“I cavi del Morandi sono corrosi”.

“I cavi del Morandi sono corrosi”. Nell’ordinanza le parole dell’ex dirigente di Autostrade

Nelle carte del Gip, che ha disposto sei arresti, la frase in una chat un mese prima del crollo del Ponte di Genova

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“I cavi del Morandi sono corrosi”. Questa frase è datata 25 luglio 2018. Meno di un mese prima della tragedia del crollo del viadotto sul Polcevera. A scriverla è Michele Donferri Mitelli, ex dirigente di Aspi, gli arresti domiciliari da stamattina in seguito a un’inchiesta su alcune barriere autostradali non a norma, per la quale è stato messo agli arresti domiciliari anche l’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci. La frase è stata inserita nell’ordinanza emanata dal gip di Genova questa mattina, nella parte in cui si giustifica la necessità degli arresti domiciliari per Paolo Berti.

L’inchiesta in questione è partita proprio dal crollo del ponte Morandi, ma poi ha seguito un’altra strada. La frase sul viadotto del Polcevera è però contenuta in questo atto perché quella conversazione, ritrovata sul cellulare di Donferri, fu cancellata da Berti subito dopo il crollo del ponte. Certamente, per quanto inserita tra le righe di un atto che si occupa di altro, queste parole aggravano la percezione della gestione di Autostrade. Perché attestano che c’era chi sapeva quanto compromessa fosse la situazione del viadotto crollato il 14 agosto 2018. A causa di quel cedimento, lo ricordiamo, morirono 43 persone.

 

Donferri scrive che i cavi del Morandi sono corrosi rispondendo a un altro indagato, Paolo Berti, che gli chiedeva di iniettare aria deumidificata nei cavi del viadotto Polcevera. Letta la risposta di Donferri, Berti chiosa: “Sti cazzi io me ne vado”.

Ci sono delle altre frasi che rendono ancora più pesante la posizione di Autostrade. Non sono messaggi, questa volta, ma conversazioni tra presenti. È il 2 febbraio 2020 e a parlare sono Giorgio Brunetti e Gianni Mion. Discutono della manutenzione, fatta al ribasso per guadagnare di più. Mion dice: “Il vero grande problema è che le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo e meno facevamo”, si legge. “Sì, daiii”, è la risposta di Brunetti. “Così distribuiamo più utili”, continua Mion, che conclude con un riferimento ai proprietari di Aspi: “E Gilberto e tutta la famiglia erano contenti”.

Stella Egidi (Msf): Sul vaccino è una gara fra ricchi.

Stella Egidi (Msf): “Sul vaccino è una gara fra ricchi, troppo potere alle case farmaceutiche”

“Spesi 12 miliardi di fondi pubblici, desecretare i contratti. Gli Stati facciano cartello o non avranno controllo su prezzi e distribuzione”

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“Oltre 12 miliardi di dollari in fondi pubblici sono stati spesi per la ricerca su 6 vaccini anti-Covid, quelli che più probabilmente saranno disponibili dai primi mesi del 2021. Eppure non sappiamo nulla dei dettagli dei contratti che vengono stipulati dalle autorità pubbliche con le case farmaceutiche: sono segreti. Significa non poter controllare il prezzo delle dosi, per esempio”. Ma il “prezzo” è solo uno degli elementi della ‘storia distorta’ che Stella Egidi, responsabile medico di Medici Senza Frontiere, ci racconta in questa intervista. “Gli Stati dovrebbero fare cartello e ricorrere alle licenze obbligatorie, previste dal Wto, in caso di gravi emergenze nazionali, per importare un vaccino anche senza il consenso del titolare del brevetto, pur pagandogli alcune royalties. Servirebbe a ridurre il potere delle case farmaceutiche”. Altrimenti è “una gara tra ricchi, con il resto del mondo escluso: almeno per tutto il 2021, il 60 per cento della popolazione mondiale sarà esclusa dai vaccini”.

Contratti segreti, nessun potere di controllo da parte dei cittadini.

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Sì. Anche per l’emergenza covid si sta ripetendo lo scenario che abbiamo sempre denunciato per altre malattie ogni volta che la situazione richiede un farmaco o uno strumento diagnostico nuovi per curarle. E’ successo per l’epatite C, per esempio. Solo che adesso il quadro è ancora più drammatico, perché siamo di fronte ad una pandemia che non riguarda poche decine di migliaia di persone, ma tutti noi. Vediamo due grossi problemi e due ambiti importanti su cui intervenire: da una parte, le aziende farmaceutiche; dall’altra, quello che possono fare gli Stati, l’autorità pubblica.

Prego.

Da un lato, ci sono le aziende farmaceutiche e le loro strategie per ottenere finanziamenti e assicurarsi una fetta di mercato. Sanno che avranno un mercato soprattutto nei paesi occidentali e infatti i grossi accordi li stanno facendo con gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Funziona così: i paesi anticipano il pagamento di una certa quota di dosi, che sono così prenotate.

Dunque, quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen annuncia un contratto con Pfizer per 200 milioni di dosi, significa che queste dosi sono già dell’Europa, prenotate e pagate per il momento in cui arriveranno sul mercato.

Sì. Ma naturalmente non abbiamo i dettagli, non sappiamo se i pagamenti saranno dilazionati per esempio. Sappiamo solo che ci siamo impegnati a comprare 200 milioni di dosi e che abbiamo ‘opzionato’ altre 100 milioni di fiale. Ma, a parte questo dettaglio, noi insistiamo sulla trasparenza. Il pubblico deve conoscere perché la conoscenza è la base per poter contestare condizioni che non riteniamo eque. Non sappiamo troppe cose e, per iniziare, un dibattito che ambisca a essere equo deve fondarsi su documenti pubblici. Le case farmaceutiche non mostrano il minimo di trasparenza sui dettagli relativi ai costi sostenuti per la ricerca, lo sviluppo e la produzione dei vaccini: senza questi elementi, è difficile per il pubblico poter denunciare eventuali speculazioni sul prezzo.

I contratti sono segreti in tutto il mondo?

Sì tranne che in un caso. La Fiocruz, fondazione brasiliana che si occuperà della produzione di una parte dei lotti di AstraZeneca, ha reso pubblico il contratto. Bene. Ma quello che emerge non è molto positivo. Per esempio: gli accordi presi terminano a luglio 2021, come se potessimo decidere ora, a priori, che l’emergenza finirà a luglio 2021.

Incredibile, soprattutto se si pensa che addirittura il Patto di stabilità e crescita, che imponeva vincoli di bilancio agli Stati Ue, è sospeso per pandemia ‘sine die’, ma almeno per tutto il 2021. L’incertezza regna, tranne che per le case farmaceutiche evidentemente.

Per loro è anche un business. Per AstraZeneca, stabilire una scadenza al contratto significa riservarsi il diritto di trattare diverse condizioni di vendita a proprio vantaggio nel prossimo futuro.

Però una parte della responsabilità è degli Stati.

Gli Stati e le Organizzazioni internazionali dovrebbero garantire che i criteri di distribuzione del vaccino siano definiti a livello internazionale e tengano conto degli Stati più poveri che non hanno un potere negoziale perché non possono anticipare soldi per l’acquisto delle dosi. Per questo motivo, per tutto il 2021 se non per tutto il 2022, almeno il 60 per cento della popolazione mondiale verrà tenuta fuori dal vaccino, indipendentemente dalle categorie vulnerabili.

Ma gli Stati, le istituzioni europee hanno a loro disposizione delle contromosse? Possono difendere l’interesse pubblico in qualche modo?

Sì ed è la stessa Organizzazione mondiale del Commercio a fornire delle possibilità. Gli Stati potrebbero fare cartello e far sentire la propria voce per garantirsi le dosi a condizioni eque per tutti il pianeta, non solo per i Paesi più ricchi e con una industria farmaceutica sviluppata. Potrebbero far ricorso alle cosiddette ‘licenze obbligatorie’, previste dai trattati commerciali gestiti dall’Organizzazione mondiale del Commercio che si occupa anche del rilascio dei brevetti. Significa che in caso di grave emergenza nazionale, uno Stato può importare il vaccino senza il consenso del titolare del brevetto, pur garantendogli il pagamento di alcune royalties. Finora solo India e Sud Africa hanno fatto ricorso alle licenze obbligatorie. Germania e Cile si sono espresse a favore ma non hanno intrapreso azioni per garantirsi.

