo di porre qualche freno alla ludopatia, attraverso alcune blande e anche ovvie regolette. Una  di queste è informare i giocatori dei rischi che corrono e delle effettive probabilità di vincita. Regola mai applicata, o applicata con una serie di trucchi.  Come quello di considerare “vincenti” i biglietti che danno una vincita pari al loro valore e che hanno il solo scopo di indurre il giocatore ad acquistare un altro Gratta e vinci. Un meccanismo denunciato da anni dall’avvocato Osvaldo Asteriti,, titolare di un blog (http://www.osvaldo.asteriti.name/) il cui nome è una dichiarazione programmatica: “Win For Life, Gratta & Vinci Ed Altri Inganni”.

Nel gennaio del 2015 l’avvocato Asteriti presentò un esposto alla procura della Repubblica di Roma per denunciare la scorrettezza delle concessionarie e per segnalare gli “artifizi e raggiri” (sono gli stessi termini che nel codice penale definiscono il reato di truffa truffa) utilizzati per indurre un numero crescente di persone a giocare.  Metodi  particolarmente efficaci per i padroni del gioco d’azzardo, e particolarmente nocivi per i cittadini. Si stima che in Italia le persone che giocano in modo compulsivo, sperperando somme ingenti, a volte rovinandosi, siano mezzo milione.

Italiani all’estero, aumenta il numero degli espatriati: 107mila nel 2015.

Italiani all’estero, aumenta il numero degli espatriati: 107mila nel 2015. Ad andarsene sono soprattutto gli under 35

Italiani all’estero, aumenta il numero degli espatriati: 107mila nel 2015. Ad andarsene sono soprattutto gli under 35

Società
Presentato il rapporto della Fondazione Migrantes. La fascia tra i 18 e i 34 anni è la più rappresentata: 36,7%. Germania e Regno Unito le mete preferite, poi Svizzera e Francia. Nel complesso resta maggioritaria l’emigrazione meridionale, ma cresce quella dal Nord: Lombardia e Veneto sono le regioni che registrano il maggior numero di partenze. In dieci anni, i connazionali residenti in Paesi stranieri sono passati da 3 a 4,8 milioni: un incremento che sfiora il 55%. Mattarella: “Abbandonare il Paese è talvolta più un segno di impoverimento che non una libera scelta”

di  | 6 ottobre 2016
Sono 107.529 gli italiani espatriati nel 2015. Rispetto all’anno precedente a iscriversi all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) sono state 6.232 persone in più: un incremento del 6,2%. A lasciare il Paese soprattutto i giovani: i connazionali tra i 18 e i 34 anni che negli ultimi 12 mesi hanno fatto le valigie sono stati 39.410, il 36,7% del totale. Lo rileva il rapporto “Italiani nel mondo 2016” presentato oggi a Roma dalla Fondazione Migrantes. Il documento è stato immediatamente commentato dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha sottolineato come talvolta la scelta di abbandonare il Paese d’origine rappresenti “un segno di impoverimento piuttosto che una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze”.

 

Le destinazioni predilette – Dallo studio emerge che la meta preferita è stata la Germania, dove sono approdati 16.568 italiani. Subito dopo, con un minimo scarto, il Regno Unito, che ha accolto 16.503 italiani nel 2015. Più distaccate, la Svizzera (11.441) e la Francia (10.728). Relativamente basso, nel complesso, il numero di chi abbandona il Vecchio Continente: il 69,2% di coloro che hanno fatto le valige (quasi 75 mila persone) si è trasferito in un Paese europeo. In calo le partenze per l’America meridionale(-14,9% in un anno), mentre rimangono stabili quelle per l’America centro-settentrionale; 352 connazionali hanno scelto le altre aree continentali.

Vanno via soprattutto i giovani – La fascia tra i 18 e i 34 anni, quella dei Millennianls, è la più rappresentata tra gli espatriati (36,7%). I giovani hanno una mobilità “in itinere” che – osserva il rapporto – “può modificarsi continuamente perché non si basa su un progetto migratorio già determinato ma su continue e sempre nuove opportunità incontrate”. Seguono i 35-49enni, che rappresentano il 25,8% del totale. I minori sono il 20,7%, di cui 13.807 mila hanno meno di 10 anni, mentre il 6,2% ha più di 65 anni (di questi 637 hanno più di 85 anni e 1.999 sono tra i 75 e gli 84 anni). Quest’ultima è l’unica categoria che vede diminuire, tra il 2014 e il 2015, il numero degli espatriati (da 7.205 a 6.572); tutte le classi di età hanno registrato un aumento delle partenze. A lasciare l’Italia soprattutto uomini e persone non sposate: i maschi partiti sono oltre 60 mila (56,1%), icelibi e le nubili il 60,2%.

Aumenta l’emigrazione dal Nord – “Pur restando indiscutibilmente primaria l’origine meridionale dei flussi – si legge nel rapporto – si sta progressivamente assistendo a un abbassamento dei valori percentuali del Sud a favore di quelli del Nord del Paese”. La Lombardia, con 20.088 partenze, è la prima regione in valore assoluto per numero di espatri, seguita dal Veneto (10.374). Scende al terzo posto la Sicilia (9.823), che era seconda nel 2014. Al quarto posto il Lazio (8.436) e ancora Piemonte (8.199) ed Emilia Romagna (7.644).

La crescita sul lungo periodo – Nel complesso, gli italiani residenti all’estero al primo gennaio 2016 sono più di 4,8 milioni(4.811.163), con una crescita del 3,7% rispetto l’anno precedente (+174.516 unità). Dal 2006 al 2016 la mobilità italiana è aumentata del 54,9%: dieci anni fa i connazionali residenti in terra straniera erano poco più di 3 milioni. Il Paese europeo che ha fatto registrare, nello stesso periodo, le variazioni più significative è però la Spagna, dove nell’ultimo decennio l’incremento è stato del 155,2%.

