Google e Mastercard, quali sono i rischi dell’accordo segreto

Google e Mastercard, quali sono i rischi dell’accordo segreto

Google e Mastercard, quali sono i rischi dell’accordo segreto

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Giornalista, scrittore e docente universitario
Le nuove generazioni non sono state accompagnate dalle fiabe delle nonne ma sanno che non devono temere l’orco cattivo. Devono forse preoccuparsi di nuovi (e apparentemente innocui) mostri che non hanno fattezze disgustose ma ugualmente incutono timore perché non si limitano a mangiare i bambini ma fagocitano la libertà anche dei più grandi. È la storia di Store Sales Measurement, nome difficile per gli appassionati di favole, nome terribile se si capisce che non parliamo di racconti inventati. È il piano operativo (con il conseguente servizio offerto alla propria clientela) per monitorare gli acquisti nei negozi e si prospetta come strumento di valutazione dell’efficacia delle campagne pubblicitarie. Potrebbe sembrare innocuo ma se lo si guarda più da vicino ci si accorge che – sotto uno smalto colorato – non ha semplici unghie ma veri e propri artigli.

Parliamo di una delle tante invenzioni di Google, il colosso della Rete che al motore di ricerca ha affiancato una serie di opportunità a pagamento per chi vuole affermarsi sul rispettivo mercato. Niente di nuovo, ma quel che ha richiamato l’attenzione del mondo intero non è la semplice scoperta della “benzina” che alimenta la macchina (tutti sanno che sono i “dati personali”) ma piuttosto la precisa localizzazione di un distributore dove il serbatoio viene rifornito.

L’ultimo pieno di carburante sarebbe stato fatto da Google presso una sorta di area di servizio che si presenta in realtà come un inesauribile pozzo petrolifero. Parliamo infatti dell’accordo segreto (anche se ormai noto a tutti) tra Google e Mastercard, agreementche avrebbe permesso di metter mano a miliardi di transazioni ognuna delle quali completa di identificazione del soggetto interessato, del prodotto acquistato o del servizio fruito, del commerciante e della sua localizzazione. Tale grande massa di dati consente di capire se gli investimenti nella promozione di una determinata merce hanno colto nel segno. Ma solo quello?

Prima di esclamare l’immancabile “echissenefrega” che caratterizza la normale reazione a comunicazioni di questa sorta, vale la pena riflettere almeno un istante sulle conseguenze di un simile patto sulla pelle dei consumatori. Incroci e intrecci di dati permettono le schedature più diverse, dando luogo a una catalogazione puntuale e infallibile di qualunque cittadino che si ritrova nudo e indifeso dinanzi a chi sta radiografando capacità di spesa, gusti, interessi, preferenze, spostamenti e magari convinzioni e opinioni.

Penso con terrore agli altri accordi stipulati magari con una catena di supermercati. La grande distribuzione – anche senza fidelity card – conosce perfettamente i nostri consumi e l’abbinamento con una carta di credito riconducibile a una persona in carne e ossa fa subito scattare una profilazione dettagliatissima. Nessuno è più destinato ad avere segreti. Immagino – vale la pena riderci sopra – chi soffre di stitichezza e che adesso sa che il suo problema (di cui non ha fatto parola nemmeno con i parenti più stretti) è minuziosamente conosciuto persino dai supertecnici che lavorano a Mountain View in California.

Tutto comincia con lo scontrino della spesa in cui è manifesto l’elenco delle cose comprate con evidenza dei relativi quantitativi. Più scontrini in sequenza consentono di elaborare statistiche sulla frequenza degli acquisti di un certo tipo e quindi dei corrispondenti consumi. La ripetuta assenza di rotoli di carta igienica e l’abbondanza di confezioni di prugne secche o di altri prodotti lassativi naturali equivale a una specie di sentenza inappellabile.