Forse perché hanno un’industria farmaceutica nazionale sulla quale poter contare.

Certamente, la Cina soprattutto farà per sè. Ad ogni modo, se il ricorso alle licenze obbligatorie fosse adottato da più Stati, il potere contrattuale delle case farmaceutiche si ridurrebbe. Se ci fosse un fronte compatto da parte degli Stati su questo punto, sarebbe possibile garantire un maggiore accesso ai vaccini a prezzi più equi perché, di fronte al rischio di dover accettare licenze obbligatorie ovunque, le case farmaceutiche accetterebbero condizioni negoziali più vantaggiose per noi. E invece si sta combattendo una gara tra ricchi, con il resto del mondo che è tagliato fuori: giocano Europa e Stati Uniti.

In sostanza, finora gli Stati le stanno solo finanziando la ricerca senza pretendere molto, messi all’angolo dalla pandemia.

Finora sono stati investiti più di 12 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, sperimentazione e produzione dei 6 possibili vaccini per il Covid-19 sviluppati da AstraZeneca/Oxford University (oltre 1,7 miliardi di dollari), Johnson&Johnson/BiologicalE (1,5 miliardi di dollari), Pfizer/BioNTech (2,5 miliardi di dollari), GlaxoSmithKline/Sanofi Pasteur (2,1 miliardi di dollari), Novavax/Serum Institute of India (quasi 2 miliardi di dollari) e Moderna/Lonza (2,48 miliardi di dollari). Sono i 6 vaccini che probabilmente saranno disponibili dai primi mesi del prossimo anno e sono quelli su cui tutti gli Stati tanno mettendo le mani. AstraZeneca ha addirittura dichiarato diverse volte che lo sviluppo del vaccino non avrà alcuna implicazione finanziaria sull’azienda poiché ‘le spese per lo sviluppo del vaccino sono sostenute dai finanziamenti di governi e organizzazioni internazionali’.

E invece il responsabile ‘Strategia’ della tedesca BioNTech, Ryan Richardson, due giorni fa, in un forum online del Financial Times, ha detto che loro non dipendono dai fondi pubblici e che soprattutto dovranno garantire i privati che hanno investito, aumentando i prezzi delle dosi laddove il capitale di rischio è stato maggiore. Eppure la Biontech ha avuto 100 milioni di euro dalla Banca Europea per gli Investimenti e 375 milioni di euro dal governo tedesco.

Infatti, non è vero che non dipendono dai fondi pubblici. Ed è questa l’arma che dovrebbe darci la forza di chiedere contratti pubblici e non secretati.

L’americana Pfizer però non ha voluto i soldi di Trump, quando era alla Casa Bianca. Loro puntano tutto sul mercato, con buoni frutti evidentemente. E’ di oggi la notizia che il Ceo di Pfizer Albert Bourla ha venduto oltre 132mila delle sue azioni della casa farmaceutica incassando per un valore di 5,6 milioni di dollari, lo stesso giorno in cui Pfizer ha annunciato il potenziale vaccino per il coronavirus. E Bourla è non l’unico ad averlo fatto in azienda. Dal punto di vista legale, si può. Dal punto di vista etico, vuole commentare?

E’ chiaro che quello farmaceutico è un mondo dove le motivazioni non sono ‘umanitarie’ e nessuno pretende che lo siano. Per loro è un business, ma ci deve essere un limite alla speculazione quando le conseguenze toccano la vita e la salute di miliardi di persone.

Senza scienza non c’è salute

Senza scienza non c’è salute (né sviluppo)

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female lab technician doing research with a microscope in the lab. coronavirus

La seconda ondata di Covid-19 è piombata sull’Italia e sull’Europa con violenza aprendo situazioni umane e sociali, politiche e istituzionali, economiche e occupazionali molto gravi. Non rientra nella mie capacità fare un esame della situazione, mentre dei temi economici e sociali tratto spesso su queste colonne così rimanendo nelle mie competenze. Ma anche delle mie convinzioni che sono quelle di un italiano che vede nell’Europa la più civile costruzione democratica per 500 milioni di abitanti e che anche in questa pandemia sta dimostrando la sua forza. Desidero oggi trattare invece della ricerca scientifica con riferimento a tre recenti casi, diversi tra loro, ma anche complementari. Mi riferisco a un recente discorso del presidente Mattarella, alla Commissione Salute dei Lincei, all’incontro tra il presidente Conte e il ministro Manfredi con un piccolo gruppo di studiosi.

Il presidente Mattarella ai Giorni della ricerca e ad Airc

Questa recente riflessione del presidente della Repubblica dovrebbe essere per tutti gli studiosi italiani, siano essi scienziati o umanisti, un riferimento costante e non solo in questa drammatica situazione. Con una certa arbitrarietà ne richiamo solo alcuni passi. Anzitutto rivolgendosi ai rappresentanti della Fondazione Italiana Ricerca sul cancro (Airc), che da anni apre “i Giorni della Ricerca”, il presidente ha sottolineato che la conferma dell’appuntamento annuale al Quirinale, pur in questa grave situazione era ancor “più essenziale, perché la condizione di oggi ci mostra ancor meglio quanto grande sia il valore della ricerca, quanto sia importante per la nostra vita, per il futuro del nostro e degli altri Paesi, per la nostra civiltà”.

Con riferimento specifico all’oncologia egli ha ricordato come la “scienza medica e la ricerca – diagnostica, terapeutica, farmacologica, genetica – unita alla crescita della cultura della prevenzione, ha capovolto i rapporti di forza e oggi sappiamo che il cancro è sempre più curabile, e che la maggior parte dei malati può guarire”.

Muovendo da qui e trattando del Covid il presidente afferma che “sarà sconfitto dalla ricerca… [che] i ricercatori italiani stanno facendo valere le loro qualità, e questo è motivo di orgoglio per il nostro Paese… [che] La voce della ricerca, i dati che ci fornisce, le verifiche che conduce, … ci riportano a una visione razionale dei problemi, senza la quale saremmo più deboli e insicuri. Ci rammentano anche che ciascuno – quale che sia il suo ruolo – deve avvertire il dovere non soltanto di non disperdere lo sforzo collettivo ma di contribuirvi, di non sottrarsi al proprio compito”.

La “Commissione salute” della Accademia dei Lincei

Ritengo che questo metodo e intendimento sia stato adottato dai Lincei. Da marzo una Commissione Salute (meritoriamente voluta dal presidente Parisi) ha elaborato tre versioni successive di un “Rapporto Covid-19” curato dagli immunologi Cecconi, Forni e Mantovani. Nella premessa al terzo rapporto di luglio i curatori segnalano che “la Commissione Salute dell’Accademia Nazionale di Lincei ha ritenuto fosse un suo dovere mettere a disposizione della comunità un riepilogo, necessariamente provvisorio, delle attuali conoscenze sull’origine, sui meccanismi e sui trattamenti a disposizione e in preparazione per il controllo e cura di questa nuova malattia… L’arrivo di nuove pubblicazioni scientifiche e di articoli che riportano nuove conoscenze del campo è continuo. In questo contesto, la preparazione di una revisione del Rapporto Covid-19 è, pertanto, un’impresa rischiosa e gli estensori di questo documento sono ben consci dei loro limiti”.

Il quarto aggiornamento del Rapporto dovrebbe essere imminente come parere della Commissione Salute che se ne assume esplicitamente la responsabilità. È bene qui ricordare che Forni e Mantovani, con Moretta e Rezza, immunologi di rilievo internazionale, avevano già meritoriamente elaborato il Rapporto Vaccini nel 2017 che contribuì a contrastare scientificamente il negazionismo e che allora fu  possibile approvare nella “Assemblea a Classi Riunite dei Lincei”.

Il presidente Conte e il ministro Manfredi dialogano con 15 scienziati

Richiamiamo infine a sostegno della ricerca scientifica una recente proposta di 15 studiosi – coordinati da Luciano Maiani e su impulso di Ugo Amaldi – inviata al presidente Conte e poi discussa ampiamente con lui e il ministro della Università e della Ricerca, Manfredi.