Le parole di Mattarella – “Il nostro Paese ha una storia anticadi emigrazione. Una storia di sofferenze e di speranze. Una storia di riscatto sociale, di straordinarie affermazioni personali e collettive, ma anche di marginalità patite e di lacerazioni”. Sono le parole scritte dal Capo dello Stato in un messaggio inviato a monsignorGiancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes. “Oggi il fenomeno degli italiani migranti – prosegue Mattarella – ha caratteristiche e motivazioni diverse rispetto al passato. Riguarda fasce d’età e categorie sociali differenti. I flussi tuttavia non si sono fermati e, talvolta, rappresentano un segno di impoverimento piuttosto che una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze”. Il messaggio di Mattarella si chiude con un auspicio: “Il quadro che emerge dal lavoro dei ricercatori, presentato oggi, è di grande interesse e, mentre ci guida, senza pregiudizi, nell’esame del fenomeno, ci spinge a cercare soluzioni che consentano di trarre giovamento dai flussi migratori, eliminando i rischi”

Pensione anticipata per chi ha un lavoro usurante, ecco le categorie selezionate

Pensione anticipata per chi ha un lavoro usurante, ecco le categorie selezionate

Cgil, Cisl e Uil vorrebbero allargare l’elenco dei lavori usuranti, così da far rientrare nella platea degli aventi diritto il maggior numero possibile di persone

Pensione anticipata per chi ha un lavoro usurante, ecco le categorie selezionate
Redazione Tiscali

Dal prossimo anno molti dei lavoratori che svolgono uno dei mestiere considerato usurante potrebbero riuscire ad andare in pensione con 41 anni di servizio anziché i classici 42. Il governo Renzi, infatti, starebbe valutando la modifica della tanto odiata Legge Fornero, così da anticipare di qualche anno l’uscita dal lavoro di alcune specifiche categorie professionali. Sindacati e governo avrebbero già trovato una via del dialogo, ma le categorie dei lavoratori interessati dalla modifica sarebbero ancora troppo poche. Cgil, Cisl e Uil vorrebbero allargare l’elenco dei lavori usuranti, così da far rientrare nella platea degli aventi diritto il maggior numero possibile di persone.

Ecco le categorie dei lavoratori che andranno prima in pensione

L’uscita anticipata ci sarà presumibilmente per i macchinisti dei treni, i facchini, i dipendenti del settore marittimo e gli infermieri (o il personale sanitario che ha prestato servizio nelle sale operatorie). A queste categorie potrebbero aggiungersi poi gli insegnanti delle scuole di infanzia e il personale dei call center (in questo caso si parla dei soli lavoratori chiamati a prestare servizio nelle ore notturne).

Resta valido provvedimento di legge approvato nel 2011

Va ricordato che le categorie professionali su cui sindacati e governo stanno trattando non vanno confuse con quelle già identificate nel provvedimento di legge già approvato nel 2011: nello specifico gli operai delle cave, quelli addetti alla catena di montaggio, i palombari e tutti i lavoratori chiamati a fare i turni di notte di 6 ore (a partire dalla mezzanotte) per almeno 78 giorni all’anno o coloro che prestano servizio notturno di 3 ore giornaliere per tutto l’anno.

Pensione anticipata e regola della “quota 97”

Questi lavoratori, anche con le regole della legge Fornero, hanno già diritto a beneficiare della pensione anticipata ai 61 anni di età, sempre che abbiano raggiunto la cosiddetta “quota 97”  (98 per gli autonomi). Tale risultato è possibile ottenerlo sommando gli anni di contribuzione all’età anagrafica (e comunque nel caso in cui si siano versati almeno 35 anni di contributi).

Rimborsopoli Piemonte, 10 condanne e 15 assoluzioni tra cui ex presidente Cota: “Attacchi ignobili”

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Rimborsopoli Piemonte, 10 condanne e 15 assoluzioni tra cui ex presidente Cota: “Attacchi ignobili”

Giustizia & Impunità
La Procura aveva chiesto la condanna di tutti i 25 imputati a pene che nel complesso ammontavano a circa sessantasei anni di reclusione. Tra le spese contestate al rappresentante del Carroccio anche le famose “mutande verdi”. L’ex governatore leghista attacca il premier che lo aveva criticato”: “Renzi ha perso una occasione per stare zitto”

di  | 7 ottobre 2016
Le condanne per peculato sono dieci. Ma le “mutande verdi” di Roberto Cota non costituiscono reato perché “il fatto non sussiste”. Per questo l’ex presidente leghista della Regione Piemonte è stato assolto dall’accusa. E insieme a lui altri quattordici ex consiglieri regionali e la figlia di uno di loro sono stati riconosciuti innocenti dalla terza sezione penale del Tribunale di Torino nel processo per le “spese pazze” e i presunti rimborsi illeciti. “Sono stato fatto oggetto di attacchi ignobili, e ho sofferto tanto, ma ho fatto bene ad avere fiducia perché qualcosa nelle istituzioni funziona” dice Cota. “Renzi ha perso una occasione per stare zitto. Avrebbe dovuto mostrare altra sensibilità istituzionale, che non ha…”.