A chi chiede consiglio, se ne possono dispensare a iosa. In primo luogo è bene smettere di pagare alla cassa con la carta di credito (o almeno con Mastercard), poi potrebbe risultare opportuno comprare ugualmente qualche rotolo magari da regalare ai vicini di casa o a qualche amico che (sapendo di questa schedatura e temendo al contrario di esser riconosciuto come troppo assiduo frequentatore della toilette) potrebbero esser grati per un simile economico ma fondamentale cadeaux. Il terzo suggerimento, mi si perdoni, è forse quello di mandare a c***** quelli che speculano sulla nostra privacy.

Viganò, il “Savonarola di Varese”

Viganò, il “Savonarola di Varese” che conosce i dossier che contano: dall’esilio in Usa allo scontro con Bergoglio

Viganò, il “Savonarola di Varese” che conosce i dossier che contano: dall’esilio in Usa allo scontro con Bergoglio

Chi ha lavorato fianco a fianco con Viganò in Segreteria di Stato lo racconta come un uomo scrupoloso, preparato e immerso nel lavoro. Gli scontri all’interno della Santa Sede sono coincisi con l’arrivo di Bertone al vertice della Segreteria di Stato. E col pontificato di Francesco i dissidi sono proseguiti

Qualcuno lo ha perfino definito il “Savonarola di Varese”. In effetti monsignor Carlo Maria Viganò, l’ex nunzio negli Stati Unitiche ha chiesto le dimissioni di Papa Francesconon accenna ad abbassare i toni nei confronti di BergoglioMa dal Vaticanoprosegue la linea del silenzio. Il nome di Viganò balza alle cronache durante lo scandalo Vatileaks 1, nel 2012, quando, tra i tanti documenti riservati di Benedetto XVI resi pubblici, ci sono anche alcune lettere del nunzio.

Nato a Varese nel 1941, il diplomatico viene ordinato prete nel 1968 e incardinato nella diocesi di Pavia. Da lì è un’ascesa continua. Viganò frequenta la Pontificia accademia ecclesiastica che forma i sacerdoti destinati al servizio diplomatico della Santa Sede nelle nunziature di tutto il mondo e nella Segreteria di Stato. L’uomo si fa subito notare e stimare e viene chiamato dall’allora sostituto, ovvero il ministro dell’Interno vaticano, monsignor Giovanni Benelli, come suo segretario insieme con l’argentino Leonardo Sandri, oggi cardinale prefetto della Congregazione per le Chiese orientali. Sono gli anni di Paolo VI di cui Benelli era allievo ed erede e al quale avrebbe dovuto succedere nei due conclavi del 1978.

Chi ha lavorato fianco a fianco con Viganò in Segreteria di Statolo racconta come un uomo scrupoloso, preparato e immerso nel lavoro. Nel 1989 Giovanni Paolo II lo nomina osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa. Nel 1992 sempre Wojtyla lo nomina arcivescovo, ordinando personalmente a San Pietro, e lo invia come nunzio apostolico in Nigeria. “La Chiesa invia te, monsignor Carlo Maria Viganò, – gli dice Giovanni Paolo II nell’omelia – quale pro-nunzio apostolico in Nigeria, col compito di farti testimone della solidarietà ecclesiale verso le giovani Chiese di quella grande nazione africana, condividendo con esse la gioia dell’annuncio evangelico”. Dopo 6 anni, nel 1998, il Papa polacco lo richiama a Roma affidandogli il prestigioso incarico di delegato per le rappresentanze pontificie nella Segreteria di Stato. Un osservatorio privilegiato dal quale Viganò ha la regia di tutte le nunziature del mondo. È qui che il diplomatico ritrova monsignor Sandri che, dal 2000 al 2007, a cavallo dei pontificati di WojtylaRatzinger, ricopre il ruolo di sostituto.