Si tratta della richiesta per aumentare drasticamente, nei prossimi 6 anni, i fondi pubblici per la ricerca per raggiungere nel 2026 l’1,1% del Pil, a partire dall’attuale 0,50%. A tal fine il governo, usando circa 15 miliardi del Recovery Plan, ci avvicinerebbe ai livelli di Francia e Germania per quanto riguarda l’investimento nelle ricerca pubblica. Due paesi da cui l’Italia è ben lontana in quanto noi siamo allo 0.5% del PIL (0.33% per la ricerca di base, 0.17% per la ricerca applicata), cifre che non reggono oggi il confronto con lo 0.75% e 1% rispettivamente di Francia e Germania.

Questo è lo sguardo lungo che non va mai perso di vista dalla ricerca scientifica anche per evitare la massiccia emigrazione dei nostri giovani alla quale il presidente Mattarella ha fatto esplicito riferimento nel citato discorso.

Biden fa cose di sinistra che la sinistra italiana non sa nemmeno immaginare

 

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Agf

La saga delle elezioni presidenziali americane (una saga, come non dovrebbe essere ma lo è, anche a causa di un sistema elettorale vetusto) è stata uno specchio nel quale il centro-sinistra italiano si è riflesso, desideroso di indentificarsi con una grande vittoria. Ma in alcuni casi, quel riflesso è valso a mettere in mostra piccoli e meno piccoli difetti. Per esempio, col magnificare la prima donna vice presidente, Kamala Harris (per giunta rappresentativa di un miscuglio di minoranze razziali) la sinistra ha messo in grandissima luce il suo monocromatismo maschile. L’Italia ha un record straordinario, che i partiti che afferiscono al campo della sinistra (tradizionali fari di emancipazione) poco o nulla hanno fatto per correggerlo: le istituzioni democraticamente elette, dai sindaci delle medio-grandi città ai presidenti delle Regioni, sono incredibilmente mono-genere. Se mettessimo tutti questi eletti in una stanza il colpo d’occhio sarebbe immediato. Vista da fuori, la sinistra istituzionale ha tanto monocromatismo maschile da impressionare chiunque. Ma nessuno sembra accorgersene o impressionarsi, neppure mentre brinda alla prima donna Vice presidente degli Stati Uniti. Si dirà che non il genere, ma la bravura politica deve essere il criterio di selezione. E qui casca l’asino due volte. Prima di tutto perché se il genere fosse un fatto irrilevante non si capisce perché l’elezione di Harris sia stata accolta con tanto entusiasmo. In secondo luogo, perché sulla competenza di molti politici, locali e nazionali, ci sarebbe da stendere un velo pietoso – sarebbero molte le donne capaci di eguagliarli senza sforzo.

Se ci spostiamo verso la periferia di destra dello schieramento istituzionale della sinistra, le cose non vanno meglio. Da queste parti non si è persa l’occasione per salutare quella di Joe Biden come una vittoria ottenuta grazie al centro. Nulla di più impreciso, per non dire sbagliato. I democratici hanno vinto grazie, in primo luogo, alla campagna sincera e convinta di Berny Sanders – come non era avvenuto con Hillary Clinton, che non riuscì infatti a mobilitare il voto dei giovani e delle classi lavoratrici, ovvero molto di quel che i moderati di centro nostrani definiscono con un qualche disgusto “i radical”. Biden rappresenta una coalizione tutt’altro che moderata e centrista. Le diverse richieste politiche di giustizia sociale e redistributiva, di lotta alla discriminazione razziale “sistemica” (parole della Vice Harris), di alleggerimento e anche cancellazione dei debiti degli studenti dei college, di revisione in meglio (cioè con più impegno del pubblico) della riforma sanitaria di Obama (in giudizio alla Corte Suprema), di miglioramento delle condizioni salariali (che ora costringono molti lavoratori al doppio o triplo lavoro, poiché il lavoro certo c’è ma è molto malpagato) – queste richieste sono tutto fuor che centriste. Sono egualitarie e hanno avuto un peso notevole nella vittoria dei democratici. E poi, dove si pensa si trovare “il centro” in un teatro politico e sociale così polarizzato come quello prodotto da quattro anni di retorica violenta e manichea di Trump?

Con i tour virtuali la grande bellezza dei musei italiani non va in lockdown

Chiusi fino al 3 dicembre per le regole anti-Covid, ma è possibile entrarvi virtualmente. Qui vi diciamo in quali

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Italy, Rome, Vatican City, Michelangelo’s “Creation of Adam” fresco painting.

Aree gialle, arancioni e rosse per tutta Italia, ma non per i nostri musei, almeno online. In coordinamento con i provvedimenti varati dalle autorità italiane per far fronte alla situazione sanitaria, saranno tutti chiusi fino al 3 dicembre prossimo, ma basterà andare sul web per scoprire che si stanno impegnando – oggi come a marzo scorso – per portarci a domicilio la loro grande bellezza. Qui di seguito trovate quelli che almeno una volta nella vita vi consigliamo di visitare di persona appena sarà possibile, ma che, nell’attesa, potete imparare a conoscere da casa entrandoci, percorrendone le sale ed ammirandone le opere. Non avete che l’imbarazzo della scelta.

 

Museo degli Uffizi, Firenze

SCREENSHOT TOUR VIRTUALE UFFIZI
Il link del tour virtuale al Museo degli Uffizi di Firenze

“La Nascita di Venere” e “La Primavera”, entrambi del Botticelli, ma anche “Lo Scudo con testa di Medusa” del Caravaggio, “L’Annunciazione” di Leonardo, il “Doppio ritratto dei duchi di Urbino” di Piero della Francesca e il misterioso quando affascinante “L’uomo con la lettera” di Hans Memling. Sono solo alcune delle meraviglie del museo fiorentino che potrete ammirare online. Il tour virtuale del museo fiorentino è davvero molto suggestivo (cliccate qui), visto che potrete percorrere alcune delle sale più belle, digitalizzate e ad alta definizione, con un semplice clic e gratuitamente, ammirandone i capolavori proprio come in un tour dal vivo. Il percorso suggerito inizia dalla “sala delle Dinastie”, con i ritratti dei membri più in vista delle due famiglie – i Medici di Firenze e i Della Rovere di Urbino – che nel Cinquecento hanno contribuito alla formazione delle straordinarie collezioni degli Uffizi. Si entra così in un ambiente dove si trovano tra le più famose opere del Bronzino, come la celeberrima Eleonora da Toledo, vera e propria “regina” di questi spazi, Lorenzo il Magnifico, e il Duca Alessandro de’ Medici, dipinti da Giorgio Vasari, Cosimo il Vecchio e Cosimo I de’ Medici, del Pontormo, Eleonora Gonzaga e suo marito Francesco Maria I della Rovere di Tiziano. Il tour continua nelle sale verdi della pittura veneta del Cinquecento, che accolgono capolavori quali la leggendaria Venere di Urbino e la Flora, entrambe di Tiziano, la Leda e il Cigno del Tintoretto, la “Fornarina” di Sebastiano del Piombo, il ritratto di Giuseppe da Porto con il figlio Adriano, e Venere e Mercurio del Veronese. Grazie ad una tecnologia all’avanguardia nella realizzazione di tour virtuali le sale del museo, minuziosamente riprodotte in ogni singolo dettaglio con tutte le loro opere (sono in tutto 55) possono essere viste dall’alto, nella forma di visualizzazione detta a “casa delle bambole” (“dollhouse”), oppure immergendosi in esse e camminando virtualmente al loro interno, fermandosi davanti ai quadri, proprio come si farebbe nel museo. Ogni dipinto può essere studiato da vicino e, cliccando sulla corrispondente didascalia, appaiono tutte le informazioni essenziali sull’opera, in italiano o in inglese. I capolavori principali hanno poi un link alla scheda dettagliata dell’opera sul sito degli Uffizi. Una sorpresa, poi, vi aspetta nella sala che ospita “La Nuda” di Licinio: dalla finestra potrete ammirare Firenze e l’Arno in una splendida giornata di sole, “un’immersione totale e realistica”, come l’ha definita il direttore Eike Schmidt a cui si deve anche il progetto “Uffizi On Air”. Trattasi di due appuntamenti settimanali in diretta web su Facebook (ogni martedì e venerdì alle 13) alla scoperta dei tesori del Museo da part del pubblico che avrà la possibilità di interagire da casa attraverso commenti e domande in diretta.