 

Dunque dieci condanne. La più alta, tre anni e dieci mesi, è perMichele Giovine, l’esponente dei “Pensionati per Cota” già condannato per le firme false a sostegno della sua lista in occasione delle elezioni regionali del 2010, annullate per questa ragione dalla giustizia amministrativa. Per i giudici è colpevole di aver ottenuto rimborsi illeciti per 14mila euro. Andrea Stara, esponente del Pd, è stato condannato a tre anni e quattro mesi per spese illecite da 29mila euro. Molti dei condannati militavano nel Pdl. Come Michele Formagnana, due anni e otto mesi. E poi due anni e sei mesi per Angiolino Mastrullo, ritenuto responsabile per spese da 9.300 euro. Due anni e cinque mesi per Roberto Tentoni (3.760 euro le spese contestate), due anni e un mese perRosa Anna Costa (4.900 euro), stessa pena per Alberto Cortopassi (2.800 euro), un anno e otto mesi per Daniele Cantore. E poi un anno e quattro per Giovanni Negro (Udc) per rimborsi illeciti da 1.250 euro. La pena più bassa, quattro mesi, per l’esponente di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli. Sette di loro saranno interdetti dai pubblici uffici per la durata della pena, mentre per il dem Stara e Giovine l’interdizione è “perpetua”. Giovine dovrà anche risarcire la Regione Piemonte 15mila euro. Assolti tutti gli imputati leghisti e legati ad altre liste.

È un verdetto a metà quello del tribunale, che non accoglie tutte le richieste della procura torinese e che farà discutere. Ad aprile i sostituti procuratori Giancarlo Avenati Bassi ed Enrica Gabettaavevano chiesto 25 condanne per peculato e alcuni casi di truffa contestati a un numero esiguo di consiglieri. Lo facevano sulla base delle prove raccolte nella complessa indagine della Guardia di finanza scattata nel settembre 2012 sull’onda dello scandalo Fiorito in Lazio. Il consigliere regionale del M5S Davide Bono aveva fatto alcune segnalazioni alla procura e a queste si unì le dichiarazioni di Roberto Rosso, ex vicepresidente del consiglio regionale per il Pdl, il quale affermò in un’intervista televisiva il rimborso ottenuto da un suo collega per una vacanza a Sestrière.

Dall’incrocio degli scontrini, delle agende e dei tabulati telefonici dei consiglieri emersero così rimborsi di “spese pazze” per quasi 1,4 milioni di euro in due anni: un’infinità di pasti consumati nei ristoranti, borse di lusso, il catering di un battesimo e un vassoio d’argento da regalare per il matrimonio di un politico, massaggi da tremila euro, qualche elettrodomestico, un giogo da bue e un paio di bermuda color kiwi, le famigerate “mutande verdi” acquistate da Cota durante un viaggio negli Stati Uniti.

A dar forza alle ragioni dei pm, inoltre, le sentenze della Cassazione sui patteggiamenti di altri due ex consiglieri, fra cui Andrea Buquicchio (Idv) e Tullio Ponso, una parte dei 14 che decisero di concordare la pena coi magistrati. A dare sicurezza all’accusac’erano anche le quattro condanne in abbreviato di altri ex consiglieri. Non è bastato. Possibile, come accaduto in altre regioni, che i giudici del collegio abbia valutato in maniera diversa il comportamento dei capigruppo e quello dei singoli consiglieri.

Nel frattempo, però, nel corso dell’indagine molti consiglieri, anche quelli inizialmente indagati e poi assolti, hanno restituito allo Stato 2,4 milioni di euro, una cifra a cui si aggiungono i 764mila euro recuperati grazie all’azione della Corte dei conti, dove tredici politici sono stati condannati, mentre altri sono stati prosciolti dopo aver risarcito il danno erariale.

L’inchiesta era scoppiata nell’aprile del 2013. Anche i consiglieri regionali del Piemonte, 52 in particolare, secondo la Procura di Torino, con i soldi dei rimborsi compravano un po’ di tutto: briglie per il cavallo e spumante inclusi.  Il 14 luglio 2014 c’erano stati 14 patteggiamenti, quattro condanne e 25 rinvii a giudizio per la Rimborsopoli. Oggi quegli imputati che avevano scelto il rito ordinario sono stati giudicati. Ad aprile 2014 Cota aveva restituito al consiglio regionale 32mila euro di rimborsi, ovvero la cifra che gli veniva contestata dalla procura con un’aggiunta del 30 per cento come “compensazione del danno di immagine”. Come lui anche altri esponenti del partito come Elena Maccanti, Giovanna Quaglia, Alessandro Mattioda e l’esponente Ncd Valerio Cattaneo.

Oltre a Cota sono stati assolti Michele Dell’Utri (Moderati),Federico Gregorio, Massimo Giordano, Riccardo Molinari, Paolo Tiramani (Lega Nord), Alberto Goffi (ex Udc), Maurizio Lupi (dei Verdi Verdi, accusato di truffa, ma ha patteggiato per il peculato) e la figlia Sara. Ritenuti innocenti ancheRoberto De Magistris, Rosanna Valle, Girolamo La Rocca, Lorenzo Leardi, Massimiliano Motta e Angelo Burzi, ex consiglieri del Pdl e della formazione di centrodestra Progett’azione. Il collegio ha anche accolto la richiesta dei pm di procedere per falsa testimonianza contro alcune collaboratrici di Giovine, Stara, Giordano e Tentoni.