Per Viganò, però, lo scenario cambia completamente con l’arrivo del cardinale Tarcisio Bertone al vertice della Segreteria di Stato al posto di Angelo Sodano. Tra i due, infatti, gli scontri sono sempre più frequenti tanto da convincere il porporato salesiano a far trasferire il nunzio come segretario del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. È qui che Viganò, ancora una volta, si fa valere e risana una situazione di deficit e corruzione gigantesca. Il nunzio si trova bene a lavorare in tandem con il cardinale Giovanni Lajolo che, come lui, dallaSegreteria di Stato è stato trasferito al Governatorato come presidente. Viganò non nasconde la sua speranza di succedere a Lajolo, nato nel 1935, e di essere nominato cardinale da Benedetto XVI. La sua speranza, però, va in frantumi quando Bertone decide di allontanarlo da Roma e, alle fine del 2011, lo fa nominare da Ratzinger nunzio a Washington.

Viganò fa di tutto per non partire. Chiede di essere ricevuto da Benedetto XVI e cerca di resistere all’esilio negli Usa dicendo che in questo modo il suo lavoro di moralizzazione del Governatoratoandrà in fumo in un solo colpo. “Beatissimo padre, – scrive ViganòRatzinger – un mio trasferimento dal Governatoratoprovocherebbe profondo smarrimento in quanti hanno creduto fosse possibile risanare tante situazioni di corruzione”. Il nunzio arriva perfino a chiedere al Papa tedesco di rimandare la sua partenza perché deve assistere il fratello sacerdote malato. Eppure i due non si parlano da diversi anni per malumori legati a una loro eredità. Benedetto XVI non torna indietro sulla sua decisione per non sconfessare Bertone e Viganò è costretto a partire. Negli Usala relazione con i vescovi americani è abbastanza buona.

Intanto, a Roma Benedetto XVI si dimette e gli succede il latinoamericano Bergoglio. Il nunzio confida in un ritorno in Vaticano da vincitore, magari con la porpora tanto agognata. C’è chi parla di un vero e proprio “risarcimento”. Nel 2015 il viaggio di Francesco negli Stati Uniti è un trionfo. L’accoglienza alla Casa Bianca con l’allora presidente Obama, il discorso al Congresso Usa che per la prima volta accoglie un Papa e quello all’Onu sono un successo. Bergoglio, come prassi, è ospite del nunzio apostolico Viganò che spera di aver messo il sigillo definitivo sul suo rientro a Roma. E soprattutto di aver finalmente conquistato la berretta rossa. Ma il Papa non lo sposta da Washington, né lo nomina cardinale, e al compimento dei 75 anni, l’età canonica delle dimissioni, si limita a mandarlo in pensione.

Il nunzio rientra in Vaticano dove, a Santa Marta Vecchia, un edificio accanto alla residenza di Bergoglio, aveva mantenuto il suo appartamento portandosi le chiavi negli Usa. Ma Francescovuole che lo lasci e gli fa sapere che non gradisce nemmeno che vada ad abitare nella residenza dei nunzi a riposo, a via dell’Erba, una traversa di via della Conciliazione, a due passi da San Pietro. Un esilio nell’esilio. Viganò è doppiamente ferito e, secondo alcuni stretti collaboratori del Papa, medita la vendetta da servire ovviamente fredda. In molti nella Curia romana sottolineano che è di certo uno che ha i dossier che contano e che, per gli incarichiche ha svolto in oltre 40 anni di servizio diplomatico, soprattutto in Segreteria di Stato, è sicuramente in possesso di informazioni che potrebbero fare molto male a questo pontificato, ma anche ai due precedenti. La partita, insomma, è tutt’altro che chiusa. Anche perché Viganò, che è già intervenuto tre volte per attaccare il Papa e i suoi principali collaboratori, non ha nessuna intenzione di tornare indietro.

Terracina è una città imperialista?

Terracina è una città imperialista?

di supermarco

Pare che a La Fiora, frazione di Terracina, sarà aperto un nuovo CAS (centro di accoglienza straordinaria per migranti), e subito si sono scatenate le polemiche.

Noi non riusciamo a capire.

Ci siamo posti delle domande.

È una questione di razzismo?

Non ci pare.