 

Museo Egizio, Torino

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Il link  del tour virtuale nel Museo Egizio di Torino

Anche nel caso del bel museo sabaudo basterà un semplice clic per poter entrare nelle sue sale, visitare la mostra Archeologia Invisibile ora in corso e perdersi tra la mummia di Kha e quella di Merit o Henib, oppure poter ammirare i papiri egizi o il sarcofago di Buthenamon. Il tour continua nelle sale del museo, secondo al mondo solo a quello del Cairo. Troverete circa settemila oggetti esposti e selezionati da una collezione di oltre 32.000 pezzi realizzati tra il 4.000 avanti Cristo e il 700 dopo Cristo. La collezione si compone di sculture, statuette, elementi e decorazioni di architettura, sarcofagi, vasi, oggetti quotidiani, mummie, oggetti religiosi e votivi, armi, giochi, arredi, abiti ed oggetti in tessuto e papiri. Estesa su una superficie di oltre 10.000 metri quadri e organizzata sia cronologicamente che per temi, la mostra permanente del museo è stata completamente rinnovata su progetto dello scenografo premio Oscar Dante Ferretti. L’emozione è assicurata.

 

Musei Vaticani, Roma

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Il link del tour virtuale nei Musei Vaticani di Roma

Tra i siti migliori spicca quello dei Musei Vaticani dove potrete vedere anche la Cappella Sistina, tra le emozioni più grandi. I Musei offrono un ricco catalogo digitale che presenta le informazioni essenziali relative alle opere d’arte mobili esposte lungo il percorso di visita e di ciascuna opera esposta ed è possibile reperire le informazioni essenziali, corredate da una o più immagini fotografiche. Da non perdere, oltre al capolavoro di Michelangelo, è la Pinacoteca con le sue 18 sale disposte in ordine cronologico con dipinti che vanno dal Medioevo al 1800. Trattasi di una raccolta ricchissima voluta da Papa Pio XI per riordinare una collezione di quadri, già appartenuti a diversi pontefici. Molte delle opere esposte vennero recuperate da Parigi dopo il Congresso di Vienna (1815) grazie all’intercessione dello scultore Antonio Canova. Attualmente la collezione vanta ben 460 dipinti tra i quali capolavori assoluti di artisti del calibro di Giotto, Leonardo da Vinci, Raffaello, il Perugino e Caravaggio. Se amate la scultura, non fatevi sfuggire il Museo Pio Clementino che venne fondato da Papa Clemente XIV nel 1771 ed è ricco dei più importanti capolavori greci e romani custoditi in Vaticano. Nel Cortile Ottagono, tra le statue più note che potete vedere c’è l’Apollo del Belvedere, copia romana del II secolo d.C. di un originale greco in bronzo, ad opera di Leochares (330-320 a.C.), collocato nell’Agorà di Atene. Qui si trova anche il famoso gruppo del Laocoonte ed il Perseo con la testa di Medusa tra due Pugilatori del Canova. Il resto del percorso comprende Il Museo Gregoriano Egizio, la suggestiva e luminosa Galleria delle Carte Geografiche, il Padiglione delle Carrozze dove c’è anche il modellino della prima locomotiva della Città del Vaticano, le Stanze di Raffaello che costituivano gli appartamenti privati di Papa Giulio II (la Stanza della Segnatura che ospitava la sua biblioteca) e – a fine percorso – la splendida scala elicoidale progettata da Giuseppe Momo nel 1932. Davanti a tanta bellezza, le vertigini sono garantite.

Quello che il virus ci sta insegnando

 

Costretti dalla necessità, molti si rimboccano le maniche e inventano soluzioni che rimarranno utili anche dopo

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“Il virus ci ha costretti a fare in tre settimane quello che avremmo dovuto comunque fare in tre anni”, ha dichiarato ad HuffPost in luglio Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum. “L’80 per cento dei nostri dipendenti è andato in smart working, ma anche quando la pandemia finirà, il 60 per cento continuerà a lavorare da casa. Eliminati gli sprechi di tempo per spostarsi in auto. Molti di noi hanno scoperto programmi e app per le conversazioni video che neanche sapevamo di avere, sui nostri cellulari. Siamo tutti collegati meglio di prima, distanze annullate”.

Una ventata di ottimismo che ora è messa a dura prova dal secondo lockdown. Perché certo, molti lavori si possono fare da remoto. Ma la maggioranza no. Ci vuole la presenza fisica: esattamente quella che ci tocca di nuovo evitare per abbassare la maledetta curva del contagio, che si nutre di prossimità e assembramenti. Eppure, non tutto il male viene per nuocere. Perché anche nei campi in cui soffriamo di più (scuole, bar, ristoranti, spettacoli, trasporti, città spettrali, socialità azzerata) molti stanno inventando soluzioni che rimarranno utili anche dopo il virus.

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DAD: SERVIRÀ ANCHE DOPO IL VIRUS

La famigerata Dad, la didattica a distanza. Che opportunità offre? “La Dad non è un professore che apre Zoom e si mette a parlare su un argomento. Significa utilizzare la tecnologia per coinvolgere gli studenti, farli partecipare, spingerli a creare loro qualcosa”: parola di Marco De Rossi, fondatore di WeSchool, unica piattaforma italiana tra le tre consigliate dal ministero dell’Istruzione per la Dad, e usata ogni giorno da più di un milione di studenti e insegnanti. Basta col prof che parla da remoto e che bisogna star solo ad ascoltare. Bisogna appassionare le classi, ed esistono migliaia di strumenti per riuscirci. I docenti ora possono portare i loro studenti online da web o app attraverso Google Drive, YouTube o Dropbox, condividendo materiali, discutendo, collaborando ed effettuando verifiche e test. Ecco le vere lezioni interattive con video, pdf, documenti Word, Excel, slide, pagine web, gallerie di immagini: su un’unica piattaforma, senza dover passare da un sito all’altro né scaricare file. Agli esercizi vero/falso e a scelta multipla si aggiungono cruciverba, videoquiz, abbinamenti di domande. E non si studia solo la rivoluzione francese o Manzoni: “Gli studenti imparano soft skills utilissimi facendo ricerche online”,  dice De Rossi,  “distinguono i siti affidabili dai fake, si esercitano a comunicare in maniera efficace, leggono i giornali”. Il lavoro in squadra sviluppa capacità di leadership, costruzione di progetti e perfino di siti web.

In Italia venti prof su cento erano ‘digitali’ già prima del virus, e non hanno avuto problemi con la Dad. Il 40% sapeva usare abbastanza il computer, mentre il restante 40% era convinto addirittura che il digitale facesse male alla didattica. Oggi 233mila professori della secondaria, più della metà del totale, sono registrati su WeSchool. “Il professore è il regista che utilizza il digitale per interagire con lo studente, il quale non può stare sei ore davanti al pc ad ascoltare le lezioni”, spiega De Rossi. “Dopo una lezione di due ore lavora a un progetto, poi agisce in team con i compagni di classe. Sempre con il prof come guida”. La Dad sarà solo una parentesi? “Non si può tornare indietro”, conclude De Rossi. “Come lo smart working rivoluzionerà il mondo del lavoro, la didattica a distanza segnerà il mondo della scuola. Naturalmente non tutta la didattica deve essere online. Ci vuole integrazione, unendo la presenza fisica al digitale, come accade già sul lavoro”.

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L’ISOLAMENTO NON DISPIACE AI GIOVANI

Ma la pandemia che effetto sta avendo sui giovani? Il 26 per cento dei 16-19enni sostiene di avere riscoperto l’importanza della libertà, e il 35% apprezza il tempo da gestire autonomamente, secondo uno studio dell’Osservatorio permanente della Link Campus University. Insomma, non la subiscono soltanto. “Altro che generazione con il cellulare sul divano, i teenager si sono reinventati”, spiega Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio, “percependo l’assenza di amici e della scuola in presenza, ma apprezzando altre cose che che prima non c’erano”.

Il 36% valuta positivamente la Dad perché serve alla preparazione scolastica (20%), ma anche perché fa capire l’importanza delle tecnologie (15%). Quasi un quarto degli intervistati dice di guardare Rai Scuola e Rai Cultura. Niente concerti, mostre, teatri,  ma uno studente su tre vede in streaming tv o web concerti e session, un altro terzo legge romanzi o poesie, e il 21% assiste a mostre, esposizioni o tour virtuali. “Insomma, i giovani utilizzano ampiamente i media per arricchire il proprio bagaglio culturale e le proprie competenze”, dice Ferrigni. “Non mi fermo, ma mi formo e mi informo: ecco quello che fanno. Dimostrano di saper utilizzare più degli adulti i social e la rete in maniera consapevole, separandola dalla sfera ludica. Usano la parte buona di Internet”.