Ignazio Marino assolto nel processo su scontrini e consulenze della sua onlus: “Mai smesso di credere nella giustizia”

Ignazio Marino assolto nel processo su scontrini e consulenze della sua onlus: “Mai smesso di credere nella giustizia”

Ignazio Marino assolto nel processo su scontrini e consulenze della sua onlus: “Mai smesso di credere nella giustizia”

Giustizia & Impunità
Cadono le accuse di peculato, falso e truffa nelle due inchieste sulle cene da sindaco e le presunte irregolarità per alcune consulenze dell’associazione di cui era presidente. La Procura aveva chiesto 3 anni e 4 mesi. L’ex primo cittadino: “E’ stata finalmente ristabilita la verità, ora qualcuno si guardi allo specchio per capire se ha la statura dello statista”

di  | 7 ottobre 2016
L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino è stato assolto dall’accusa di peculato, truffa e falso nell’ambito del processo sul caso scontrini e le consulenze della Onlus Imagine. La procura aveva chiesto una condanna a tre anni e quattro mesi. Marino è stato assolto dalle due accuse rispettivamente “perché il fatto non sussiste” (le cene) e “perché non costituisce reato” (le consulenze). “Sono felice me lo aspettavo, sapevo di essere innocente” commenta Marino lasciando il tribunale. “Di fronte ad accuse così infamanti di media e politica molto pesanti è stata finalmente ristabilita la verità”. In una conferenza stampa Marino ha detto che “il conto di certe azioni le paga il Paese, soprattutto quando riguardano la Capitale di Italia. Qualcuno ora si dovrebbe guardare allo specchio e capire se ha la statura di statista e farsi un esame di coscienza“. La sfida con i vertici del Pd è frontale: “Le scuse di qualcuno che ha fatto un’offesa, e non parlo del premier o dell’illuminato commissario del Pd, richiedono capacità di analisi ed onestà intellettuale in base di questo uno deciderà se scusarsi o no”.

Ma cos’è successo nel 2015 per Marino è chiaro: “Siamo ad un anno di distanza dal momento in cui mi dimisi (dimissioni poi ritirate,ndr), sotto le pressioni politiche e mediatiche offensive gravissime e infanganti. Centinaia di migliaia di romani sono stati violentati da un piccolo gruppo di una classe dirigente che si è rifugiata nello studio di un notaio, invece che presentarsi in aula e spiegare se avevano o meno fiducia del loro sindaco”. Nessuno dai vertici del Pd lo chiama. Lo fanno invece, secondo il Messaggero, Massimo D’Alema e l’ex sindaco Walter Veltroni.

“Sono un chirurgo, non uno psicologo” ironizza per dire che non sa perché il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è rifiutato di parlare con lui. “Intelligenza politica e strategica al momento in cui è stata avviata l’inchiesta Mafia Capitale e indetto il Giubileo straordinario“, avrebbero voluto un comportamento diverso, ha fatto notare. “Invece, in entrambi i casi il presidente del Consiglio – ha aggiunto – si è rifiutato di parlare con il sindaco della Capitale, mi sono molto interrogato, ma sono un chirurgo e non uno psicologo”.

Orfini: “Marino via per incapacità, non per scontrini”
La questione si fa politica, soprattutto per il Pd che ha fatto cadere il proprio sindaco, oltre un anno fa. E a essere chiamato in causa è soprattutto il presidente del partito e commissario a Roma Matteo Orfini: “Quando avevamo condannato l’episodio degli scontrini – spiega – speravo che Marino dimostrasse la sua innocenza. Sono contento che sia stato assolto. Noi non abbiamo mai chiesto le dimissioni di Marino per la vicenda degli scontrini, voglio ricordarlo, ma per la sua totale incapacità di gestire la città di Roma. Fu Sel a presentare una mozione di sfiducia per quel motivo. Noi siamo un partito garantista“. “Ancora oggi – aggiunge Orfini  -dico che le dimissioni dei consiglieri furono un atto assolutamente giusto. È ovvio oggi che i problemi di Roma sono figli del fatto che c’è un sindaco che in 100 giorni non ha fatto nulla ma anche del fatto che per due anni e mezzo prima noi non siamo riusciti a risolverli. Adesso stiamo lavorando bene all’opposizione e cerchiamo di ricostruire un progetto di riforma della città”.

Marino risponde a Orfini così: “Non me la sento di commentare parole che appartengono più ai libri di Collodi che alla realtà drammatica che la nostra città ha vissuto in questo ultimo anno”. L’ex sindaco rivendica: “La mia giunta ha chiuso Malagrotta, ha aperto nuove fermate della metropolitana ed ha avviato un piano di rientro e potrei fare molti altri esempi. Durante la mia giunta ildebito pubblico di Roma è sceso di 12mila euro al giorno se questo non vuol dire ben governare…”.

La base Pd contro Orfini: “Hai consegnato Roma al M5s”
Ma su facebook e su twitter attaccano soprattutto lui. “Disastro Pd. E lo dice uno che fino ad ora vi ha sempre votato”, “meglio il silenzio”, “commissario questa te la potevi risparmiare”. Un utente, Giancarlo, gli scrive: “Caro Orfini, hai consegnato Roma nelle mani dei 5 stelle invece di aiutare il tuo compagno di partito. Dovresti vergognarti e abbandonare la politica per sempre”. Orfini gli risponde: “Roma ai grillini l’hanno consegnati quelli che si sono fatti coinvolgere nelle vicende corruttive e un sindaco incapace”. “C’era spazio per continuare e tu lo sai – ribatte Giancarlo – Hai solo obbedito al tuo capo di partito per vicende di rapporti di forza interna. Adesso ci teniamo la Raggi per 5 anni per colpa vostra”. “Ho provato a continuare per un anno. Di più era impossibile”, la risposta di Orfini. Un altro utente, Stefano punta il dito: “Voi avevate l’obbligo di difenderlo e non l’avete mai fatto! A partire dalla Panda Rossa“. E il commissario replica: “Veramente non ho fatto altro per più di un anno”. Per Maria Luisa “una sola parola” si deve “scrivere: scusa”.