Terracina e l’Italia sono piene di stranieri.

Addirittura, sul nostro territorio nazionale ospitiamo circa 15.000 stranieri (se il dato è corretto) che sono armati fino ai denti, con elicotteri, aerei, navi a propulsione nucleare, persino con bombe atomiche, eppure pochissimi si lamentano della loro presenza. Si trovano anche vicino Terracina: spesso, infatti, attraccano a Gaeta.

Soprattutto, non se ne lamentano coloro che si fanno un vanto dell’italianità. Ci riferiamo ai politici di Fratelli d’Italia, che si autodefiniscono “patrioti”, e ai politici della Lega, che dello slogan “Prima gli italiani” hanno fatto un ritornello ormai noiosissimo.

Appurato che tali stranieri, presenti sul nostro territorio nazionale, non sono sgraditi, ci siamo chiesti quale sia il motivo per cui sono ben accolti.

Forse perché, con un approccio provinciale (non solo a livello locale, ma anche a livello nazionale), abbiamo bisogno di cani da guardia che ci proteggano?

«Lo dico a papà!».

Ma… sono loro che proteggono noi, o noi che proteggiamo loro?

O, meglio, ci proteggono o ci sfruttano?

In ogni caso, sono stranieri non sgraditi.

Poi abbiamo i tanti turisti russi che hanno comprato casa dalle nostre parti.

Anche questi ultimi sono graditi.

Quindi abbiamo tantissimi stranieri di due precise nazionalità ben presenti sul nostro territorio che non sono sgraditi.

Non è quindi una questione di razzismo.

Allora perché alcune nazionalità non sono gradite?

Escluso il razzismo, l’unica spiegazione possibile è il “censo”: se sei ricco ti accolgo, se sei povero non ti voglio. Una forma di discriminazione legata al benessere.

Ma anche questa spiegazione ci lascia insoddisfatti.

Dalle nostre parti, infatti, ci sono anche tantissimi stranieri poveri, eppure vengono accettati tranquillamente.

Perché?

Ci riferiamo alla foltissima comunità di indiani sikh, dai quali siamo stati letteralmente “invasi” nel corso di pochissimi anni, in quanto lavorano come braccianti nel settore agricolo.

Prima di tutto, perché ciò si è verificato?

Analizziamo il settore nella sua filiera: come molti sapranno, la produzione finisce soprattutto al mercato ortofrutticolo di Fondi oppure in Germania.

Apriamo una parentesi: gli operatori del settore, per sfatare i dubbi circa la qualità dei loro prodotti, si trincerano proprio dietro al fatto che parte della produzione va in Germania: «I tedeschi sono esigenti in fatto di qualità e di controlli». Già, così esigenti che si è visto soprattutto con lo scandalo Volkswagen. Ormai si sono “napoletanizzati” anche i tedeschi, solo che la cattiva fama ce l’abbiamo solo noi italiani…

Chiusa la parentesi, chi si arricchisce dal settore agricolo locale?

Multinazionali, grande distribuzione organizzata, mafie e caporalato.

Agli indigeni rimangono le briciole; tra l’altro, la stragrande maggioranza della manodopera non è italiana.

Lo ripetiamo: perché tutto ciò si è verificato ed in così breve tempo?

La produzione, come detto, va a Fondi.

Uno dei più influenti politici locali ha iniziato come poliziotto, poi è transitato per i servizi segreti e successivamente ha avuto una fulgida e rapidissima carriera politica.

Il passaggio nei servizi segreti, secondo noi, è stato decisivo.

Facciamo un passo indietro.

L’apertura di un CAS viene stabilita dalla Prefettura, organo territoriale del governo, di conseguenza tutto avviene nell’ambito della legalità. Decisione governativa resa esecutiva sul territorio da chi lo rappresenta a livello burocratico-amministrativo.

Lo sviluppo dell’agricoltura industriale nel nostro territorio, invece, non è stato una decisione governativa.