Liberi dalla routine e da bisogni materiali, i giovani hanno fatto un uso diverso del loro tempo: “Si sono dedicati a loro stessi, ma non in senso egoistico – spiega il sociologo -. Hanno anteposto la dimensione affettiva, emozionale e relazionale a quella che è la solita dimensione materiale. Hanno riscoperto il piacere di stare con genitori, fratelli e anche con se stessi”. Già abituati a essere connessi virtualmente, per molti giovani il lockdown ha un effetto relativo. Anzi, l’isolamento risulta addirittura più confortevole, ad esempio per gli adolescenti timidi, perché le conversazioni si svolgono in maniera più controllabile. La distinzione fra offline e online, fra virtuale e reale, non è applicabile a generazioni che non conoscono altro modo di essere. La comunicazione può non avere luogo di persona, faccia a faccia, ma è pur sempre uno scambio significativo, che produce sorrisi e incrementare il benessere personale. Lo constatiamo ogni giorno, guardando i volti di giovani – e meno giovani – persi negli schermi dei loro smartphone.

RISTORANTI E BAR: MEGLIO IN PERIFERIA

E il disastro dei ristoranti? C’è chi lo dribblato, addirittura aumentando il fatturato. “Il mio l’ho convertito in delivery-friendly e con il lockdown ho incassato tra il 40 e il 50 per cento in più”, dice Gianni Catani del ristorante Dumpling bar di Roma, specializzato in cucina cinese e ravioli. “Durante il confinamento ho messo in atto una strategia a cui lavoravo da tempo: consegnare a casa piatti cotti al 95 per cento, dando la possibilità ai nostri clienti di ultimare la cottura nelle loro cucine”, ha spiega Catani ad HuffPost. “Arrivata la consegna, bastano trenta secondi in acqua bollente o al vapore per rimettere in piedi un pasto da ristorante. Vendiamo anche il cestino di cottura”. Oggi il Dumpling bar consegna tremila ravioli al giorno in tutta Roma, con una squadra interna di fattorini. “Per noi credo che questo sia il futuro in ogni caso, perché permette di tagliare le spese di un ristorante. Ma naturalmente dubito che vada bene per le trattorie tradizionali”.

Sempre a Roma, il ristorante status symbol della movida di Ponte Milvio, ‘Da Brando’, vede scendere in campo Brando Serra, il titolare, che fa un delivery molto particolare: “La cena la porto io di persona a molti miei clienti, ora che non possono più venire da me”. ‘Asporto’ è la parola magica, ma inutile nasconderselo: pochi bar e ristoranti riescono a pareggiare i conti. Il ristorante storico Camillo, in piazza Navona dal 1890, soffre l’azzeramento dei turisti internazionali che volevano ‘spaghetti meatball’ e ‘fettuccine Alfredo’. E allora Filippo e Tommaso De Sanctis hanno cercato una nuova clientela: “Siamo partiti con l’asporto, ai giovani del quartiere abbiamo proposto i primi aperitivi da portar via, il “drinketto”, e stiamo crescendo”. Il drinketto è lo spritz fatto sul momento e imbottigliato per portarlo via o berlo strada facendo. Per molti romani è la prima volta in piazza Navona, considerata finora soltanto una ‘trappola per turisti’, off limits per i ricercatori di qualità. “Ci stiamo impegnando per offrire la nostra idea di prodotto di buon livello su Piazza Navona, anche e soprattutto per i romani”. Tommaso e Filippo vogliono mantenere i nuovi clienti conosciuti durante la primavera del lockdown, e “anche quando tornerà il turismo di massa cercheremo di intercettare quelli che ora ci leggono sul Gambero Rosso”. Il nuovo menù è innovativo e “world food”: coniuga i classici della cucina romana (carbonara e cacio e pepe) a ramen e tortelli alla piastra giapponesi, e hamburger con pane e salse homemade.

A Milano piangono ristoranti e bar del centro, privi non solo di turisti ma anche degli impiegati che scendevano in pausa pranzo. Però in compenso con lo smart working si sono ripopolati i quartieri dormitorio, anche in periferia. Dove gli affitti per gli esercenti sono molto più bassi, quindi la scommessa più abbordabile. E chi lavora in casa ogni tanto ha voglia di scendere a prendere un po’ d’aria. Così il trentenne Alan dopo il primo lockdown ha aperto il bar 23 in piazzale Martini. Suo padre possiede una rinomata pasticceria a Baggio, ma lui ogni mattina attraversa la città per andare a proporre caffè e brioches dietro porta Vittoria. “Certo, la chiusura alle 18 adesso ci ha dato una mazzata quasi definitiva, cancellandoci gli aperitivi. Però io non mi arrendo, e vado avanti di asporto”. Ha piazzato un tavolino fuori dalla vetrina, e ora i passanti si fermano a prelevare i caffè nei bicchierini di cartone, e i cornetti dentro ai sacchetti di carta. “Fino a ottobre avevo installato sotto gli alberi quattro tavolini e due ombrelloni, naturalmente sono passati i vigili e mi hanno multato perché non avevo rispettato per tredici centimetri lo spazio concesso”.

DANIELE MASCOLO / REUTERS

CASE: BOOM DELL’EDILIZIA

E le città, sopravviveranno al covid? O lo smart working le svuoterà, facendo crollare i prezzi delle case? Secondo Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, il virus le ringiovanirà. Perché gli over 50, quelli che se lo possono permettere, si trasferiranno in piccoli centri di campagna, mare o montagna. Mentre i giovani le ripopoleranno, a cominciare dagli studenti universitari.

Le ricerche di case di campagna, rustici e casali sono aumentate del 29 per cento in primavera ed estate. Sono persone in uscita da Milano, Torino e Roma. Infatti le richieste sono più che triplicate in provincia di Brescia e Alessandria, e i prezzi delle case sono aumentati del 25% nei paesi in provincia di Roma. Il virus sta cambiando anche le caratteristiche delle abitazioni cercate sul mercato. “C’è grande domanda di immobili adeguati all’epoca di convivenza con il virus”, avverte Breglia, “quindi soprattutto case nuove, con più spazi esterni e più funzionali, visto che si vive di più la casa. A Milano a giugno e luglio sono raddoppiate le vendite di immobili di fresca costruzione. L’usato invece soffre e i prezzi scendono. Anche perché spesso bisogna ristrutturarlo”. Ci sarà, quindi, un boom dell’edilizia.

Il secondo lockdown ha provocato una fuga verso le seconde case più ordinata di quella convulsa a marzo. Passare il novembre con vista mare o lago, per chi se lo può permettere grazie allo smart working, è sembrata un’alternativa ragionevole. Ma anche molti non proprietari hanno lasciato le città. “Gli italiani questa volta non si sono fatti trovare impreparati”, dice Marco Celani, presidente di Aigab (Associazione italiana gestori affitti brevi) e ad dell’agenzia Italianway. “Le persone si chiedono: ‘Dove me lo faccio l’isolamento? A Roma, Milano, Torino, dove abito, oppure lontano dal caos cittadino?’. C’è chi si trasferisce nel paesino della nonna dove ha una seconda casa, chi torna al sud, c’è il milanese che decide di affittare un casale in Umbria o in Toscana per tre settimane (‘e se prolungano il lockdown poi vediamo’), c’è chi preferisce non allontanarsi troppo, ma vuole comunque cambiare scenario, memore della clausura di marzo e aprile”.

Italianway stima che sulle 87mila notti vendute da inizio anno, il 20% è all’insegna dell’holiday working: ciò significa che ben 17.400 prenotazioni sono state effettuate da persone che intendevano unire lavoro da remoto e soggiorno in un luogo piacevole. Un fenomeno che mitiga la crisi di agriturismi e b&b. Anche perché i prezzi sono bassi, e vivere fuori dalle grandi città costa meno: “Abbiamo registrato un boom di mete secondarie, dove le tariffe sono convenienti: Abruzzo, Marche, il paesino montano dove nessuno prima d’ora pensava di andare. E ci si organizza insieme ad altre persone: così i costi possono essere divisi”.

GUGLIELMO MANGIAPANE / REUTERS

SMART WORKING PER SEMPRE?