Di Maio: “L’immoralità di alcune vicende resta”
Si distingue, nell’opposizione diventata maggioranza in Campidoglio, la posizione di Luigi Di Maio, membro del direttorio dei Cinque Stelle. Secondo Di Maio l’assoluzione del tribunale non basta perché, dice all’Ansa, “non discute l’immoralità di alcune cose. C’è una questione legata alla magistratura, poi c’è una questione precedente, sul fatto che, secondo alcuni riscontri, alcune cene fossero state fatte in maniera immorale. Noi ci dobbiamo sempre interrogare non sul fatto se sussista o meno il reato ma se grazie all’inchiesta siamo venuti a sapere di cose non del tutto etiche e allora quella è una vicenda su cui applicare una sanzione politica”.

Secondo Di Maio, che si trova in visita nelle zone del terremoto del 24 agosto, “Marino, se ricorderete, fu dimesso da un notaio ma la stessa vicenda degli scontrini a Firenze è stata totalmente insabbiata dal sindaco Matteo Renzi“.

Le lacrime dopo l’assoluzione
La procura di Roma aveva chiesto per Marino la condanna a 3 anni e 4 mesi. Il processo si è celebrato con il rito abbreviato. Le richieste erano state formulate dai pm Roberto Felici e Pantaleo Polifemo, che si sono occupati rispettivamente della prima e della seconda indagine. “Marino ha pianto in aula” racconta il suo legaleEnzo Musco. Sull’ipotesi di una richiesta danni l’avvocato ha precisato che bisognerà prima aspettare le motivazioni della sentenza. “Ci sono 90 giorni di tempo“, ha ricordato. Il legale ha sottolineato l’onestà di Marino sostenendo che “semmai ha utilizzato il suo denaro per la cosa pubblica e non il contrario”.

Le accuse (cadute)
A essere contestate erano 56 cene tra il luglio del 2013 e il giugno del 2015, per complessivi 12.700 euro pagati con la carta di credito in dotazione all’allora primo cittadino ma consumate, secondo gli inquirenti, “generalmente nei giorni festivi e prefestivi, con commensali di sua elezione, comunque la difformi della funzione di rappresentanza dell’ente”. Sempre secondo l’accusa, respinta però oggi dal tribunale, Marino aveva dato disposizioni alla sua segreteria perché “inserissero indicazioni non veridiche”. Quanto alla onlus “Immagine”, della quale Marino fu presidente, l’ipotesi – anche questa scartata dai giudici – era che fosse stata truffatal’Inps. La struttura, che si occupava di aiuti sanitari a Paesi in via di sviluppo, avrebbe messo in atto delle assunzioni fittizie tra il 2012 e il 2014, con soggetti inesistenti per un guadagno ritenuto ingiusto di circa 6mila euro. Per questo processo, a parte Marino, sono stati rinviate a giudizio altre tre persone: Carlo Pignatelli,Rosa Garofalo e Federico Serra.

E’ boom di imprese straniere nel commercio: +7mila nel 2016.

E’ boom di imprese straniere nel commercio: +7mila nel 2016. Ma spariti 5mila negozi

E' boom di imprese straniere nel commercio: +7mila nel 2016. Ma spariti 5mila negozi
di Adnkronos

 

Roma, 8 ott.(AdnKronos) – E’ boom di imprese straniere in Italia: oltre 7mila aziende non italiane hanno aperto i battenti nel 2016. Un dato che non basta però a fermare la desertificazione delle attività commerciali: più di 2 mila le imprese che hanno chiuso nel corso dell’anno mentre oltre 5 mila negozi sono ‘spariti’. E’ una indagine dell’Osservatorio di Confesercenti a fotografare l’affanno in cui versa il commercio al dettaglio. Tra i settori di punta degli stranieri moda, tessile, frutterie; in crescita gli ambulanti. Secondo l’indagine di Confesercenti, dunque, ad agosto 2016 le imprese straniere nel settore superano le 160mila, il 18,5% del totale con un aumento di circa 7mila attività rispetto allo stesso periodo del 2015. Ma questo boom non basta a fermare “la desertificazione” incombente: nello stesso periodo, infatti, il settore perde complessivamente quasi 2mila imprese, con un vero e proprio crollo dei negozi: il commercio in sede fissa registra infatti la sparizione di oltre 5mila attività. La crescita di imprese a titolarità estera è infatti concentrata soprattutto nel commercio ambulante, dove gli imprenditori non italiani sono oramai diventati la maggioranza: ad agosto 2016 le attività guidate da stranieri sono 103mila, il 53,1% del totale ed il 4,9% in più rispetto allo scorso anno. Particolarmente alta l’incidenza degli imprenditori stranieri tra i banchi dedicati al commercio di tessile e moda (66%). Anche nel commercio al dettaglio in sede fissa, gli stranieri preferiscono moda e tessile: in questa tipologia, infatti, circa 9 imprese su 100 sono straniere, per un totale di oltre 11.500 attività. A crescere più velocemente, però, sono le frutterie non italiane, in aumento dell’11,8% nell’ultimo anno. Si registrano aumenti consistenti anche per le imprese straniere attive nel commercio di apparecchiature informatiche e per le telecomunicazioni (+11,2%), nei negozi di ferramenta e costruzioni (+6,4%), nelle macellerie (+6,8%) e nell’alimentare in generale (+6,3%). In diminuzione, invece, i negozi di articoli sportivi (-2,1%) e di giochi e giocattoli (-0,3%). Rimane sotto i livelli medi, invece, il dinamismo dell’imprenditoria straniera nel commercio al di fuori dei banchi e dei negozi. In questo comparto, che include la vendita porta a porta, quella via posta e l’eCommerce, la presenza di imprese non italiane è consistente, quasi una su tre, ma la crescita nell’ultimo anno è stata praticamente nulla (solo 95 attività in più), contro un aumento complessivo di 1.300 attività (+3,5%). Anche dal punto di vista dell’occupazione, si legge ancora nel Report Confesercenti, le imprese straniere si confermano più dinamiche della media: secondo le stime dell’Osservatorio ad agosto 2016 il settore del commercio registra oltre 1.752.488 addetti, circa 36mila in più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Ma anche in questo caso gli addetti delle imprese non italiane crescono ad un ritmo circa sette volte superiore (+8,7%) a quello della media del settore (+1,7%). Ma il dinamismo pur positivo nasconde criticità importanti: le imprese guidate da titolari non italiani, infatti, spiega Mauro Bussoni, segretario generale di Confesercenti, hanno un ciclo di vita notevolmente più breve della media del settore. Oltre un terzo delle attività, spiega ancora, “chiude entro i due anni dall’apertura perché investono poco, come dimostra la concentrazione di stranieri in attività marginali, come nel caso delle frutterie, o comunque destrutturate, come il comparto del commercio su aree pubbliche, in cui l’avvio di impresa ha un costo notevolmente inferiore rispetto a quelli di un negozio tradizionale”. Non solo. “L’imprenditoria straniera nel commercio ambulante, poi, presenta anche gravi segnali di irregolarità”, denuncia ancora Bussoni che ricorda come dall’analisi delle banche dati Inps emerga come quasi 100mila imprese di commercio su aree pubbliche, di cui più di 70mila (l’83%) a titolarità straniera, non abbiano mai versato un contributo negli ultimi due anni.