Dato che abbiamo parlato di servizi segreti, è stata più che altro opera del cosiddetto deep state, cioè lo Stato profondo, quella realtà che opera sia al di fuori che all’interno degli ambienti governativi, andando a coinvolgere nelle decisioni realtà esterne al governo stesso, inteso in senso stretto: multinazionali, finanza, media, forze armate, servizi segreti, con la manovalanza mafiosa alla quale di solito viene lasciato il compito di effettuare il lavoro sporco.

Per intenderci, quando il deep state (preferiamo usare la terminologia anglosassone, così il discorso diventa più chiaro ed intellegibile) decide di creare uno Stato satellite al centro del Mediterraneo, arma e finanzia Garibaldi, gli copre le spalle con navi da guerra mentre sbarca a Marsala, gli favorisce l’avanzata prendendo contatti con l’aristocrazia ed i mafiosi locali, anche perché il deep state è già presente nell’isola in quanto sfrutta i giacimenti siciliani di zolfo. Non a caso, a Bronte vengono fucilati 5 braccianti, a pochi passi dai possedimenti agricoli degli eredi dell’ammiraglio Nelson, il vincitore di Trafalgar.

Quando il deep state, 83 anni dopo, decide di invadere la Sicilia, si rivolge a Cosa Nostra per incontrare meno ostacoli ed essere agevolato nella sua avanzata.

Quando il deep state nel 1999 decide di invadere il Kosovo per impadronirsi delle ricchissime miniere di Trepca, inventa fosse comuni e persecuzioni razziali, arma e finanzia i mafiosi locali e procede.

Quando il deep state nel 2001 decide di invadere l’Afghanistan perché i talebani hanno vietato la coltivazione dei papaveri da oppio, materia prima fondamentale per i profitti di Big Pharma, prima uccide chi potrebbe ostacolare i suoi piani, cioè il generale Ahmad Shah Massoud, il “leone del Panshir”, poi si allea con alcuni dei “signori della guerra” locali ed infine procede.

Il generale Massoud ci ricorda un po’ Giulio Andreotti e Bettino Craxi, spariti dalla scena politica italiana nel 1992…

Quindi, ricapitolando, lo sviluppo dell’agricoltura industriale nel nostro territorio è stata una decisione del deep state.

Serviva però una componente fondamentale.

L’ex palude pontina, infatti, è stata spesso sede di esperimenti. La bonifica è stata un grande esperimento riuscito al quale ne è seguito un altro: smaltire l’azoto presente nell’arsenale chimico dopo la fine della prima guerra mondiale utilizzandolo come componente fondamentale dei fertilizzanti.

Successivamente, qualche decennio dopo, è diventato fondamentale ridurre il più possibile le spese della manodopera per essere competitivi sui mercati internazionali.

Dopo alcuni esperimenti falliti con braccianti provenienti dal Maghreb, si è trovata un’etnia docile, quella sikh, che si è aggiunta a degli imprenditori che per ragioni socio-politiche (fatta eccezione per i focosi provenienti dall’Emilia Romagna) non sono soliti mettere in discussione il potere costituito. Si è così creato un mix straordinario che ha favorito l’espansione dell’agricoltura industriale. Con il grosso dei profitti, lo ribadiamo, che sono finiti invariabilmente al di fuori del nostro territorio, a multinazionali, grande distribuzione organizzata, mafie e caporali.

Quindi, torniamo alle presenze di stranieri sul territorio: che cosa rende accettabili le migliaia di indiani, mentre rende intollerabili poche decine di migranti?

La risposta che ci siamo dati è che gli indiani lavorano.

In altre parole, finche gli stranieri sono forti militarmente, va tutto bene.

Finché sono ricchi come i turisti russi, va tutto bene.

Finche sono “schiavi” da sfruttare come gli indiani nei campi, va tutto bene.

Ma quando si tratta di poche decine di migranti che non vengono per lavorare, NON VA BENE.

A questo punto sorge spontanea la domanda: Terracina è una città imperialista?