Ma davvero lo smart working svuoterà per sempre del 60% i nostri uffici, come alla banca Mediolanum? “Conviene a tutti, al datore di lavoro e al dipendente. C’è un risparmio da entrambe le parti. Gli unici che ci perdono sono bar e ristoranti, tutto l’indotto intorno ai luoghi di lavoro”, dice ad HuffPost il manager Pier Luigi Celli, ex presidente Luiss e Rai, consigliere d’amministrazione Illy e Unipol. Il lavoro da remoto taglia gli affitti degli uffici e le spese di servizio mensa, pulizie, illuminazione, riscaldamento e telefoni. Il dipendente risparmia su trasporto, pranzo, e non è costretto a vestirsi ogni giorno in giacca e cravatta, dunque risparmia anche sul turnover del vestiario. Celli ha collaborato al libro “Il lavoro da remoto – Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza” a cura dell’ex ministro del Lavoro Michel Martone: “Siamo di fronte a una rivoluzione, che però necessita di essere governata con intelligenza. C’è bisogno di capi illuminati, che smettano di controllare ossessivamente il lavoratore e si fidino finalmente di lui. Solo così il dipendente sarà più sereno, meno stressato, renderà di più anche lontano dall’occhio vigile del capo, e l’azienda ne guadagnerà. Sono sempre le persone che fanno la differenza”. L’anno scorso in Italia lavoravano da casa in 570mila. Nel 2021 saranno quasi otto volte di più: quattro milioni, secondo l’osservatorio “The World After Lockdown” di Nomisma e Crif.

Battiamo le mani a Kamala

 

Battiamo le mani a Kamala, ma da noi è ancora utopia

ASSOCIATED PRESS
Vice President-elect Kamala Harris speaks Saturday, Nov. 7, 2020, in Wilmington, Del. (AP Photo/Andrew Harnik)

Dopo Kamala non ci ferma più nessuno. High Five. Lo abbiamo pensato tutte, noi che bazzichiamo in politica, davanti al discorso della vittoria della prima Vice Presidente donna degli Stati Uniti. Tutte a immaginarci anche noi prima o poi con tailleurino e fiocco bianco in ricordo delle suffragette, pronte a essere le “prime” a ricoprire ruoli finalmente non di terz’ordine, le “prime” da sole sul palco e non sempre un passo indietro all’uomo che alza le braccia in segno di vittoria o un passo in avanti, ma con l’acqua e il bicchiere per lo scranno del vincitore. Lacrime di commozione e sguardi traboccanti di orgoglio femmineo alle nostre figlie, non appena Kamala Harris ci sferra il colpo finale: “Sono la prima donna vicepresidente, ma non sarò certamente l’ultima”. Standing ovation. Anche dai nostri divani.

E poi al via la spammatura selvaggia di foto e sorrisi di Kamala a chiunque e ovunque sulla faccia del globo con eccitazione alle stelle. In effetti, ogni volta l’entusiasmo per i successi delle donne fuori dal nostro paese è inarrestabile. Poi però guardiamo all’Italia e sale lo sconforto.

I progressi verso l’uguaglianza di genere sono talmente lenti da sembrare quasi impercettibili. L’indice sulla presenza delle donne nelle istituzioni politiche ci assegna un punteggio pari al 47,9%, ben sotto paesi a noi vicini come la Francia (81%), la Germania (70%) o il Regno Unito (59 %).

Abbiamo la maglia nera per la presenza di donne ai vertici di aziende quotate; 42% contro il 52% della Francia, il 49% della Svezia e il 46% della Spagna.

Abbiamo una sola donna Presidente di regione e solo il 14% dei sindaci italiani è costuito da donne. Due sole amministrano grandi città (Torino e Roma). Nelle Marche poi all’interno della giunta regionale, troviamo una unica beata tra gli uomini e siamo nel 2020. Nessuna donna a capo di ministeri che veramente contano, come quello dell’economia, e si potrebbe andare avanti ancora a lungo.

Nel centro-sinistra poi le cose non vanno davvero bene; nessuna donna è mai stata a capo di partiti politici, mentre Giorgia Meloni ora si è acchiappata anche la presidenza del partito europeo, nessuna donna a capo di governo e ci mancherebbe altro alla presidenza della Repubblica. L’uguaglianza di genere è una delle bandiere più sventolate nel mondo della sinistra, ma meno praticate.

D’altro canto, siamo il paese in cui la cura ricade per il 75% sulle spalle delle donne, in cui gli stereotipi di genere fanno ancora parte dell’armamentario culturale di moltissimi e in cui per sfondare il soffitto di cristallo devi avere probabilità pari a quelle di vincere la lotteria. Anzi, adesso la tendenza in tempi di crisi è quella del “precipizio di cristallo”, cioè laddove una istituzione o una impresa sono sull’orlo del fallimento come ultima carta da giocare spunta il nome di una donna.

Ma la colpa è anche nostra. Siamo il paese della Sindrome di Cenerentola, dove la parola “potere” viene concepita in modo negativo dalle donne, terrorizzate di fare degli errori (ma perché gli uomini non li fanno?), mentre per gli uomini è un concetto più che positivo; siamo il paese in cui essere cooptate da un uomo per fare carriera politica ci appare più rassicurante che prenderci posizioni di potere da sole.

Eppure, tutte le ricerche ci dicono in modo inequivocabile che laddove le donne sono più presenti, la spinta a introdurre politiche a favore delle famiglie, dei bambini e degli adolescenti, di un welfare moderno è molto più forte. Nella fase attuale poi, in cui dopo la pandemia, i servizi alla persona andranno smontati e rimontati abbiamo bisogno di donne al comando.

Kamala ce l’ha fatta, figlia di immigrati, prima donna afro-asioamericana ad essere eletta procuratore generale in California, poi al Senato e poi alla vicepresidenza degli Stati Uniti con la prospettiva di fare lei il Presidente al prossimo giro. Siamo strafelici, ma diamoci da fare per le Kamala di casa nostra. Non basta più consolarsi con in mano la tazza di Rosie the Riveter, l’operaia americana che mostra i muscoli dell’avambraccio e dice “we can do it”. C’è una battaglia dura da fare. Facciamola.

Covid terrorizza l’Ue

 

Covid terrorizza l’Ue: “Alcuni Stati peggio di marzo”. Picchi in Francia e Gb

Secondo l’Ecdc per l’Italia “il rischio è basso” ma altri Paesi l’allerta è elevata e c’è il “rischio di nuovi lockdown”. Negli Stati Uniti le autorità sanitarie mettono in guardia dai rischi per Halloween. In Israele ulteriori restrizioni

REUTERS
In alto due ragazzi che si allenano in un parco di Madrid, al centro persone in mascherina davanti alla tour Eiffel e due anziane che giocano a carte in mascherina in Spagna, in basso l’attesa in un ospedale di Marsiglia

“La situazione del Covid-19 in alcuni Stati dell’Ue è anche peggiore del picco di marzo, questo è molto preoccupante. E  significa che le misure di controllo adottate non sono state abbastanza efficaci o non sono state applicate, o non sono state seguite come avrebbero dovuto”. Non è un quadro rassicurante per l’Unione europea quello tratteggiato dalla commissaria alla Salute, Stella Kyriakides, in una conferenza stampa sulla valutazione del rischio per gli stati membri. I riflettori sono puntati in particolare sulla Francia, dove alcuni sindaci si ribellano alle restrizioni del governo, e sulla Spagna, dove i casi e i decessi stanno crescendo in modo preoccupante. Oltralpe, la situazione è particolarmente critica a Parigi, classificata ieri come “zona scarlatta”, dove l’allerta è massima, e a Marsiglia, dove è stata disposta la chiusura di bar e ristoranti. Il vicesindaco ha giudicato questa decisione del governo centrale un “affronto”, perché presa “senza concertazione” e chiesto dieci giorni di tempo prima di partire con la stretta. Nel pieno delle polemiche per la nuova stretta sulle regole sanitarie, sulla Francia piombano poi le nuove cifre record dei contagi: 16.096, secondo quanto comunicato dal governo, soltanto nelle ultime 24 ore, un tetto mai raggiunto. Superano per la prima volta quota 1.000, dopo la prima ondata del coronavirus, le rianimazioni, che ospitano ormai 1.048 pazienti (46 in più di ieri). E’ aumentato di 52, da ieri, il numero delle vittime, che sono adesso in totale 31.511.