Ha vissuto la prigione come un paradiso. E ora torna libera. I misteri di Lady Gucci

Ha vissuto la prigione come un paradiso. E ora torna libera. I misteri di Lady Gucci

Dopo 19 anni nel carcere di San Vittore a Milano, Patrizia Martinelli Reggiani torna in libertà. Secondo i giudici fu la mandante dell’omicidio di Maurizio Gucci

Ha vissuto la prigione come un paradiso. E ora torna libera. I misteri di Lady Gucci
di Luciano Tancredi

Il carcere di San Vittore a Milano le piaceva chiamarlo “Saint Victor”, in ricordo degli anni d’oro passati tra Sankt Moritz e Saint Tropez. E così l’ha vissuto, come se la prigione fosse il paradiso felice dove riposarsi dalle ostilità e dalla cattiveria del mondo fuori. Dopo 19 anni in quella cella, oggi Patrizia Martinelli Reggiani ha espiato la sua pena e torna, da donna libera, in quella Milano da bere di cui è la figlia reietta. Una condanna ormai consumata, che, a suo avviso, era  legittima per i tribunali che l’hanno riconosciuta colpevole di essere la mandante dell’omicidio di Maurizio Gucci, suo marito adorato, suo ex tanto odiato. Ma non legittima per lei che, invece di innocente, ha preferito definirsi “non colpevole”, rifiutando l’accusa di una concreta commissione (sotto lauta ricompensa) dei colpi di pistola sparati dal sicario che, il 27 marzo del 1995, ha servito la morte all’erede del marchio delle doppie G sulle scale di marmo di quel palazzo di via Palestro.

A 67 anni Lady Gucci è sempre lei, “bella come Liz Taylor”, come l’aveva definita Maurizio la prima volta che la incontrò, all’alba degli Anni Settanta ad un party dell’alta società meneghina, mentre si muoveva sinuosa tra gli invitati, avvolta in un abito rosso intenso. Sono i dettagli che Patrizia non dimentica. Ogni particolare di quell’amore da favola è inciso a fuoco nella sua mente, un incantesimo divampato in incendio, quando nel 1985, dopo 13 anni di matrimonio, Maurizio la lascia per dedicarsi a quella vita più leggera ed effimera (e anche a molte altre donne) che in giovinezza gli era stata negata dal padre Rodolfo Gucci, educatore troppo austero, scomparso due anni prima.

Che Patrizia l’avesse sposato solo per arrampicarsi ostinatamente verso i vertici, per entrare a pieno titolo in quel circolo ristretto di scialacquatori di ricchezze e per occupare le copertine patinate dei rotocalchi, non possiamo dirlo. Solo il suo cuore lo sa. Quello che è certo, nella verità giudiziaria, è che la fine di quell’amore non l’ha accettata mai, fino a perdere ogni controllo del pudore e straparlare di lui e delle sue “cattiverie” con chiunque ne avesse occasione. “Lo voglio morto” andava ripetendo in un peregrinare tra amici e conoscenti, “Se lo faccio fuori cosa mi succede?”, si era informata presso il suo avvocato. Aveva persino offerto un miliardo di lire a due membri della sua servitù se avessero fatto il lavoro sporco, senza però trovare sponda nelle coscienze degli incaricati.

Per dodici lunghi interminabili anni di sofferenza, la Gucci ha covato il rancore più nero. Il suo principe azzurro era diventato un orco abietto che, con la separazione, non solo le aveva portato via quei beni di lusso, tra cui numerosi immobili in Italia e all’estero (come l’adorata casa di New York), ma rifiutava persino i rapporti con le figlie per le quali ormai era diventato solo una voce al telefono con cadenza trimestrale e l’aveva lasciata sola anche nella sofferenza di un tumore al cervello. E’ in quel momento di malata ossessione, che in questa storia d’amore e odio, degna di una sceneggiatura di Hitchcock, interviene l’elemento magico: Pina Auriemma, cartomante partenopea, che lentamente si insinua nella vita di Patrizia, offrendole una spalla per piangere prima e una pistola per sparare dopo.