Nel Paese iberico, invece, ieri sono state registrate 130 vittime e 11.289 contagi. Il giorno prima il numero dei morti aveva toccato quota 241. Secondo l’agenzia europea per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), la Spagna – dove nei giorni scorsi sono state disposte varie misure di contenimento del virus – è da considerare nel gruppo di Stati “ad alto rischio”, insieme con Bulgaria, Romania e Ungheria.

 

Oltremanica, preoccupazione in Gran Bretagna, oggi è stato raggiunto un nuovo picco. Sono stati certificati altri 6.634 contagi contro i 6.178 di ieri. In lieve aumento pure i morti, stimati in altri 40 nelle ultime 24 ore contro 37 censiti ieri, per un totale che sfiora i 42.000 dall’inizio della pandemia. Il Regno Unito ha adesso una media quotidiana di test eseguiti superiore a 200.000 e un totale di ricoveri in ospedale e in terapia intensiva inferiore a quello dell’Italia fino a ieri.

Un gruppo di Paesi poi sta nel mezzo: non siamo ancora ai livelli della Spagna, ma è considerata “preoccupante” la situazione di Paesi come Austria, Danimarca e Francia, in cui il rischio per la popolazione è moderato in generale, ma molto alto per le categorie più vulnerabili.

 

In Italia la situazione sembra essere migliore rispetto ai Paesi vicini. Lo dicono i numeri del contagio, ma anche alcuni esperti. Sono 1786 i nuovi casi di coronavirus in Italia, ma sono oltre 108 mila i tamponi che sono stati effettuati. Il totale dei casi, da inizio emergenza, sale così a 304.323. Nelle ultime 24 ore si registrano 23 decessi. Il totale delle vittime è di 35.781.

Per l’agenzia europea per la prevenzione e il controllo delle malattie “la probabilità complessiva di infezione (nel nostro Paese, ndr) è valutata come bassa”. Stessa considerazione viene fatta per la Germania. L’Ecdc spiega le ragioni della situazione italiana: “A causa della bassa percentuale di casi in persone anziane, e l’attuale bassa percentuale di casi gravi e bassi tassi di notifica di morte, l’impatto della la malattia è valutata come bassa. In questo momento, esiste un rischio complessivo basso di COVID-19 per la popolazione in generale e per il sistema sanitario. Per quanto riguarda gli individui vulnerabili (individui con fattori di rischio per grave malattia COVID-19, come gli anziani) poiché l’impatto della malattia in questi gruppi è molto alto, il rischio complessivo è moderato”. Sul giudizio dell’Ecdc sull’Italia interviene anche il ministro della Salute, Roberto Speranza: “I prossimi mesi non saranno facili e servirà l’impegno di tutti. La situazione in Europa è seria e non può essere sottovalutata. I numeri del contagio stanno crescendo costantemente nelle ultime settimane. Nonostante il giudizio positivo del centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), che ha collocato oggi l’Italia tra i paesi a basso rischio, credo che dobbiamo tenere i piedi per terra e continuare ad investire sulla linea della prudenza”.

 

 

Di fronte all’aumento dei contagi intanto la Campania sceglie l’obbligo di mascherina anche all’aperto: l’ordinanza di De Luca vale fino al 4 ottobre. Provvedimenti analoghi sono già stati presi ieri a Genova per i quartieri centrali, a Latina e provincia e da domani anche a Foggia, di fronte all’incremento degli infetti.

La tensione per la ripresa del contagio non c’è solo in Europa. Continuano a esserci criticità in Israele. Nelle ultime 24 sono stati registrati 6.808 nuovi contagi da Covid 19: è il secondo giorno consecutivo che le infezioni si attestano a quasi 7mila su 52.839 tamponi con un tasso di positività pari al 12.9%. Per tentare di porre un argine al dilagare del virus, il governo ieri notte ha deciso un rafforzamento dell’attuale lockdown, con ulteriori restrizioni.

Dall’altra sponda dell’Atlantico non arrivano buone notizie. In Usa, dove l’epidemia non si è mai fermata, l’autorità sanitaria chiede di cancellare Halloween. Il rito del “dolcetto o scherzetto”, infatti, potrebbe essere un (ennesimo) innesco per la propagazione del virus. Per la festa in calendario il prossimo 31 ottobre, i Center for Disease Control and Prevention esortano a non andare alle feste in costume o nelle “case stregate”, che rischiano di far accelerare ulteriormente la diffusione dell’epidemia. Gli Stati Uniti , emerge dai conteggi della Johns Hopkins University, hanno registrato ieri 37.330 casi di coronavirus e 1.098 morti. I nuovi dati portano il bilancio complessivo dei contagi nel Paese a quota 6.934.205 e quello dei decessi a quota 201.909. Gli Stati Uniti restano, se si guarda ai numeri ufficiali, la nazione più colpita dal Covid-19. Subito dopo c’è l’India.

Rimane complicata la situazione in Sud America. Il Brasile è il terzo stato più colpito dal virus, con 4,59 milioni di contagiati. L’America Latina (area caraibica compresa) si conferma la porzione di pianeta maggiormente piegata dal virus. Il virus, come è noto, non dilaga solo nel Paese governato dal Bolsonaro. In ben tre Stati – Messico, Colombia, Perù – sono stati diagnosticati oltre 700mila contagi (Colombia, Perù e Messico). Solo leggermente meno tragica la situazione in Argentina, dove gli infetti hanno superato quota 650mila. Segue il Cile, con oltre 430 mila positivi. In coda Bolivia, Ecuador, Repubblica Dominicana e Panama, che hanno comunque superato quota 100mila.

L’autunno è appena iniziato, ma il Coronavirus continua a fare paura. E, nell’attesa che si arrivi al vaccino, le incognite su come si evolverà restano. In Europa come nel resto del mondo.

Il Pd vuole rivedere il bicameralismo perfetto

Il Pd depositerà un ddl costituzionale molto ambizioso per “rivedere” il funzionamento delle Camere ampliando l’uso del Parlamento in seduta comune e dando alcune funzioni prevalenti al Senato. Al lavoro Stefano Ceccanti, Enzo Cheli e Luciano Violante

ANTONIO MASIELLO VIA GETTY IMAGES

Il cantiere delle riforme istituzionali non solo è aperto, ma Nicola Zingaretti intende procedere spedito. Per capitalizzare il 3-3 alle Regionali con l’immagine di un quadro in movimento. E soprattutto per rassicurare il “popolo del No” al referendum, come ha già detto, che i suoi dubbi non rimarranno primi di rappresentanza. E dunque, proprio in queste ore i dem stanno tracciando la road map delle riforme promesse: prossima settimana, o al massimo la successiva, approderà in aula a Montecitorio il voto ai 18enni per eleggere i senatori; entro fine ottobre, sempre alla Camera, il ddl Fornaro con i contrappesi istituzionali.

Ma soprattutto, sta per essere depositato – forse già domani – un ddl costituzionale molto ambizioso, che si propone di “rivedere” il bicameralismo perfetto ampliando in modo sostanziale l’uso del Parlamento in seduta comune – che dopo il taglio scenderà da 915 a 600 componenti, diventando molto più gestibile – attribuendogli i compiti di votare la fiducia e la sfiducia costruttiva (di nuova introduzione), le leggi di bilancio e gli interventi del premier in occasione dei vertici europei. In sostanza, diventerebbe la sede unitaria di indirizzo politico. In parallelo verrebbe ridotta la “navetta”, ovvero la spola estenuante dei testi tra i due rami parlamentari che allunga molti i tempi di approvazione, potenziando i poteri di Montecitorio. Mentre il Senato, integrato da un “consigliere-senatore” per ogni Regione, prevarrebbe sul federalismo fiscale e otterrebbe l’esclusiva sui poteri di inchiesta.

Grande assente di questo scenario è la legge elettorale, che si prevede fumosamente di calendarizzare proprio dopo l’abbassamento della soglia di elettorato attivo per Palazzo Madama e dopo il ddl Fornaro. Motivi di equilibrio del sistema che non fanno una grinza, ma anche un ragionamento politico che al Nazareno hanno ben presente: con Cinquestelle, Italia Viva e Forza Italia agitati dal risultato elettorale, il rischio è che qualsiasi testo finisca impallinato dai sostenitori dello status quo. “Parlare di qualsiasi legge elettorale adesso, sarebbe un atto temerario ai limiti dell’autolesionismo” sintetizza un parlamentare. E dunque, tutto fermo in attesa di tempi migliori.