Ma andiamo per gradi. Auriemma e Reggiani si incontrano grazie ad un’amica in comune durante un soggiorno ristorativo alle terme napoletane. C’è feeling tra le due, che in seguito si scambiano telefonate di cortesia e s’incontrano saltuariamente. Fino a quando l’Auriemma invoca l’intermediazione della Reggiani per avere (in dono o sotto legittimo pagamento, non è chiaro) la benedizione di Maurizio per l’apertura di un punto vendita Gucci a Napoli. L’avventura da imprenditrice della cartomante naufraga dopo poco. Pina, stretta dai debiti, fugge dal sud per rifugiarsi a Milano, in quell’albergo pagato dall’amica, che le elargiva denaro in cambio di sostegno morale nell’atroce sofferenza di una donna abbandonata. Trasferimenti bancari che, ad un certo punto, secondo gli atti del processo, diventano la testimonianza più solida della taglia che Reggiani aveva fissato sulla morte del marito.

Aveva chiesto a tutti, Patrizia, la “cortesia” di eliminare Maurizio Gucci dal mondo dei vivi e solo nell’Auriemma aveva trovato sostegno. La cartomante rintraccia Ivano Savion, organizzatore dell’omicidio, che ingaggia Orazio Cicala e Benedetto Ceraulo per l’esecuzione materiale del delitto. Gli spari, quel giorno di marzo, portano via Maurizio a 47 anni. Ma, se non fosse stato per l’intervento di un fortuito informatore della polizia, mai si sarebbe giunti a quelle intercettazioni che, in una scalata piramidale, hanno condotto a lei, Patrizia, l’ex moglie committente di morte.

Ora che la pena è scontata, Patrizia Reggiani resta sempre lei, donna  di cultura e galateo, adornata in abiti d’alta sartoria e decorata da un trucco impeccabile. Torna dalle sue figlie, che non hanno mai smesso d’amarla. Si è lasciata fotografare un paio d’anni fa in via Monte Napoleone, quando con la libertà vigilata si è messa a lavorare (esperienza a lei fino a quel momento sconosciuta) come designer della linea di borse Bozart. “Non vivo nel passato: la vita deve ancora concludersi, dobbiamo aspettarci sempre cose nuove”, ha dichiarato.  Come se la detenzione l’avesse messa finalmente in pace con i suoi tormenti.

Colombia, anche le Farc meritavano il Nobel

Colombia, anche le Farc meritavano il Nobel

Colombia, anche le Farc meritavano il Nobel

Mondo
di  | 8 ottobre 2016

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Chissà: forse ha ragione Ingrid Betancourt – che della guerriglia colombiana fu, lungo sette durissimi anni di prigionia, una delle vittime più internazionalmente conosciute – quando afferma che, per equità, il premio Nobel avrebbero dovuto assegnarlo a tutte le parti coinvolte nei negoziati di pace. Ovvero: al presidente Juan Manuel Santos ed a Rodrigo Londoño Echeverri, aliasTimoleon Jiménez, alias “Timoshenko”, l’attuale leader delleFarc, l’uomo che, lo scorso 26 di settembre, nel corso d’una solenne cerimonia benedetta dall’intero pianeta, firmò insieme a Santos, la “pace che non fu”. E che non fu – per il proverbiale “soffio”, è vero, ma per un soffio arrivato con la forza d’un uragano – perchérespinta dal popolo (se così si può chiamare il 37% andato alle urne) che di quella pace doveva essere il primo beneficiario.

O forse proprio così – “Nobel alla Pace che non fu” – avrebbero dovuto ribattezzare quel premio, magari ricordando le non poche altre e premiate “paci” che non furono (su tutte quella del Medio Oriente, premiata con gli allori assegnati a Yasser Arafat,Shimon Peres e Yitzhak Rabin nel ’94, nonché, più recentemente, quella, mai arrivata, per la quale venne troppo frettolosamente premiato Barack Obama nel 2009). O forse no. Forse la cosa migliore sarebbe stata capovolgere il titolo del premio per assegnarlo, col sinistro nome di “Nobel per la Guerra”, al sinistro personaggio che, con più costanza ed efficacia, ha negli ultimi quattro anni (tanti quanti sono stati gli anni del negoziato) contrastato ed infine bloccato il processo di pace in Colombia: l’ex presidente Alvaro Uribe, oggi prepotentemente tornato, grazie al risicato trionfo dei “no” nel referendum pro o contro gli accordi di pace, grande protagonista della vita politica colombiana. O, ancor meglio: oggi diventato, grazie a quel 50,2 per cento di “no”, vero arbitro della summenzionata “pace che non fu” (e che inevitabilmente non sarà dovessero continuare a prevalere i sentimenti di rancore e di paura che, la scorsa domenica, hanno determinato la sconfitta d’un “sì” alla pace dato troppo precipitosamente per scontato).

 

Su un punto Ingrid Betancourt ha tuttavia sicuramente ragione: un premio Nobel “compartito” – vale a dire: contemporaneamente assegnato al presidente Santos e alle Farc – avrebbe in qualche modo contribuito a chiarire l’equivoco che più d’ogni altro ha finito per spostare, specie lontano dai teatri di guerra, l’ago della bilancia in direzione del “no”. O, se si preferisce, a riassegnare il suo vero valore e la sua vera nobiltà, alla parola giustizia della quale Uribe e tutti i nemici del trattato di pace concluso all’Avana e firmato aCartagena si sono vittoriosamente appropriati.

Questa pace, è stato il più vincente dei loro slogan, non può essere accettata perché è una “pace senza giustizia”. E perché questa pace senza giustizia – idea ridicola sul piano dei fatti, ma efficacissima sul piano della propaganda – altro non era che la premessa d’una trasfigurazione “castrochavista” della Colombia, il punto di partenza d’un processo che avrebbe “inevitabilmente” e rapidamente portato il paese verso una replica dei regimi al potere aCuba e nel Venezuela.

Alla base di questa tesi, come ho sottolineato in un precedente post, c’è una grossolana menzogna storica (grossolana, ma efficace particolarmente tra i colombiani che meno direttamente hanno vissuto l’esperienza della guerra). La stessa menzogna che -sull’onda del fallimento d’un altra trattativa di pace, quella passata agli archivi come “del Caguan” – spiega gli otto anni (2002-2010) della presidenza di Uribe. Una menzogna che artatamente disegna una Colombia nella quale tutte le colpe e tutti i crimini della guerra civile che per oltre mezzo secolo (o, più propriamente, da sempre) affligge la Colombia, sono esclusiva responsabilità delle Farc. Ragione per la quale senza una esemplare punizione per le Farc non può esservi pace di sorta. Falso.

Tutte le analisi e tutte le statistiche rammentano infatti due ovvie verità. La prima: come la guerra sia (basta, per capirlo, aver lettoCent’anni di solitudine) un male storico della Colombia, una sorta di malattia cronica le cui radici affondano nella realtà (o più propriamente nella terra, data la centralità della questione agraria) di ataviche ingiustizie e di una democrazia incompiuta. Laseconda: come la stragrande maggioranza dei crimini di guerra – spesso perpetrati con incredibile ferocia – siano da attribuire (in un rapporto, grossomodo, di cinque a uno) non alla guerriglia, ma alle forze, regolari o irregolari, al servizio dello Stato.

È di questo Stato – uno Stato che fu (è) anche di Juan Manuel Santos – che Alvaro Uribe, il potenziale premio Nobel per la Guerra, resta l’espressione. E fu come espressione di questo Stato che, nel 2005 – cosa questa che oggi sottolinea la macabra ipocrisia della sua sete di giustizia – il medesimo Uribe concesse ai macellai delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia, le feroci formazioni paramilitari antiguerriglia) privilegi molto più ampi di quelli che il trattato oggi respinto concede ai combattenti delle Farc.

Ovvia domanda: riuscirà ora questo Nobel giunto da lontano – o da vicino, visto che la Norvegia è stata uno dei paesi “garanti” del processo di Pace – a dare una mano a quanti cercano oggi di mantenere in vita il processo di pace sconfitto nelle urne? Parafrasando una celebre massima gramsciana: l’ottimismo della volontà risponde con un timido sì. Il pessimismo dell’intelligenza tace. Ma sperare, come si dice, non costa nulla.

Uragano Matthew, 900 morti ad Haiti

Uragano Matthew, 900 morti ad Haiti. Cala intensità ma resta alta l’allerta negli Stati Uniti. Dieci vittime tra Florida, Georgia e North Carolina

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Mondo
Declassato a categoria 2, il ciclone ha investito la costa sudorientale degli Usa. I venti soffiano a 175 km orari, e si fa alto il rischio legato alle mareggiate. Centinaia di migliaia le abitazioni rimaste senza corrente. Nel Paese caraibico, intanto, è crisi umanitaria: strutture di soccorso al collasso e timore per una esplosione di colera

di  | 8 ottobre 2016
L’uragano Matthew s’indebolisce, ma continua a minacciare gli Stati Uniti. Dopo aver devastato Haiti, dove ha causato quasi 900 morti e la più grande crisi umanitaria dai tempi del terremoto del 2010, il ciclone ha raggiunto gli Stati meridionale della east coast, dove ha già causato 10 vittime. Tre persone hanno perso la vita nel North Carolina, altre 3 in Georgia e 4 in Florida.

Anche se è stato declassato a categoria 1 su una scala di 5, Matthew continua ancora a essere considerato “un uragano mortale”: così lo ha definito il governatore del North Carolina, Pat McCrory. Dopo aver investito la Florida nella giornata di sabato, Matthew si dirige verso nord. Il ciclone ha provocato inondazioni record nel North Carolina anche se bisognerà attendere le prossime ore per poter quantificare i danni. L’allarme rimane comunque alto: agli abitanti degli Stati interessati dal passaggio dell’uragano è stato chiesto di prendere precauzioni. L’ultimo aggiornamento del National Hurricane Center afferma che l’uragano si trova a 48km sud-sudovest da Cape Hatteras, nel North Carolina, con venti a 120km orari.

Ad Haiti, intanto, continua l’aggiornamento del bilancio dei morti e dei danni causati dall’uragano. Il conteggio delle vittime è salito fino a quota 900, ma le autorità locali temono che le vittime possano esserepiù di mille. Grande emergenza è quella legata all’acqua, che in molte parti del Paese risultlera,  che in queste ore avrebbe già ucciso 7 persone: l’epidemia è già presente ad Haiti, ma ora potrebbe diffondersi ulteriormente. L’allarme è stato lanciato, in queste ore, anche dall’Unicef: “Fiumi in piena, acque stagnanti e cadaveri umani e di animali sono un terreno perfetto per le malattie trasmesse dall’acqua – ha detto Marc Vincent, rappresentante Unicef ad Haiti – Ogni giorno che passa aumenta la minaccia del colera. Siamo in una corsa contro il tempo per raggiungere questi bambini prima che lo facciano le malattie”. Le strutture di emergenza, intanto, sono al collasso: alcune risultano gravemente danneggiate, altre sono sovraccariche di feriti.