L’occasione, viceversa, è propizia per un cavallo di battaglia storico del centrosinistra, che è stato anche alla base di molte critiche rispetto al “taglio lineare” dell’attuale riforma: la revisione del bicameralismo paritario. Al testo stanno lavorando il costituzionalista Stefano Ceccanti – sherpa delle riforme in casa Pd – e Dario Parrini, senatore e presidente commissione Affari Costituzionali, con l’apporto di Luciano Violante ed Enzo Cheli, e la “supervisione” dell’ ex ministro Roberta Pinotti, responsabile Riforme della segreteria. In adempimento al mandato di ridisegnare l’architettura istituzionale arrivato direttamente da Zingaretti al termine della direzione che ha posizionato ufficialmente il partito sul Sì al referendum. Un modo, anche, di ricompattare i Dem.

L’idea di fondo, suggerita da Cheli, è che sforbiciato di un terzo il Parlamento in seduta comune possa diventare ben di più di un “seggio elettorale” per le grandi occasioni e funzionare come Camera unica per discutere e votare. Tre i nuovi compiti che il ddl costituzionale gli assegnerà. Il potere di votare la fiducia e la sfiducia costruttiva, che verrà introdotta nel sistema sul modello tedesco (secondo cui nella mozione di sfiducia bisognerà indicare il nome del futuro premier). Il secondo compito sarà la votazione delle leggi di Bilancio, le manovre finanziarie che ogni autunno assorbono l’agenda politico-parlamentare. Infine, verrà costituzionalizzato l’obbligo di intervento del premier in aula prima e dopo ogni vertice europeo, eliminando però il discorso-fotocopia nelle due Camere.

L’ultimo elemento del testo, frutto di una proposta avanzata da Violante, differenzierà ulteriormente le funzioni consentendo alla Camera di prevalere nel voto sulle leggi ordinarie, a scapito quindi dell’attuale “navetta” per cui se un ramo apporta modifiche anche minime il testo deve tornare nell’altro ramo per la bollinatura. Il nuovo Senato da 200 componenti, però, verrebbe integrato da un senatore-consigliere regionale per ogni Regione e avrebbe un ruolo rafforzato sui principi della legislazione concorrente e sul federalismo fiscale. Palazzo Madama, infine, si verrebbe concessa l’esclusiva sui poteri di inchiesta e sulle relative commissioni. Nel complesso, un bottino non magro per la Camera Alta e un riequilibrio del sistema nel senso dell’efficienza e della rapidità chieste dagli elettori. Un progetto che però, richiedendo l’iter costituzionale, è solo agli albori.

Prossimo appuntamento, invece, per la legge che abbassa l’età per votare i senatori, tornata a Montecitorio dopo il varo al Senato: martedì l’ufficio di presidenza dovrebbe fissare l’aula per la settimana prossima o al massimo quella successiva. Con l’obiettivo che questa modifica entri in vigore già alla fine dell’anno. A fine mese è previsto l’arrivo nell’emiciclo del ddl Fornaro, che deve concludere l’esame dei quasi 400 emendamenti in commissione Affari Costituzionali. Mentre più o meno entro metà dicembre dovrebbero essere ridisegnati i collegi elettorali. Un percorso complesso. Ma che i risultati del 20 settembre hanno reso molto più agevole.

Come cambierà il fisco

Come cambierà il fisco: assegno unico per l’Irpef e taglio alla foresta dei bonus

Prime misure con la legge di bilancio. Poi le deleghe su famiglia e imposte. La prima dote dovrebbe arrivare dal taglio dei sussidi ambientali dannosi

di Davide Colombo e Marco Mobili

Gualtieri: polemiche inutili, il Piano rilancio cambierà l’Italia

3′ di lettura

Dal taglio dei sussidi ambientali dannosi (Sad) dovrebbe arrivare la prima dote per avviare la riforma fiscale. Almeno 2,8 miliardi di euro a regime, stimano dall’Ambiente. Riforma che, leggendo le recenti linee guida sul «Piano Nazionale Ripresa e Resilienza Italia» (Pnrr), richiederà un percorso a tappe per la sua messa a punto e la successiva attuazione, come del resto ha sempre sostenuto il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Gli obiettivi dichiarati sono noti: si dovrà migliorare equità, efficienza e trasparenza del nostro sistema tributario, incentivare l’occupazione e gli investimenti materiali, nonché quelli in ricerca e sviluppo delle imprese.

Il taglio dei sussidi ambientali dannosi

La «debonusizzazione», per dirla alla Gualtieri, partendo proprio dai sussidi ambientali dannosi, dovrebbe fornire un importante «contributo al conseguimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale». La sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra (Leu), grande esperta di questioni fiscali, chiarisce meglio il punto: «Siamo consapevoli che la tassazione sull’energia è già molto elevata nel nostro Paese ma siamo al tempo stesso convinti che la leva fiscale potrebbe dare buoni risultati a sostegno della transizione ecologica indicata come prioritaria nei piani del governo e da costruire in coerenza con le norme europee». In questo senso le minori spese fiscali legate al taglio dei Sad verrebbero, almeno nelle intenzioni dell’Esecutivo, utilizzate a compensazione delle imprese dei settori colpite dal taglio dei sussidi fiscali.

Riforma Irpef e tax expenditures

Le linee di intervento per il nuovo fisco sono fondamentalmente due: riforma Irpef coordinata con il futuro Assegno unico e riforma delle tax expenditure in una prospettiva green. Mentre prima della sua entrata in vigore, a gennaio, verrà modificata la plastic tax, in coerenza con il quadro europeo. E a livello tecnico sta andando avanti anche l’istruttoria sulla semplificazione, proposta dal direttore delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, sull’Irpef per le imprese, che dovrebbe passare ai pagamenti mensili per cassa, concepiti per superare il meccanismo acconti/saldi. È una riforma costosa – si limitano per ora a far sapere i tecnici che lavorano a questo dossier – e apre un problema per gli accantonamenti indeducibili (per esempio il Tfr).

La roadmap delle riforme fiscali
Sui tempi di realizzazione una indicazione arriva sempre dalle linee guida del Governo sul Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, dove si prevede l’emanazione di una legge delega entro la fine di quest’anno, collegata alla legge di Bilancio, e l’attuazione con i decreti delegati entro la fine del 2021. Per la nuova Irpef, la nuova Ires o le nuove regole del contenzioso tributario si dovrà dunque attendere il 1° gennaio 2022. La delega correrebbe in parallelo all’altra delega in fase di approvazione al Senato sull’Assegno unico, mentre il family act (che prevede di rafforzare i servizi e non agire sui trasferimenti monetari) viaggerebbe per altro binario. Nuova Irpef e Assegno unico devono essere concepiti in stretto coordinamento per garantire progressività e equità (per esempio: riconoscere l’Assegno unico anche agli autonomi che non versano contributi deve mettere in discussione gli oltre 2 miliardi annui che i dipendenti versano per finanziare gli attuali assegni familiari). Il disegno di legge delega che prevede l’Assegno unico universale per i figli fino a 21 anni, vale ricordarlo, potrebbe a sua volta richiedere a regime non meno di 10 miliardi di euro aggiuntivi per la copertura. Lo schema, come si ricorderà, prevede l’abrogazione di otto misure in denaro oggi in vigore che trasferiscono circa 15,5 miliardi l’anno. Da qui la necessità di gestire questa riforma in stretto collegamento con l’Irpef.

Taglio del cuneo, caccia alle risorse per renderlo strutturale

Nel frattempo con la legge di Bilancio 2021-2023 si dovranno trovare le risorse per rendere strutturale il taglio del cuneo in vigore dal 1° luglio scorso e magari iniziare già a rivedere «in chiave progressiva» (precisazione contenuta anche nelle linee guida del Pnrr che esclude di fatto ogni forma di flat tax) la curva dell’Irpef. Un obiettivo anche questo importante visto anche che per la sola conferma del taglio del cuneo in vigore da soli tre mesi serviranno non meno di tre miliardi. Dal 1° gennaio prossimo, infatti, è finanziato soltanto il bonus di 100 euro (i vecchi 80 euro di Renzi potenziati da luglio scorso) per chi ha redditi fino a 28mila euro. Per «l’ulteriore detrazione da lavoro dipendente» riconosciuta a chi ha redditi dai 28mila euro fino a 40mila euro dal 1° gennaio occorrono almeno 3 miliardi di euro per confermare lo sconto fiscale per tutto il 2021.